tratto da www.chiesa
Vita, morte e miracoli dell’intelligencija cattolica progressista
È in corso da mesi una campagna contro il cardinale Ruini e la Chiesa “genuflessa ai ricchi e ai potenti”. Ecco chi la conduce, come, perché. La silenziosa risposta dei vescovi. E un’analisi di Pietro De Marco
di Sandro Magister
L’antefatto è stato raccontato in www.chiesa in un servizio dell’8 marzo 2004 che aveva per titolo: “Chiesa dei ricchi o Chiesa dei poveri? Il cardinale Ruini contestato”. E per sottotitolo: “Vescovi, monaci, gesuiti, intellettuali accusano il vicario del papa di servire i ricchi e i potenti. Sono i cattolici progressisti. Ma in Italia ci sono anche i cattolici ‘irriverenti’, che invece… Cronaca di uno scontro tra due cattolicesimi rivali”.
Ebbene, rispetto a quanto lì riferito, le novità sono due.
La prima è una nuova raffica di critiche al capo della Chiesa italiana, da parte di esponenti di punta della cultura cattolica progressista. Come già in precedenza, essi accusano Ruini di tacere davanti alle violazioni di legalità imputate all’attuale governo di centrodestra, e di sostituire alla “fede profetica” una “religione civile” asservita ai potenti. La seconda novità è che il direttivo dei vescovi italiani ha discusso di queste critiche nella seduta del 23 marzo del consiglio permanente della CEI. E ha concluso di non rispondere. In un’intervista di pochi giorni dopo al “Corriere della Sera”, il cardinale Ruini ha spiegato il perché di questa decisione di tacere. Ecco le novità più in dettaglio:
1. Le nuove critiche
Sul numero di aprile di “Jesus” – il mensile dei religiosi paolini che da mesi è la principale tribuna d’accusa – sono intervenute contro Ruini altre personalità cattoliche di rilievo. Pietro Scoppola, decano degli storici cattolici, ha paragonato l’attuale capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, al Benito Mussolini degli anni Trenta, che tendeva a “divinizzarsi” quando invece era un semplice “idolo che i popoli finiscono sempre a spezzare”. Scoppola ha ripreso queste parole d’accusa da Pio XI.
E ha reclamato dall’attuale vertice della Chiesa un’altrettanto “forte testimonianza evangelica” nel denunciare il “regime” in carica. Giorgio Campanini, specialista in storia del cattolicesimo politico, e Giovanni Bianchi, parlamentare del centrosinistra ed ex presidente delle ACLI, Associazioni cristiane lavoratori italiani, hanno dato anch’essi man forte alle critiche, nello stesso numero di “Jesus”. Franco Monaco, altro deputato del centrosinistra, nonché ex presidente dell’Azione Cattolica di Milano e consigliere politico del cardinale Carlo Maria Martini, è tornato a difendere le ragioni della “Lettera al mio vescovo” con la quale, in ottobre, aveva dato il via all’offensiva.
Inoltre, sul numero del 15 marzo di un’altra rivista cattolica progressista, “Il Regno”, edita dai dehoniani di Bologna, il sacerdote e teologo fiorentino Paolo Giannoni ha criticato “i miseri sotterfugi della falsificazione della fede ridotta a religione civile, stoltamente perseguita dall’attuale dirigenza ecclesiastica”.
2. Il silenzio/risposta di Ruini
Dopo mesi di assoluto silenzio, e dopo averne discusso con altri vescovi nel direttivo della CEI, il cardinale Camillo Ruini ha così brevemente spiegato, in un passaggio di un’intervista al “Corriere della Sera” del 28 marzo, ciò che lo separa dai suoi accusatori e lo induce a star zitto:
D. – Parte del mondo cattolico accusa la Cei di interessarsi della famiglia e della scuola; ma di tacere sulle violazioni delle regole, che l’opposizione attribuisce al governo Berlusconi. Lei accetta queste accuse?
R. – “Le conosco bene, ma sinceramente non mi sento di accettarle. Può essere vero che [noi vescovi] non parliamo di certi temi nei termini graditi all’una o all’altra posizione politica. Ma non è vero che non ne parliamo: semplicemente lo facciamo in modo diverso. La differenza consiste nell’orizzonte nel quale certe tematiche vanno inserite: oggi questo orizzonte non può non comprendere, accanto alla questione sociale e a quella delle istituzioni democratiche, una questione che riguarda l’uomo come tale, la sua differenza dal resto della natura, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche a livello pubblico e politico, ad esempio per la bioetica o per la concezione della famiglia”.
E ancora:
D. – Eminenza, l’accusa di alcuni cattolici è di indulgenza verso il centrodestra.
R. – “A dire il vero ce n’è anche un’altra, di segno diverso: quella di non essere abbastanza energici nel contrastare la presenza dell’islam. Di fronte al protagonismo dell’islam e alle gesta del terrorismo islamico, c’è stato un soprassalto in termini di riscoperta dell’identità cristiana. È un fenomeno da governare e pilotare, che però ha alla radice qualcosa di positivo: l’identità cristiana anche come fatto culturale. L’accusa che ci viene rivolta è di non difenderla abbastanza. Ma la difesa non può essere il rifiuto degli altri: va modulata sui principi cristiani di libertà, accoglienza, dialogo. La percezione collettiva è mutata. E in positivo. Simboli come il crocefisso non sono più visti solo come espressione religiosa, ma, appunto, come emblemi di un’identità storico-culturale. In altri termini, l’ottica non è più quella della laicità o meno dello stato, ma dell’identità complessiva del nostro popolo”.
