di Antonio Socci
La “conversione” di Giuliano Ferrara – che poi, almeno per ora, non risulta essersi convertito – sta suscitando più allarme di quella di Tony Blair o di quella – pur clamorosa – dell’erede di Bertrand Russel, Antony Flew o di quella – su cui i giornali benpensanti sorvolano – di Roberto Benigni.
Il digiuno natalizio di Ferrara – che chiede provocatoriamente una moratoria sull’aborto – è un masso sulla palude dell’ipocrisia postkantiana. Mentre la regnante polizia del pensiero vieta perfino la parola aborto (si inventa l’eufemismo ivg, interruzione volontaria della gravidanza). E chi osa discuterne viene “linciato”. A meno che non sia uno come Giuliano Ferrara.
Il “caso Ferrara” è una delle più straordinarie vicende spirituali (quindi politiche e culturali) dell’ultimo mezzo secolo in Italia. Tutti – perfino i suoi nemici – s’inchinano alla guizzante intelligenza dell’uomo. Chi ha la fortuna frequentarlo conosce anche, di Giuliano, le immense doti umane. E’ come un cavaliere medievale. Un animo nobile, generoso e intimamente umile. Che uno così sia anche un grande intellettuale è quasi incredibile.
Ma Ferrara, gigante in un teatro di nani, è un caso a sé per molti altri motivi. Solo lui potrebbe tranquillamente – da domattina – fare il direttore del Corriere della sera o tenere un popolare show televisivo o fare il ministro o scrivere un saggio filosofico. Lo puoi sorprendere a parlare in russo o tedesco come in inglese o francese con intellettuali di tutto il mondo, ma anche a strologare romanescamente con un oste di Trastevere.
Del resto fa un giornale d’élite che è letto e apprezzato contemporaneamente sia dal Papa che da Pannella. Pur avendo un fortissimo profilo anticonformista, Giuliano è stimato sia da Veltroni e D’Alema che da Berlusconi.
Il suo salotto televisivo è ormai il club più esclusivo in cui qualunque vip della politica o del mondo intellettuale smania di essere invitato. Compreso Scalfari che di recente lì è apparso un po’ statico e che – anche nell’editoriale di ieri sulla Repubblica – sembra in forte apprensione per la “conversione” di Giuliano. Mentre il suo successore Ezio Mauro afferma che Il Foglio è l’unico giornale che fa veramente cultura (insieme, ovviamente, alla Repubblica, dice lui…).
Certo, Giuliano è anche una grande calamita di odio. Fu per anni “Giuliano l’Apostata” per la Sinistra che lo sputazzava come “traditore”. Oggi viene preso di mira da qualche comico schierato, ma viene anche criticato, con un saggio filosofico, dalla rivista dei lefebvriani, “Sì, sì, no, no” a base di citazioni del “suo” Leo Strauss.
Però viene invitato dal cardinal Ruini a “insegnare” addirittura nella Basilica lateranense, la cattedrale del Papa, sul “Gesù di Nazaret” di Ratzinger e viene attaccato dai chierici senza truppe del cattoprogressismo nostrano che scrivono sui giornali non avendo il popolo nelle loro chiese. Infine viene difeso e abbracciato nientemeno da Benedetto XVI nel discorso ai cattolici italiani tenuto al convegno ecclesiale di Verona.
Io stesso ho avuto occasione di parlare a Ratzinger di lui (era l’ottobre 2004, sei mesi prima della sua elezione al pontificato) e ho visto la stima e l’affetto che nutre per Giulianone. Così come conosco l’ammirazione e la venerazione di Giuliano per questo mite teologo tedesco che è il nostro grande papa. Non mi pare ci sia un caso analogo a quello di Ferrara nella storia della cultura italiana, almeno dal 1945.
Giuliano è un generoso con una percezione leopardiana della fragilità della vita, uno che avverte l’infinita vanità del tutto e la noia delle banalità consuete, uno che non fa calcoli e che abbraccia impetuosamente la verità intuita e sperimentata. Se uno così un giorno, camminando sul Lungotevere Raffello Sanzio o sulla strada che va da Cafarnao a Betsaida, incontra Gesù di Nazaret, con i suoi amici, è molto probabile che resti incuriosito da quel giovane rabbi galileo.
Ed è sicuro che si fermerà a parlare con lui. Nel Vangelo si riferiscono diversi incontri del genere. Gesù risponderebbe alle sue domande fissandolo negli occhi e nell’anima in quel suo modo unico che nessuno più riusciva e riesce a dimenticare (Pietro per tutta la vita porta impresso nel cuore lo sguardo indimenticabile e sconvolgente di Gesù che fece vacillare perfino il cinico Pilato).
C’è un momento in cui il fascino umano per Gesù di Nazaret diventa domanda: chi è mai uno così? Compie cose stupende, per negarlo bisognerebbe non credere ai propri occhi e alla propria testa. Ma essere accecati dal pregiudizio non è razionale. E se davvero Dio si fosse fatto uomo? Sembra pazzesco, ma il saggio Eraclito dall’antica Grecia invitava alla lealtà: “Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi”. E chi poteva aspettarsi questo: trovare Dio incarnato in un volto di uomo. Anzi, di più: essere da Lui trovati.
Del resto la nostra umanità ha fame di Lui. Dalla notte dei tempi lo ha atteso, bramato, cercato. Tutta l’umanità si dibatte nella fame, non solo fame di pane, ma di amore, di bellezza, di significato, di giustizia, di verità, di vita, di felicità. E Gesù nasce in quella Betlemme che significa “Casa del pane”. Gesù stesso infatti è il pane di cui tutti, lo si sappia o no, siamo smaniosamente affamati. Così la proposta di digiuno natalizio di Ferrara mi ricorda il Pane di Betlemme.
C’è un certo stupore anche fra i cattolici per il “caso Ferrara”. Era così pure nei primi secoli cristiani quando a Roma dei famosi intellettuali, come Vittorino, annunciavano di aver chiesto il battesimo. Giuliano viene dall’aristocrazia intellettuale romana, quella borghesia laico-liberale e antifascista che poi ha dato al Pci togliattiano una straordinaria classe dirigente.
Giuliano era il figlio più promettente di questa aristocrazia senatoria. I cattolici – abituati a decenni di complessi di inferiorità e subalternità – se lo ritrovano oggi come valoroso apologeta della Chiesa e il popolo semplice ne è grato a Dio e gli vuole bene, mentre qualche chierico si affanna a rincorrerlo per potersi addossare il merito di averlo convertito lui (vanitas vanitatum).
Non sapendo cogliere lo spettacolo della Grazia che tocca e illumina un’anima. Anche per Agostino d’Ippona – intellettuale di rango a Roma e a Milano – fu un’attrazione fatale. Un giorno scrisse: “Tardi ti ho amato, o Bellezza sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te.
Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità; tu hai emanato la tua fragranza e io ho sentito il tuo profumo e ora ti bramo; ho gustato e ora ho fame e sete; tu mi hai toccato e io bramo la tua pace”.
(A.C. Valdera)