Il Nuovo Arengario 19 Aprile 2021
di Andrea Cionci
Sappiamo bene come il pensiero unico, per sua stessa definizione, tenda a imporre alla comunità un unico modo di pensare, pena l’esclusione sociale degli individui non allineati. Tuttavia, questa pericolosa forma di omologazione, da alcuni anni, sta tracimando anche nel campo delle emozioni.
Non ci viene più detto solo quello che dobbiamo pensare, ma anche quello che dobbiamo “sentire”. La confisca emozionale più comune è quella del concetto di odio, per cui si passa per “haters”, se non si è d’accordo con i “maestri” i quali, da parte loro, possono odiare chiunque, liberamente e ferocemente. QUI
Ma fra i vari sentimenti sottoposti a sequestro preventivo vi è anche quello del Disgusto. Fateci caso: non si è più liberi di esprimere semplice fastidio o viva ripugnanza per talune cose e comportamenti.
Il disgusto fu trattato dal filosofo ebreo convertito al Cattolicesimo Aurel Kolnai il quale, in “Der Ekel” (1929), citava una preghiera del poeta Franz Werfel, “Gesù e la via delle carogne”, dove Cristo domanda al Padre un amore più forte del disgusto, con il quale poter redimere un’umanità che non è più di “un fiume di carogne”.
Una pietà soprannaturale, dunque, invocata volontariamente e individualmente per superare un senso che nemmeno Cristo osava mettere in discussione nella sua naturale fondatezza. Il dono divino fu elargito a quei santi che seppero vincere, ad esempio, il comprensibile schifo per le pustole, le sporcizie e le deformità di lebbrosi e derelitti.
Ma, appunto, Kolnai non pensava certo a un’imposizione da parte dei media volta a sdoganare forzatamente le istanze di certe bellicose minoranze, così come avviene oggi. Un esempio? L’insistenza ossessiva e femministoide verso l’ostensione pubblicitaria, sempre più orgogliosa, di tutto quello che riguarda l’igiene intima delle donne, con dettagli che, se una volta venivano appena evocati con eufemismi, oggi sbocciano in tutta la loro realistica verosimiglianza, in tv, ad ora di cena e davanti ai bambini.
Se vogliamo ammettere che si tratta pur sempre del “miracolo della vita”, perché non si parla mai dell’igiene sessuale maschile, sottoposta anch’essa a involontarie funzioni spontanee? Se tutti i prodotti del corpo fanno, dunque, parte della natura, quali meritano di essere menzionati, illustrati, esibiti e quali no?
Pensiamo al latte: soprattutto nei paesi anglosassoni, una mamma che porta al seno il proprio neonato viene vista con avversione, tanto da costringerla a usare una specie di burqa. Eppure quasi tutti, abbiamo succhiato il latte dal seno di nostra madre: è un atto antico quanto i l’uomo, immortalato persino nell’arte sacra dai più grandi pittori.
A proposito di scandalo, cosa diremmo se, ad esempio, qualche brillante pubblicitario proponesse la scena di un uomo di 90 anni che bacia una diciottenne? Chi decide quali legami amorosi possano essere esibiti e quali no? Dopotutto, sarebbero entrambi maggiorenni consenzienti per i quali l’”amore è amore” e quindi dovremmo accettare i diritti alla visibilità anche di una eventuale lobby di gerontofili.
Così come un altro paradosso è quello per cui se provate ribrezzo all’idea di nutrirvi di insetti rischiate di passare per barbari insensibili verso le sorti del pianeta, mentre se siete cacciatori e postate sui social il cinghiale che avete abbattuto, in molti proveranno orrore.
Eppure, se l’uomo ha imparato a temere gli insetti in quanto parassiti o indice di cibo avariato, la selvaggina è stata da sempre il suo più corroborante alimento. Ecco che la spiegazione sulle origini del “comune senso del disgusto” ci è offerto proprio dalla natura che ne evidenzia la sua ovvia, darwiniana funzione evolutiva: la repulsione per materie sporche, contaminanti, possibile veicolo di infezione, ha sempre avuto lo scopo di proteggere la salute dell’uomo, così come l’avversione istintiva ad alcuni comportamenti disfunzionali alla sopravvivenza della specie.
In particolare, la visione del sangue umano, per i maschi, evoca ferite, morte, violenza: una paura utile per fuggire o combattere. Non è un caso che, dal teatro greco fino a tempi recenti, fosse severamente proibita, sul palcoscenico, qualsiasi simulazione realistica del rosso fluido vitale. Ecco perché le donne hanno sempre gestito i loro incruenti sanguinamenti nel privato, garbo di cui dovrebbero essere ringraziate.
La storia dell’arte propone da millenni tantissime scene d’amore fra un uomo e una donna giovani e aitanti poiché parte del più sano e naturale processo rigenerativo del gruppo sociale. Tutte le forme di erotismo alternativo, proporzionalmente, non sono state quasi mai rappresentate e quindi, almeno da un punto di vista visivo, siamo ancora disabituati alle “novità”. Nel suo “Il conflitto estetico.
Teoria del disgusto” (Lithos 2018) il ricercatore di Estetica dell’Università di Tor Vergata Marco Tedeschini (già traduttore di Kolnai) ha esplicitato il fatto che “con questo sentimento occorre fare i conti, non è possibile negarlo. Il disgusto è un sentimento forte, ma ha a che fare con la propria identità. Chi pretende che gli altri cambino d’emblée i propri parametri di disgusto compie una violenza, nega (prevarica?) la sensibilità altrui e, così, in un certo senso, la sua identità”.
Condivisibile, tuttavia, ci permettiamo di aggiungere che il senso del disgusto è più trasversale che strettamente identitario: a parte alcune abitudini alimentari che possono differire da paese a paese (ad es. il cibarsi di cani, topi, o insetti), il ribrezzo o il fastidio per la stragrande maggioranza delle cose contaminanti, deformi, pericolose, innaturali o evocatrici di violenza è comune, da sempre, alla gran parte della popolazione umana.
E quindi, quale autorità può permettersi di giudicarci se, per qualcosa, proviamo un fastidio caratteristico della nostra specie e antico di due milioni e mezzo di anni? Al massimo ci si potrebbe chiedere la cortesia di concedere un certo grado di tolleranza, ma ogni imposizione che tenda a manipolare il comune senso del disgusto, teoricamente e praticamente, è inaccettabile.