In una precedente intervista del 12 dicembre 2002 a “L’espresso”, rispondendo ad accuse identiche alle attuali, il cardinale Ruini aveva aggiunto anche un’altra considerazione. Aveva messo in guardia i suoi critici dall’usare il “moralismo” come arma politica
D. – Cardinal Ruini, l’accusano di prediligere la destra e di tacere su certe leggi giudicate immorali.
R. – “Primo, mi occupo dei contenuti e non degli schieramenti. Secondo, più che tacere sono semmai fin troppo insistente, nei discorsi alla CEI che sono poi i miei unici commenti che toccano anche temi politici. L’esperienza di cinquant’anni mi ha insegnato a stare attento a una tentazione: il moralismo che usa temi etici come strumenti di lotta politica. Dico cinquant’anni perché già Alcide De Gasperi [lo statista cattolico padre dell’Italia repubblicana] veniva osteggiato così. E sommessamente inviterei a una maggiore prudenza, perché se carichiamo le singole scelte della dialettica politica di una valenza etica, allora finisce che la lotta politica stessa peggiora, diventa disprezzo, odio verso le persone”.
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Da queste risposte, si ricava che il cardinale Ruini non accetta le accuse che gli sono rivolte. Ma nemmeno ne rimuove gli argomenti. Semplicemente dice di affrontarli “in modo diverso”.
Della “diversità” di Ruini si sa. L’ha esposta più volte nei suoi densi discorsi alla CEI e in alcune interviste. Ma che cosa distingue, invece, la cultura e la pratica dei suoi accusatori? Franco Monaco, su “Jesus” di aprile 2004, torna a difendere la validità di “quella subcultura che in Italia va sotto il nome di cattolicesimo democratico”, alla quale egli stesso appartiene. E rifiuta che venga giudicata “residuale e infeconda”. Ma il rischio che lo diventi è reale.
L’ha riconosciuto già tre anni fa – in un convegno nel monastero di Camaldoli – anche un analista insospettabile come il professor Arturo Parisi, che milita a sinistra nello stesso partito di Monaco e del presidente della commissione europea Romano Prodi. Il pericolo descritto da Parisi è la scomparsa dell’opposizione cattolica dentro il magma della pura protesta contro i poteri civili ed ecclesiali. È questo l’approdo della cultura cattolica progressista? La sua campagna contro il cardinale Ruini ne è la conferma?
Nel saggio pubblicato qui di seguito il professor Pietro De Marco, docente all’università di Firenze e alla facoltà teologica dell’Italia centrale, dà una risposta per molti aspetti nuova e sorprendente. Storia, politica, teologia, cultura, processi sociali: tutto concorre a disegnare l’istruttivo tragitto di quella che è stata la cultura dominante nel cattolicesimo italiano del secondo Novecento.
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Le “sociétés de pensée”, la nuova casa dell’opposizione cattolica
di Pietro De Marco
L’allarme diffuso nella stampa di opposizione per un’Italia che “precipita nella barbarie” ha più di un aspetto istruttivo. Si tratta essenzialmente di un’arma verbale in uso tra coloro che costituiscono il nerbo della “sinistra che le spara grosse” e però “non si sentono annichiliti dalla propria sparata”, di cui ha scritto Francesco Merlo su “la Repubblica” del 29 gennaio di quest’anno.
Un grande storico contemporaneo delle idee politiche, John Pocock, ha detto a proposito di simili linguaggi: “Le parole divengono paradigmatiche, nel senso che possono venir usate da più d’uno per trasmettere più d’un contenuto o imprimere loro un ‘taglio’; e la comunicazione sociale diventa una sorta di partita a tennis, in cui mi è permesso di importi la mia palla ‘tagliata’ a condizione che tu possa imprimere il tuo ‘taglio’ nel rimandarmela. […] Ma può capitare che venga sparata dalla canna di un fucile una palla in nessun senso rimandabile. Vale a dire: una comunicazione a cui […] mi è, di fatto, proibito rispondere, dato che mi viene proibito di fare qualsiasi comunicazione negli stessi termini”.
Va detto con franchezza: i cattolici italiani che fanno strenua opposizione etico-politica al governo in carica partecipano intensamente di questo “populismo selettivo”. La loro deprecazione mobilitante, il loro “attivismo antipolitico semplificatore” (per usare una formula di Marco Tarchi nel suo recente saggio su “L’Italia populista”) si esercitano elettivamente contro il premier e il suo governo.
Un cattolico d’opposizione più avvertito, Arturo Parisi, parlando a Camaldoli nel luglio 2001 ammoniva: “Lo stesso cattolicesimo popolare è prossimo a scivolare verso il cattolicesimo populista, se noi non ne riprendiamo la guida fuori da ogni atteggiamento moralistico. Quello stesso moralismo condannerebbe il cattolicesimo democratico a una sconfitta non solo da parte della cultura agnostica e clericale del centrodestra, ma anche da parte della cultura sperimentale e pragmatica della sinistra”. L’invito di Parisi sembra rimasto inascoltato. Basta pensare alla routine di aggressività del quotidiano “Europa”.
Per le culture cattoliche di opposizione, la costruzione attuale del nemico ha avuto il suo fulcro, tra il 1994 e il 1995, in parallelo con l’ascesa al governo di Silvio Berlusconi, nel ritorno alla politica attiva del monaco Giuseppe Dossetti, protagonista, da laico, della politica cattolica italiana del dopoguerra. E poco importa se questa o quell’area dell’opposizione cattolica non ami essere classificata come dossettiana.
Tutte hanno assunto da Dossetti lo schema di un presente italiano in “conflitto tra realtà e mito: […] tra una sana democrazia e miti antidemocratici, alla fine idolatrici, come quelli della babilonese Regina del Cielo, cioè miti della prepotenza, della arrogante occupazione del potere, della conservazione di esso ad ogni costo e contro ogni ragione ed interesse di patria, della palese prevalenza degli interessi privati di un’azienda sull’interesse pubblico della nazione” (discorso al convegno dei costituzionalisti, Milano, 21 gennaio 1995; ma tutto quel testo è fondante, per la guerra verbale e retorica in atto).
Poche settimane più tardi Dossetti tornava sulle “inclinazioni bonapartiste e cesariste” del “grande monopolista che aspira alla suprema funzione di governo”. E contemporaneamente negava ogni legittimità alle riforme costituzionali che la coalizione di centrodestra aveva nel suo programma (26 aprile 1995, relazione all’università di Parma).
