di Stefano Fontana
Quest’opera dell’argentino Padre Julio Meinvielle (1905-1973) viene pubblicata in Italia per la prima volta per la cura di Padre Arturo A. Ruiz Freites dell’Instituto del Verbo Encarnado (IVE). Il libro era apparso per la prima volta nel 1932, il suo impianto teologico è dichiaratamente tomista e il suo orizzonte prossimo sono le encicliche di Leone XIII.
Se togliamo qualche accentuazione legata ai tempi, le verità esposte da Meinvielle sulla visione cattolica della politica sono valide anche oggi perché sono le verità di sempre. Bisogna però riconoscere che le verità enunciate con grande chiarezza da Meinvielle, dopo il Concilio sono state dette dai teologi con riluttanza oppure sono state completamente dimenticate. Non si può dire lo stesso, però, per il Magistero sociale che, modulandole diversamente, le ha sempre ribadite.
Prendiamo, per esempio, il tema dell’autonomia del temporale rispetto allo spirituale, o del piano naturale rispetto a quello soprannaturale. Si tratta del vero tema della politica. Su questo terreno, infatti, si gioca la possibilità stessa di una visione cattolica della politica, viceversa si ha solo una visione politica del cattolicesimo. Menvielle inizia con il dire che il fine della politica è l’uomo, il che potrebbe far pensare ad una estromissione di Dio, secondo le modalità di un antropocentrismo sbilanciato tanto presente nell’epoca postconciliare, ma subito dopo precisa che la Chiesa «prima di dare una politica cristiana ordinò l’uomo e ci diede il cristiano» (p. 151).
Quindi la politica cattolica non è dell’uomo, ma dell’uomo ordinato, ossia del cristiano. Il cristiano, infatti, è qualcosa di più dell’uomo e questo qualcosa di più è costituito dalla vita della “nuova creatura”. A questo punto, però, sorge un altro problema: il cristiano non può essere semplicemente l’uomo più qualche cosa, perché allora la vita di grazia si aggiungerebbe estrinsecamente alla vita naturale che, in quanto naturale, sarebbe già compiuta in sé. Ed infatti Meinvielle chiarisce subito che «l’uomo cattolico non è uomo e in più cattolico (p. 152), egli è un’unità perché la vita cattolica assume e sopraeleva tutta la vita umana.
Per questo la politica deve «uniformarsi alla vita soprannaturale»: «nell’economia presente, tutto questo ordine è sopraelevato al fine soprannaturale che Dio ha dato all’uomo» (p. 153). Ecco allora un sistema nel quale la politica gode della propria legittima autonomia proprio perché è guidata dalla legislazione del Creatore che ha posto i limiti di ogni cosa e perché è finalizzata indirettamente alla salvezza eterna delle anime. Per dirla con la bellissima sintesi che si legge nella Conclusione del libro: «La politica, come la vuole la Chiesa, non è possibile senza Gesù Cristo e non c’è niente di veramente umano che possa raggiungere la propria integrità senza di Lui» (p. 357). Ma questo è l’insegnamento anche del Concilio e di tutti i Pontefici successivi, è l’insegnamento irriformabile della Chiesa.
La politica è guidata dalla legislazione del Creatore attraverso la legge naturale, che è «la costituzione interna corrispondente ad un modo specifico di operare» (p. 167). L’uomo gode quindi di autonomia. Egli però, è perfetto ma non è la perfezione – è un «infinito in potenza», come dice San Tommaso – quindi egli deve aspirare alla perfezione e raggiungerla con i suoi atti.
Non appartiene alla sua autonomia agire male, ma alla sua debolezza. L’utonomismo distrugge l’uomo. Così è anche per la politica, che gode di autonomia, ma muore di autonomismo. La legge naturale rifulge alla luce della ragione «e questa luce è come l’impronta nell’uomo della luce divina che ha segnato i limiti di ogni cosa» (p. 169). Ecco perché possiamo dire che è Dio Creatore l’autore della società politica e «anche in uno stato di innocenza gli uomini sarebbero vissuti socialmente e ci sarebbe stato chi avrebbe comandato sugli altri» (p. 176).
La centralità di Dio nella costruzione della società oggi è messa in discussione su due punti fondamentali: il primo è il concetto di “bene comune” che viene inteso solo in senso terreno; il secondo è il concetto di laicità dello Stato, che lo libererebbe da rapporti di sudditanza nei confronti della Chiesa. Su questi due temi Meinvielle conduce delle importanti riflessioni.
Vediamo prima di tutto il bene comune. Esso consiste nel «Totum bene vivere» ossia nel bene umano. Esso è sottoposto al bene morale, e quindi a Dio, Bene supremo e Fine ultimo. «Se la politica mirasse solo a procurare i beni economici, a detrimento di quelli morali, si corromperebbe a tal punto che sarebbe incapace di procurare quegli stessi beni economici» (p. 178).
Se dal bene comune si toglie la sua finalizzazione a Dio, si finisce per non riuscire a garantirlo nemmeno sul piano materiale. Si torna qui all’insufficienza del piano naturale rispetto a quello soprannaturale anche per il conseguimento degli stessi beni naturali. Ecco perché il bene comune non è solo materiale, ma non è nemmeno solo etico, esso deve tendere al soprannaturale.
Ciò non significa che la politica debba portare gli uomini alla vita eterna, non ne è capace, ma che deve tenerne conto e mettersene al servizio. «Solo il diavolo ha potuto allucinare con questa mostruosa imbecillità le nazioni cristiane, convincendole che ci sono settori dell’attività umana che bastano a se stessi , dotati del privilegio dell’aseità, e che non hanno bisogno di piegarsi né alla Chiesa né a Dio» (p. 184).
