di Pier Lodovico Rupi
(ingegnere, architetto, già incaricato di un corso integrativo di Urbanistica Univ. Arch. di Firenze)
Giro per le città pre-marxiste della mia regione, la Toscana. Nel centro di Siena attraverso la città medioevale con le sue meraviglie, scopro una trama splendida, ricca di immagini, di visioni che si aprono all’improvviso. È un’esperienza straordinaria.
Mi reco nel centro di Pisa e di Volterra, di Pistoia e di Serravalle, vado in altre città della toscana e dovunque la parte più antica mi appare eccezionale. Mi spingo un po’ all’esterno della parte più antica, percorro parti costruite nei secoli successivi, fino a ritrovarmi nelle città dell’ ‘800 e continuo a stupirmi per le proporzioni e l’armonia da esse espresse.
A Firenze trovo grandi viali alberati, salgo per il viale Michelangiolo e arrivo al piazzale, tutti spazi strepitosi. Mi sposto in altre città, a Pisa e a Montecatini, a Lucca e a Viareggio, e anche qui la città dell’Ottocento è elegante e ben strutturata, con ampi viali, grandi parchi, affascinanti viste prospettiche.
Ad Arezzo, che è la mia città, c’è la piazza ottocentesca con le quattro strade che segna con chiarezza ed efficacia la nuova struttura urbana in funzione della sopraggiunta ferrovia.
Ai margini delle sistemazioni ottocentesche, entrando nella parte costruita nei primi decenni del Novecento, trovo ancora una città di qualità. A Firenze, la piazza della Stazione mi appare uno spazio perfetto.
Continuando a girare per la toscana, gli interventi degli anni ’30 di Livorno, o il viale tra il centro e la stazione di Prato, il viale lungomare della Versilia, i “giardinetti” di Arezzo che avvolgono il centro storico, pur danneggiati da interventi di anni recenti, si presentano ancora come pregevoli pezzi di città, strutture urbane equilibrate ed armoniose.
Ugualmente, se esco dalla Toscana e mi reco in altri luoghi, da Bergamo a Torino, dall’EUR a Latina, dovunque mi compaiono eccellenti parti urbane realizzate nei primi quarant’anni del secolo scorso, siano esse caratterizzate dall’architettura liberty, o da quella umbertina, dallo stile novecento o da quello littorio.
Adesso, mi spingo ancora un po’ verso l’esterno ed arrivo nella città costruita dopo il 1945. Mi accorgo subito di essere entrato bruscamente in un luogo diverso, in una città alternativa rispetto a quella percorsa fino ad allora, una città desolata, composta da successioni di casermoni uniformi e squallidi.
Sono entrato nella città marxista.
Per spiegare questa aggettivazione occorre ragguagliare il lettore che negli anni ’20, Stalin incaricò un gruppo di architetti guidato da Ernst May, di teorizzare la città proletaria derivante dai principi del collettivismo e contrapposta a quella borghese. La teoria si materializzò in un modello di città composta da grossi contenitori dove assemblare la popolazione in spazi strettamente essenziali.
Blocchi geometrici a stecche ripetute per rappresentare l’egualitarismo, con le forme irrigidite della prefabbricazione pesante secondo il mito dell’economia di scala, prive di negozi individuali per il rigetto del sistema di mercato, senza alcuna concessione all’estetica considerata pregiudizio borghese, senza elementi di identificazione secondo l’ideologia del collettivismo.
Questi principi furono rigorosamente applicati nei nuovi quartieri dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti.
Ad applicare questi principi in Italia ha provveduto una lobby di urbanisti che, omologatasi al PCI nel primo dopoguerra quando spirava forte il vento dell’ideologia marxista, nell’insipienza delle altre parti politiche, ha preso il potere nelle università, nelle istituzioni culturali, nell’editoria, nei rapporti con lo Stato e con gli altri Enti, e da allora ha dominato in modo totalizzante nella teoria e ha avuto il monopolio nella prassi a tutti i livelli, nazionale, regionale e comunale.
Così, attraverso i Piani Regolatori e le relative Norme di Attuazione comunali, totalmente gestiti dall’urbanistica dominante, sono stati imposti in Italia i principi del collettivismo, con qualche digressione e attenuazione dovute alle resistenze della realtà economica e sociale, determinando comunque gli squallidi e desolanti risultati delle parti urbane costruite dopo il 1945.
Il modello marxista è stato invece rigorosamente applicato nei “Villaggi Popolari”, dove gli urbanisti della sinistra hanno potuto gestire, senza inframmettenze, l’intero processo costruttivo, dalla struttura urbanistica al progetto edilizio, determinando i risultati più infami, che ben conosciamo.
Di essi, valga per tutti richiamare lo ZEN di Palermo, progettato da uno dei loro più famosi campioni.
(A.C. Valdera)