L’irrigidimento autoconservativo, dopo il terremoto di Tangentopoli, delle subculture politiche cattoliche – già prima ciecamente inconsapevoli persino della crisi costituzionale tematizzata da Francesco Cossiga quand’era capo dello stato – trovò in Berlusconi un bersaglio mobilitante, quasi un capro espiatorio. E parte del mondo cattolico ne ricavò un vero e proprio supplemento di vita: sempre meno politica razionale e sempre più emozione antagonistica, surrogato di un progetto autonomo.
La diagnosi di Parisi a Camaldoli era su questo punto diversa: non dava importanza alla metamorfosi antagonistica in corso. Per lui, era anzitutto la “fedeltà all’ispirazione conciliare” ciò che consentiva al cattolicesimo di “resistere al destino” che lo vorrebbe concentrato nel polo moderato e conservatore. Ma Parisi lanciava anche un avvertimento: a suo avviso, un’adesione di cattolici al centrosinistra che non fosse critica e portatrice d’una sua originalità, finirebbe per marginalizzarli. È questo un punto che è importante esaminare.
* * *
Viene da lontano, nella cultura cattolica progressista, il rischio, e quasi la volontà, di perdere distanza critica nei confronti dell’intelligencija laica, comunista e post-comunista. Su questa rinuncia il filosofo Augusto Del Noce, e più recentemente Gianni Baget Bozzo, hanno scritto cose rigorose. Ne è stata un sintomo l’evoluzione di un saggista famoso come padre Ernesto Balducci. Partito da posizioni apologetiche antimoderne o, meglio, antiborghesi, di ascendenza francese, Balducci approdò negli anni Ottanta e primi Novanta all’antioccidentalismo pacifista, per collocarsi entro la cultura più populistica della sinistra. La sua evoluzione aveva avuto una sua svolta decisiva nel Sessantotto.
Era stata la cultura cattolica francese ad anticipare questa stessa metamorfosi. Essa aveva esteso il modello universalistico dell’intellettuale antifascista, elaborato in Europa negli anni Trenta, a una concezione di Chiesa militante ma antitemporalistica, che diventerà cara ai teologi “engagés”. In padre Marie-Dominique Chenu e seguaci (come fu subito avvertito da Gaston Fessard) l’idea della “consecratio mundi” trovò la sua applicazione pratica nella trasformazione militante del mondo, che poi divenne per molti una “consecratio” esclusivamente umana a contenuto rivoluzionario. Le successive correzioni di questa deriva non hanno impedito l’attuale disastro della Chiesa e della cattolicità francesi, risultato di un dopoconcilio lasciato guidare dagli intellettuali teologi.
Invece, in Italia, il partito della Democrazia Cristiana e le conseguenti responsabilità di governo, con l’effettiva influenza quotidiana sulla vita pubblica, avevano fatto da freno; a parte il dissenso “di base”, la maggior parte del mondo cattolico aveva salvato la propria autonomia entro una cultura politica di tipo razionale-moderato, fino a tutti gli anni Ottanta.
Successivamente, lo sgretolamento della convinzione di un mandato etico-politico a governare, poi la perdita effettiva della posizione dominante di governo, hanno favorito la deriva delle culture cattoliche dette “democratiche” verso appartenenze sentite come emancipatorie dalle antiche obbedienze. Da ciò l’approdo fiducioso agli schieramenti maggioritari dell’intelligencija di sinistra: alle “sociétés de pensée” di cui la cultura cattolica progressista è ormai divenuta parte qualificata.
Nelle “sociétés de pensée” è confluito un mix cattolico fatto di riformismo ecclesiale deluso, di collateralismo ideale alle sinistre e di inclusione nella loro egemonia mutante, di utopismo emozionale antagonistico. L’esito estremo è un populismo ecclesiale e civile che allinea l’opposizione cattolica alle sinistre movimentiste, potenzialmente contro qualsiasi governo di oggi o di domani, e in più contro il governo della Chiesa italiana in quanto non antagonistico nei confronti dell’attuale coalizione al potere.
“Sociétés de pensée”, dunque. Sergio Romano dedicò attenzione, anni fa, a queste formazioni che moltiplicano e alleano tra loro gli intellettuali “critici” nella ruminazione e nella formulazione dell’opposizione al sovrano. Le “sociétés de pensée” furono così denominate, e studiate, all’inizio del Novecento da Augustin Cochin, lo storico ed erudito cattolico antirepubblicano, paradossale allievo di Durkheim, che col suo lavoro rese possibile come pochi altri la nostra attuale libertà nei confronti del mito rivoluzionario francese.
Affinché tali “sociétés” invisibili, a genesi intellettualistica, possano venire alla luce è necessario un catalizzatore; senza catalizzatore queste potenti figure generative dell’opinione pubblica – che tendono a parlare a nome della società civile ed anzi a porsi come l’autentica società civile stessa – tornano a essere ciò che ordinariamente sono, cerchie tra loro disomogene e in concorrenza, o scompaiono.
Le “sociétés de pensée” hanno una grande risorsa endogena: la lunga pratica dell’opinione “illuminata” nel drammatizzare la congiuntura storica e demonizzare l’avversario. E in effetti un inconsulto demonizzare-drammatizzare misura il grado di coinvolgimento delle migliori intelligenze, una volta arruolate in una “société”.
Tutto questo ha dei costi. Scriveva Cochin: “Le ‘sociétés [de pensée]’ creano una repubblica ideale ai margini della vera, un piccolo stato a immagine del grande, con l’unica differenza che non è reale. Le decisioni prese sono solo auspici e – dato fondamentale – i suoi membri non hanno personale interesse né responsabilità riguardo alle questioni di cui parlano”. Il suo amico De Meaux glossava, in uno scritto del 1928: “Realizzazione di una società irreale, costruita sulla carta da irresponsabili, questo è lo stile di lavoro nelle ‘sociétés de pensée’”.