Veniamo quindi al tema della laicità dello Stato. La politica, sostiene Meinvielle, è «un’etica che ha come legge fondamentale quella di assicurare il bene comune terrestre delle famiglie congregate nel corpo sociale» (p. 193). Perciò «lo Stato deve tenere conto della sua [dell’uomo] elevazione soprannaturale, senza dettare nulla che possa ostacolare questa elevazione, offrendogli nello stesso tempo tutti gli altri beni umani, in modo tale da predisporlo, nell’ordine naturale, per raggiungere queste sopraelevazione» (p. 193). Lo Stato non sopraeleva nulla, ma deve sapere che «è impossibile nell’economia attuale assicurare l’integrità delle virtù morali senza l’influenza soprannaturale … è dunque necessaria la società spirituale per la costituzione integra di una società politica» (p. 250).
Il pensiero liberale moderno, sostiene Meinvielle, ha quasi eliminato questa concezione. Per esso la società politica è «una somma di individui sciolti da ogni vincolo sociale, sotto l’azione di un potere da loro condizionato tramite il suffragio universale conglomerato in una assoluta uguaglianza quantitativa di tutte le libertà individuali» (p. 251); «lo Stato è allora un enorme mostro incaricato di somministrare una uguale porzione di cibo, lavoro e istruzione a tutti gli individui che vivono assorti nelle proprie viscere» (p. 254). Parole chiare, fortemente anticipatrici se si tiene conto della data in cui sono state scritte.
Il riferimento a Dio, secondo Meinvielle, è anche importante per il fondamento dell’autorità. Per il conseguimento del bene comune come sopra è stato definito c’è bisogno di una autorità pubblica ed esiste un diritto delle persone alla sovranità, che Meinvielle così definisce: «facoltà che compete a tutta la società, pienamente sufficiente nell’ambito temporale, di procurare il proprio fine» (p. 194). Quindi «anche la sovranità politica è di ordine naturale, il che significa che ha Dio come autore» (p. 195). Se non si fonda su Dio, ogni autorità è una tirannia (p. 203). Infatti, nessuno ha di per sé il diritto di comandare ad un altro uomo. Senza fondamento divino si ha o anarchia o tirannia.
Una parte cospicua del saggio di Menvielle è dedicata alla democrazia. Importante è la sezione in cui critica la tesi secondo cui la sovranità appartiene al popolo. Sulla scia di Aristotele e San Tommaso egli distingue tra Democrazia e Politia, o Repubblica. La democrazia è ingiusta in quanto l’uguaglianza naturale non esiste. La tendenza che la ispira però non è cattiva: «assicurare la libertà del corpo sociale nel movimento verso il bene comune» (p. 279); «la partecipazione di tutti i cittadini al governo è di per sé buona, la partecipazione aritmetica ugualitaria è cattiva, perché conduce al governo di una classe, e precisamente la meno capace» (p. 280).
La democrazia moderna, secondo Meinvielle, si avvale dei partiti, che hanno secondo lui aspetti di grade negatività. Essi sono un elemento oligarchico che contraddice quello democratico del suffragio universale: «rappresentato dalla minoranza dei più audaci, trafficando con i voti, si appropriano del governo effettivo e lo sfruttano a vantaggio delle proprie convenienze» (p. 291); «sono società di schiavi in cui una moltitudine lavora per il godimento di pochi che usufruiscono di tutti i privilegi ma d’altra parte una moltitudine senza coscienza dei suoi veri diritti e del suo vero bene, disorganizzata, incapace di esigere e di reclamare nulla efficacemente, imbruttita e soddisfatta con certi sfoghi, come il suffragio universale, che le fornisce quel carnevale politico di cui conosciamo le tristi e brutte conseguenze (p. 292).
Meinvielle ritiene che la Chiesa tolleri la democrazia come fatto irrimediabile ma non l’abbia mai legittimata. Giovanni Paolo II nella Centesimus annus dice che la Chiesa “apprezza” la democrazia e non semplicemente la tollera, però è vero che quando il Magistero sociale postconciliare ne parla adopera molti degli argomenti di Meinvielle. Condivisibile è certamente che la modernità non è in grado di fondare una vera Politia, ma solo una democrazia con tutti i difetti denunciati dal nostro Autore.
Di grande interesse sono le pagine dedicate alle funzioni dello Stato. «Lo Stato – afferma Meinvielle – non ha altra ragione d’essere se non quella di imporre un ordine pubblico di convivenza umana basato sulla giustizia», ma purtroppo questo diventa difficile «per l’incapacità metafisica degli uomini moderni (p. 320), «ed è questo in cui precisamente consiste la grande tragedia della società moderna. Non soltanto lo Stato non impone l’ordine pubblico ma lo altera e lo corrompe. I costumi pubblici e la società sono peggiori, più immorali e sprovvisti di carattere degli individui. La totalità pesa con le sue abitudini sulla moralità dei suoi componenti, e corrompe la maggior parte di loro. La maggioranza sarebbe felice di poter vivere libera secondo la propria coscienza ma soccombe di fronte al potere corruttore della morale pubblica, perché il potere di farle fronte, senza pregiudicarne il carattere, è proprio soltanto di pochi favoriti da Dio» (p. 321). Parole sicuramente dure ma difficili da confutare.
La riscoperta di opere come questa di Padre Julio Meinvielle è utile non per tornare al passato storico o a forme di rapporto tra Stato e Chiesa corrette ma superate, bensì per far transitare anche nel futuro le verità di sempre circa la visione cattolica della politica che la saggezza umana – se nel frattempo non sarà completamente corrotta – e la Provvidenza divina renderanno, quando sarà giunto il tempo, possibili.
_________________
[1] P. Julio Meinvielle, Concezione cattolica della politica, a cura di P. Arturo A. Ruiz Freites IVE, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme 2011.