* * *
Un’efficace stagione di costruzione reticolare del nemico ordinata alla sua distruzione politica e materiale è quella presente. Per dirla con Pocock non vi è parola di opposizione – salvo poche e di poche persone – che non sia assemblata e rinforzata come per essere “sparata dalla canna di un fucile”. Spontaneità e calcolo strategico qui si sommano. Certo, una regìa prende per mano le emozioni, ma è una regìa “sui generis”. Sa ben poco di complotto, rimanda piuttosto a un “méchanisme” diffuso.
Ne è una prova la conformità del mondo cattolico “democratico” a questa pratica. La denuncia della “barbarie, regressione, involuzione” italiane sotto l’attuale governo – quale si coglie con sfumature diverse nella “Lettera agli amici” del priore di Bose Enzo Bianchi, nella “Lettera al mio vescovo” del deputato Franco Monaco su “Jesus” e nell’editoriale del gesuita Bartolomeo Sorge su “Aggiornamenti Sociali” – riproduce nella sostanza i capi d’accusa coniati e sempre ripetuti dalla macchina mobilitante. Le parole sono tutte “sparate” per inibire nel bersaglio la risposta. E il nemico da abbattere, per accelerare la rigenerazione della storia, del paese, della sinistra, della Chiesa, è infine (anche se può mancarne consapevolezza) il potere legittimo.
Si oppone a questa deriva dell’intelligencija cattolica l’esemplare razionalità e l’equilibrio d’analisi e giudizio praticati sulla vicenda italiana e internazionale dal quotidiano della conferenza episcopale “Avvenire”, in consonanza con la presidenza della CEI. Lo stile di “Avvenire” e del cardinale Camillo Ruini costituiscono oggi, per la società civile italiana, uno dei contravveleni più necessari.Esso modera il contesto esagitato della lotta politica in corso. Al confronto, “L’Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” appaiono talora meno avvertiti.
Sarebbe drammatico per la cultura dei cattolici, già di suo predisposta a subalternità verso tutti i moralismi, che la CEI perdesse una capacità diagnostica autonoma per dipendere anch’essa dalle parole d’ordine mobilitanti delle “sociétés de pensée” e degli opinionisti di grido, come avviene da tempo nell’intelligencija cattolica “aperta”. Chi chiede ai vescovi di sentenziare sul governo nei modi delle “sociétés de pensée” chiede a loro di accodarsi al flusso della declamazione populista antigovernativa: azione pigra e irresponsabile, che l’episcopato nel suo complesso, con sfumature diverse, rifiuta.
Coerente con questo rifiuto è stata la scelta della CEI di sostenere l’unità civile ed emozionale della nazione prodottasi di fronte alla morte dei soldati italiani in Iraq. In effetti, la religione civile italiana è dicotomica: da un lato laico-repubblicana a bassa intensità, dall’altro francamente cattolica nei suoi fondamenti. Questa seconda dimensione, alleata alla prima impersonata dal presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, indica il possibile percorso della ricomposizione di un nuovo “ethos” politico pubblico capace di riconoscersi inseparabile dalla storia cattolica d’Italia.
È evidente che tutto questo assomigli ben poco alla “comunità dei discepoli di Gesù” astrattamente evocata dal monaco Enzo Bianchi: comunità alla quale egli chiede di “essere profezia” e di non identificarsi con “l’occidente ricco e potente”. Ma la Chiesa nella sua figura pubblica non può assumere queste forme della retorica dopoconciliare: che è retorica non nei contenuti (discepolato e profezia sono cardini cristiani) ma nel loro uso mobilitante e antipolitico. Esperta nel “contradicere” secoli di ideologia, la Chiesa lascia queste armi verbali alle “sociétés de pensée”, al loro complesso di superiorità rispetto all’autorità legittima e ai loro rituali di critica e denuncia.
La sapienza storica della Chiesa non dimentica, inoltre, che le “societés” sono agenzie di mobilitazione intrinsecamente nemiche della presenza cattolica nella storia nazionale, come hanno mostrato, per decenni, l’implacabile, anche se velata ostilità nei confronti del romano pontefice, e oggi le reazioni di fronte all’alleanza dei parlamentari cattolici a favore della legge sulla fecondazione artificiale, così come le grida d’allarme sul “nuovo cristiano” che s’avanza
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[Da “L’espresso” n. 10 del 5-11 marzo 2004]
Chiesa dei ricchi o Chiesa dei poveri? Il cardinale Ruini contestato
Vescovi, monaci, gesuiti, intellettuali accusano il vicario del papa di servire i ricchi e i potenti. Sono i cattolici progressisti. Ma in Italia ci sono anche i cattolici “irriverenti”, che invece… Cronaca di uno scontro tra due cattolicesimi rivali
di Sandro Magister
ROMA -Il 1 marzo il capo del governo italiano di centrodestra Silvio Berlusconi ha emesso un comunicato nel quale ha preso le difese del sistema dell’”8 per mille”, con cui lo stato devolve una parte dei suoi ricavi fiscali alla Chiesa cattolica, alla comunità ebraica e ad altre Chiese cristiane, a seconda delle indicazioni date dai contribuenti.
Con ciò Berlusconi s’è dissociato dalle critiche portate contro l’”8 per mille” da un ministro del suo governo, il capo della Lega Nord Umberto Bossi: critiche peraltro coincidenti con quelle di molti cattolici progressisti contro una Chiesa giudicata troppo “ricca”. Ma nel suo comunicato Berlusconi ha fatto anche la seguente affermazione: “Mi piace ricordare che molti vescovi mi hanno reso testimonianza dichiarando esplicitamente che nessun governo [prima del mio] ha saputo operare così concretamente su molti dei temi che stanno a cuore alla Chiesa”.
E con ciò il capo del governo ha calpestato un campo minato. Perché una delle accuse che da parte di molti cattolici italiani vengono fatte contro la gerarchia della Chiesa è proprio questa: di parteggiare per il governo di centrodestra di Berlusconi e di tradire, con ciò, la genuinità del Vangelo.
Questa accusa non è nuova, rientra nella più generale e ricorrente protesta che in campo cattolico si alza contro una Chiesa ritenuta al servizio dei ricchi e dei potenti. Portatori di questa protesta sono vescovi, parroci, monaci, teologi, gesuiti, intellettuali, appartenenti a un ceto colto del cattolicesimo italiano. Lo stesso ceto che richiamandosi al Concilio Vaticano II invoca una “Chiesa dei poveri” spoglia di potere e ricchezza.
In questi ultimi mesi, però, questa protesta è ripresa con forza. E si è appuntata con particolare veemenza contro la conferenza episcopale italiana e il suo presidente, il cardinale Camillo Ruini. Senza risparmiare papa Giovanni Paolo II che a Ruini dà piena fiducia per tutto ciò che riguarda l’Italia. La protesta è scattata lo scorso ottobre sul mensile dei religiosi paolini “Jesus” – che è la versione colta del settimanale di larghissima diffusione “Famiglia Cristiana” – con una lettera aperta ai vescovi italiani scritta da Franco Monaco.
Monaco non è uno sconosciuto. È vicecapogruppo alla camera dei deputati della Margherita, il partito che ha per leader supremo Romano Prodi, presidente della Commissione europea e capo in Italia della coalizione di centrosinistra che combatte Berlusconi; è stato presidente dell’Azione cattolica di Milano; è discepolo fedelissimo di Giuseppe Lazzati e Giuseppe Dossetti, le due massime figure di riferimento del cattolicesimo progressista nell’Italia del secondo Novecento.
Non solo. Monaco è stato per anni il più ascoltato consigliere politico del cardinale Carlo Maria Martini, quando questi era arcivescovo di Milano. I memorabili discorsi alla città letti dal cardinale Martini ogni anno alla vigilia di sant’Ambrogio sono stati scritti in larga parte proprio da Monaco e per un’altra parte da Luigi Pizzolato, successore di Lazzati alla cattedra di letteratura cristiana antica nell’Università Cattolica di Milano.
E infatti, la lettera aperta pubblicata da Monaco su “Jesus” d’ottobre ricalca pari pari le punte più allarmistiche dei discorsi pronunciati da Martini a metà degli anni Novanta, contro il pericolo Berlusconi. Monaco elenca cinque “punti di sofferenza”, dalla corrosione della legalità alla concentraziome del potere sui media, alla “religione del mercato”, e rimprovera la gerarchia della Chiesa di tacere, di “starsene fuori”, in realtà di “appiattirsi” sulla parte politica che porta la responsabilità del disastro denunciato.
Passa un mese, ogni vescovo riceve personalmente la lettera con la richiesta di commentarla, e nel numero successivo “Jesus” rincara la protesta con un nutrito dossier. In esso, anche tre vescovi molto apprezzati in campo progressista danno ragione a Monaco: Luigi Bettazzi di Ivrea, Giancarlo Maria Bregantini di Locri e Sebastiano Dho di Alba. Tra i teologi intervengono Piero Coda, testa d’uovo del movimento dei Focolari e presidente dell’Associazione dei teologi italiani, Giacomo Canobbio, Maria Cristina Bartolomei, Giuseppe Mattai.
Tra gli storici Alberto Melloni, uno dei massimi studiosi ed interpreti, in chiave progressista, del Concilio Vaticano II. Tra i filosofi Salvatore Natoli. C’è anche chi protesta per “i troppi denari dell’8 per mille” e contro quegli ecclesiastici “interessati solo ad avere qualche legge o qualche finanziamento in loro favore”: è Angelo Bertani, vicedirettore di “Famiglia Cristiana” e da decenni eminenza grigia dell’Azione cattolica.
Passa un altro mese, e all’inizio di dicembre si associa al fronte della protesta il priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, che è il più ascoltato leader intellettuale del cattolicesimo progressista in Italia, oltre che molto noto e stimato anche all’estero. Lo fa con la “Lettera agli amici” che diffonde all’inizio dell’Avvento dal suo monastero e che questa volta ha intitolato: “Che ne sarà del cristianesimo?”.
Il giudizio che Bianchi dà della gerarchia della Chiesa è molto pessimista. La Chiesa, scrive, “è applaudita, riconosciuta e, a volte, perfino ricompensata da Cesare per il bene che fa”, ma in realtà “ha svuotato di ogni forza che viene da Dio l’annuncio dell’evangelo”. S’è troppo identificata “con l’occidente ricco e potente”. S’è degradata a vuota “religione civile”. E a riprova Bianchi cita due fatti che hanno occupato le cronache italiane per settimane: “Che tristezza la ‘misère’ del dibattito sul crocifisso ridotto a simbolo ed emblema della cultura nazionale; che tristezza la collusione tra religione e nazione durante il lutto e il dolore per le povere vittime italiane barbaramente uccise in Iraq”.
Ruini, nonostante nessuno lo nomini, è il bersaglio numero uno della protesta. Ma anche Giovanni Paolo II è sotto tiro, per la sua opposizione alla guerra in Iraq giudicata troppo debole e rinunciataria.
Già la scorsa primavera un ampia schiera di cattolici, non contenti di quanto il papa diceva, aveva indirizzato a Giovanni Paolo II una lettera aperta per reclamare da lui un pronunciamento contro la guerra “semplice e univoco, che non lasci scappatoie per gli incisi e i distinguo”. Tra i firmatari c’erano il priore dell’abbazia benedettina camaldolese di Fonte Avellana, Alessandro Barban, il presidente di “Beati i costruttori di pace”, don Albino Bizzotto, e il missionario di fama mondiale Alex Zanotelli.
Ma dallo scorso autunno, da quando il papa ha definito “missionari di pace” i soldati italiani nell’Iraq “liberato”, la contestazione s’è fatta più pesante. Sul mensile “Missione Oggi”, il saveriano Meo Elia ha bollato come “irrisorio” e “blasfemo” il richiamo al vangelo fatto dai capi di Chiesa che “danno un avallo alle scelte dei potenti di turno”.
A questo fuoco di fila di accuse, la Chiesa gerarchica non ha sinora risposto. Zitto Ruini, zitto il giornale di proprietà della Cei, “Avvenire”, che riflette fedelmente il suo pensiero, e zitta anche quell’amplissima parte del mondo cattolico che batte strade diverse da quelle di “Jesus” e Bose.
L’impressione è che in Italia convivano due mondi cattolici tra loro separati e quasi incomunicanti. Per trovare una prima analisi e un raffronto tra questi due mondi ad opera di un protagonista autorevole del campo del cardinale Ruini, il direttore di “Avvenire” Dino Boffo, bisogna arrivare ai primi di questo mese di marzo, quando sulla rivista dell’Università Cattolica di Milano, “Vita e Pensiero”, esce una disputa tra Boffo e due commentatori della sinistra laica, Edmondo Berselli e Giancarlo Bosetti, sul nuovo ruolo politico dei cattolici nella politica italiana.
È il nuovo ruolo che ha preso corpo, ad esempio, nel varo di una legge sulla procreazione artificiale molto vicina alle attese della Chiesa, ottenuto grazie al voto trasversale di cattolici di vari partiti ma prima ancora grazie al pressing di associazioni volontarie come il Movimento per la vita e il Forum delle famiglie, impegnate non solo a declamare principi, ma a concretizzarli in articoli di legge e a conquistare il consenso dei singoli parlamentari, siano essi cattolici o no.
La legge sulle adozioni, sul finire della passata legislatura quando il governo era di centrosinistra, è stato un’altro di questi successi trasversali, ottenuti col consenso di cattolici di destra, di sinistra e di centro.
Fino a dieci anni fa la Chiesa in Italia aveva come strumento d’azione politica il grande partito cattolico della Democrazia cristiana. Che però le creava più vincoli che opportunità. Oggi la Dc non c’è più, e la Chiesa del cardinale Ruini ha scoperto i vantaggi del far politica ‘super partes’ e a tutto campo, libera da impacci.
Non più costretta preventivamente a mediare nel chiuso del “palazzo”, la Chiesa dice a voce alta, dal pulpito, le sue attese e le sue critiche. A tutti, cattolici e non, si rivolge direttamente. E di fatto ottiene molto più che in passato, per lo meno in termini di attenzione e di discussione. È un nuovo modo di far politica nel quale papa Karol Wojtyla è maestro, sulla scena del mondo.
Ed è un nuovo modo d’azione che cambia anche la figura del cattolico impegnato in politica. “Dobbiamo abituarci alla figura del cattolico irriverente”, scrive Boffo. Che è tutt’altra cosa, a suo dire, rispetto al cattolico del passato, “concavo e remissivo”, portato ad “assottigliare la propria posizione” e a “lasciare ad altri di segnare l’orizzonte” pur di giustificare la propria presenza nell’arena politica.
Questi cattolici del passato, Ruini e i suoi li vedono riprodursi nei lettori di “Jesus” e nei visitatori di Bose. Questi vorrebbero che la Chiesa gerarchica sottoscriva la loro agenda politica e, delusi del mancato appoggio, l’accusano di servire il nemico. Protestano, denunciano, ma – sempre a parere del campo ruiniano – non hanno futuro. Per dirla da “cattolico irriverente”, sono un albero disseccato.
POST SCRIPTUM – Alla protesta sopra descritta contro i silenzi del cardinale Ruini e della conferenza episcopale si è associata ai primi di marzo un’altra voce importante: quella del gesuita Bartolomeo Sorge, già direttore di “La Civiltà Cattolica”, poi della Scuola di politica dei gesuiti a Palermo e ora direttore, a Milano, della rivista “Aggiornamenti Sociali”.
Nel numero di marzo della rivista, padre Sorge dedica l’editoriale proprio al “silenzio dei vescovi”. Cita san Gregorio Magno: “Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò che è giusto”. E aggiunge che “è difficile controbattere a quanti avanzano il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici (si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia)”.
Viceversa, Sorge cita ‘ad honorem’ un discorso del cardinale Carlo Maria Martini del 6 dicembre 1995, a suo giudizio esemplare nel rompere un silenzio già allora imperante.
Di seguito l’articolo completo:
Editoriale – marzo 2004
Il silenzio dei vescovi sull’Italia
Bartolomeo Sorge S.J.
Non c’è dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo malessere per il silenzio dei vescovi sulla grave situazione del Paese. Di quando in quando questo disagio è affiorato sulle pagine dei giornali, finché ultimamente è esploso anche sulla stampa cattolica. Nel numero di ottobre 2003 di Jesus, il mensile di cultura e attualità edito dai Periodici San Paolo, è apparsa una lettera aperta dell’on. Franco Monaco, già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana dal 1986 al 1992 e attualmente vice-capogruppo della Margherita alla Camera dei Deputati: «Cari vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?»(Jesus, 10 [2003] 6 s.).
Dando voce a uno stato d’animo diffuso, Franco Monaco evidenzia «cinque punti di sofferenza» che rendono critica la situazione attuale del Paese, ne rendono incerto il futuro e, proprio per questo, esigerebbero una chiara parola dei vescovi.
Questi «punti» sono: il disprezzo aperto della legalità; il rischio di un conflitto senza sbocco tra istituzioni e parti sociali; il venir meno del ruolo europeista e di promozione della pace che l’Italia finora ha sempre svolto; l’egemonia del «pensiero unico» neoliberista, cioè di una visione puramente mercantile della politica; la concentrazione patologica dei mass media e dell’informazione in poche mani.
Perché su questi punti i vescovi tacciono? Nessuno chiede loro di darne un giudizio politico, che spetta al laicato, ma una chiara valutazione etica. Ai vescovi si chiede cioè che illuminino le coscienze sia dei politici, sia dei fedeli affinché le riforme necessarie si compiano in modo responsabile, nel rispetto dei valori etici e del bene comune. Ciò è tanto più importante oggi, quando chi governa non cessa di ripetere che vuole «cambiare il Paese». Nulla da dire sul come?
Per comprendere il senso del dibattito, occorre chiarirne gli elementi principali: 1) il silenzio dei vescovi oggi; 2) i loro insegnamenti di ieri; 3) il ruolo del laicato.
1. Il silenzio dei vescovi oggi
Tutti sappiamo come, alla vigilia delle consultazioni elettorali, giungesse immancabile e puntuale il comunicato dei vescovi per ricordare ai cattolici il grave dovere di andare a votare, di votare «bene» e di votare «uniti». Gli interventi della CEI cominciarono a rarefarsi sotto i pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. In seguito si fecero sempre più radi e sfumati, a misura che cresceva di intensità e di visibilità il servizio apostolico di Giovanni Paolo II.
Finché si finì col lasciare praticamente al Papa il compito di intervenire. Ciò apparve in modo evidente al Convegno ecclesiale di Loreto (1985), quando fu Giovanni Paolo II (e non i vescovi) a richiamare i cattolici italiani alla storia del Paese e a esortarli a rimanere fedeli all’«impegno unitario» in politica (cfr L’Osservatore Romano, 12 aprile 1985, n. 8).
Dopo di allora, il Papa intervenne più volte sull’impegno sociale dei cattolici italiani, affrontando il tema perfino in una lettera scritta ad hoc ai vescovi («Le responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico», in L’Osservatore Romano, 13 gennaio 1994).
Solamente nel 1995, in occasione del Convegno ecclesiale di Palermo, furono dette – ancora una volta dal Papa – le parole che molti avrebbero desiderato ascoltare dai vescovi qualche anno prima, quando l’unità dei cattolici nella DC già era divenuta anacronistica sia sul piano storico (a causa delle trasformazioni avvenute nel Paese), sia sul piano teologico (dopo le acquisizioni teologiche e pastorali del Concilio Vaticano II).
«La Chiesa – disse Giovanni Paolo II a Palermo – non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia» («Allocuzione ai Convegnisti», in L’Osservatore Romano, 24 novembre 1995, n. 10). Con queste parole il Papa di per sé richiamò un principio generale, universalmente valido; tuttavia quel monito autorevole, rivolto direttamente alla Chiesa italiana dopo 50 anni di «collateralismo» con la DC, assumeva evidentemente un significato particolare. Si trattava, dunque, di applicare alla mutata situazione del Paese il principio generale enunciato dal Papa.
A Palermo però nessuno ci provò. Ci si limitò a ripetere le sue parole, senza fare commenti.
Fu il card. Martini – qualche giorno dopo – a intervenire sul silenzio dei vescovi, richiamandosi appunto al monito del Papa. Il 6 dicembre 1995, nel discorso di sant’Ambrogio (C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare), disse testualmente: «la Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia».
E il Cardinale indicò esplicitamente i principali pericoli che la democrazia oggi corre nel nostro Paese, di fronte ai quali – ribadì – i vescovi non possono tacere. La Chiesa – esemplificò il Cardinale – non può rimanere neutrale o muta nei confronti di una cultura politica che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli; nei confronti di una logica decisionistica che cerca di estorcere il consenso per via plebiscitaria; dinanzi al diffondersi di un liberismo utilitaristico che fa del profitto, della efficienza e della competitività un fine, a cui subordina le ragioni della solidarietà; in presenza di una politica che si rifà a una logica conflittuale inaccettabile, secondo cui chi vince piglia tutto e chi perde è solo un nemico da eliminare (cfr MARTINI C. M., «Chiesa e comunità politica», in Aggiornamenti Sociali, 2 [1996] 170).
Quel discorso dell’Arcivescovo di Milano è un chiaro esempio di come, senza compromettersi in scelte di parte, estranee alla loro missione religiosa, i vescovi devono e possono intervenire a formare la coscienza dei fedeli, esprimendo un giudizio morale sui «punti di sofferenza» della democrazia nel nostro Paese.
«Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio – concludeva il Cardinale – e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza. Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto; non è lecito pensare di poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno, l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia» (ivi, 171).
Certo, giustamente i vescovi si preoccupano di mantenersi equidistanti da ogni schieramento politico, non solo perché ciò è richiesto dalla natura religiosa della loro missione, ma anche per evitare che il pluralismo dei cattolici, legittimo in politica, produca lacerazioni e divisioni nella vita della comunità ecclesiale.
Tuttavia, la necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte.
Ora, le cose non stanno così. La coerenza dell’agire cristiano non riguarda soltanto il comportamento personale di fronte alle singole scelte; il cristiano dovrà anche interrogarsi sulla coerenza oggettiva di un progetto politico, preso nel suo insieme. Infatti, – disse Giovanni Paolo II a Palermo – non si può «ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede», né si può dare «una facile adesione a forze politiche o sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della Dottrina sociale della Chiesa» («Allocuzione ai Convegnisti», cit., 10).
Dunque, oggi, il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come «un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto» (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30).
2. Gli insegnamenti di ieri
Mentre si avverte il peso del silenzio di oggi, è opportuno però richiamare i numerosi interventi passati della CEI sulla situazione italiana. Alcuni di essi, nonostante risalgano a vari anni fa, mantengono una straordinaria attualità. Perciò, bisogna riconoscere che il silenzio dei vescovi, in ogni caso, è relativo. Come non ricordare – per esempio – il documento del Consiglio Permanente della CEI: La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (23 ottobre 1981), quello firmato dall’intero episcopato italiano su Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (18 ottobre 1989) o il messaggio della Presidenza della CEI sulla Presenza unita dei cristiani nella vita sociale e politica (30 giugno 1993)?
Soprattutto appare di straordinaria attualità la Nota pastorale della Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace»: Educare alla legalità, del 4 ottobre 1991. Si direbbe scritta oggi. Dopo aver richiamato sommariamente le ragioni della crisi della politica italiana (n. 7), la Nota denuncia i pericoli che la democrazia corre nel nostro Paese, a motivo della perdita di tensione etica.
Il primo rischio – essa afferma – è che «le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni», a causa del prevalere di poteri e interessi forti, finiscano col trasformarsi in «leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno)» (n. 8). Come non pensare all’abuso al quale oggi assistiamo, da parte di chi ha il potere, di emanare leggi destinate chiaramente a tutelare interessi particolari (o addirittura personali) del leader e dei suoi sostenitori?
In secondo luogo, la Nota denuncia il pericolo che la democrazia in Italia degeneri in «populismo», per cui «il parlamento corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative» (ivi). È esattamente quanto sta accadendo oggi. Come non pensare alla presente delegittimazione dell’attività parlamentare (spesso bloccata da disegni di legge blindati e sottratti al necessario dibattito), e anche di altre fondamentali istituzioni dello Stato, in seguito ai continui attacchi alla Magistratura, alla Corte costituzioale, alla stessa Presidenza della Repubblica?
E che dire della delegittimazione di altre essenziali forme di rappresentanza democratica, come nel caso dei sindacati?
Infine, la Nota punta il dito contro una classe politica che, «con il suo frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, […] annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si possa disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge» (n. 9).
Come non pensare a quanto accade oggi, quando l’attuale classe dirigente si serve del potere legislativo per sottrarsi alla giustizia, emanando leggi ad hoc per garantirsi l’immunità (come la legge che depenalizza il falso in bilancio e il «lodo Schifani» per sospendere i processi alle più alte cariche dello Stato)? Quale senso della legalità e dello Stato si potrà mai diffondere nel Paese, di fronte a simili comportamenti della classe politica?
Perché non richiamare quegli insegnamenti, oggi che le storture allora denunciate si sono ulteriormente accentuate, come già fece la Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace» in occasione di Tangentopoli, con la Nota: Legalità, giustizia e moralità, del 20 dicembre 1993? Il silenzio sui «punti di sofferenza» appare dunque inspiegabile ed è difficile controbattere a quanti avanzano il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici (si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia).
3. Il ruolo del laicato
In ogni caso, anche nell’ipotesi che i vescovi escano dalla loro afasia, ben poco servirebbero le loro parole senza la presenza in Italia di un laicato consapevole delle proprie responsabilità. Gli stessi laici, mentre giustamente chiedono ai Pastori di non tacere di fronte ai gravi interrogativi suscitati dell’attuale situazione del Paese, si interroghino però seriamente per vedere che cosa essi stessi possono e devono fare.
Infatti – spiega il Concilio Vaticano II – dai loro Pastori «i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non si aspettino, però, che i loro Pastori siano sempre esperti a tal punto che, a ogni nuovo problema, anche a quelli più gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e prestando fedele attenzione alla dottrina del Magistero» (Gaudium et spes, n. 43).
In altre parole, l’orientamento dei Pastori è sì necessario, ma non potrà mai supplire alla mancanza di maturità spirituale e di competenza professionale dei laici impegnati in politica. Dopo oltre cent’anni di Dottrina sociale della Chiesa e dopo oltre cinquant’anni di vita democratica in Italia, non dovrebbe essere difficile distinguere un programma politico dall’altro, coglierne la differente ispirazione ideale e le implicazioni etiche, giudicarne la consonanza o meno con gli ideali cristiani.
D’altra parte, i criteri fondamentali dell’agire cristiano in politica dovrebbero essere noti a tutti. Non è certamente necessario che i vescovi ribadiscano la legittimità del pluralismo politico dei cattolici, dopo che Paolo VI – rifacendosi al Concilio Vaticano II – ha insegnato a chiare lettere che «nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi» (Lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 50).
Parimenti, i fedeli laici dovrebbero sapere bene che pluralismo non è sinonimo di indifferentismo; che i diversi programmi politici non si equivalgono; che l’ispirazione cristiana non funge solo da coscienza critica, respingendo quanto vi può essere di negativo in una cultura politica o in un programma di partito, ma funge soprattutto da stimolo propositivo e creativo, spingendo cioè alla realizzazione di una società ispirata alla visione cristiana della vita e della storia.
Applicando questi criteri alla situazione italiana di oggi, i fedeli laici responsabili possono già da soli trarne le conclusioni operative.
Non c’è dubbio, invece, che sia necessario un chiarimento da parte dei vescovi sulle implicazioni etiche e sociali delle filosofie politiche dei due poli. Di fronte al dilagare della cultura neoliberista (che è all’origine dei «punti di sofferenza» ricordati all’inizio), come esimersi dallo spiegare le ragioni per cui essa è lontana dall’insegnamento sociale della Chiesa?
Perché tacere sulla responsabilità morale e storica di quei cattolici che, pur soffrendo e sforzandosi di «migliorare» leggi che sono in contrasto con la cultura cristiana, finiscono poi col votare il programma neoliberista, contribuendo così a costruire un modello di società, non solo difforme dalla Dottrina sociale della Chiesa, ma incapace di risolvere i problemi di una Italia «a due velocità», perché fa ricadere sui più deboli il peso maggiore di riforme destinate a premiare i più forti?
I dati più recenti dimostrano che non si tratta affatto di un pregiudizio dei «comunisti», come si vuole far credere. Secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, le famiglie italiane che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, un anno fa erano il 38,7%, oggi sono il 51,2%.
Perché, infine, i vescovi non intervengono a sostenere tanti fedeli laici impegnati (anche attraverso significative esperienze di formazione sociale e politica) a trovare una forma nuova di presenza adeguata alle sfide attuali, senza rimpianti per il passato, per edificare insieme con tutti i «liberi e forti» una democrazia compiuta?
In conclusione, il dibattito sul silenzio dei vescovi, affrontato nei suoi veri termini, non solo non è irrispettoso, ma anzi può risultare proficuo e può suscitare quel soprassalto di coraggio evangelico di cui oggi ha bisogno tutta la Chiesa italiana, Pastori e laici insieme.