di Pietro De Marco
A leggere certe reazioni di fronte alla forma mediatica e “politica” (ma l’apparire è politico) che la visibilità sacramentale del battesimo di Magdi Cristiano Allam avrebbe assunto la notte di Pasqua in San Pietro, si ha come l’impressione che non si sappia più cos’è conversione e cosa sia Battesimo.
Offro alla discussione una serie di osservazioni critiche, rinviando ai ricchi dossier di www.chiesa.espressonline.it curati da Sandro Magister (dove anche queste mie cose circoleranno, in versione brevior); suppongo, diversamente da quanto dichiara in forma sgradevole una prestigiosa signora italiana, di cultura arabo-islamica, Afef Jnifen, che la “maggioranza degli italiani” sia comunque interessata alla conversione di Magdi.
Claudio Magris tra i primi ha espresso la sua insoddisfazione sul Corriere (25 marzo), con osservazioni non precise. Scrive che “il Battesimo è un atto di vita interiore” e che, eventualmente, la sua “dimensione politica viene dopo, quale frutto della conversione (…), e non nel momento in cui si riceve l’acqua di vita”.
Ora, certamente il Battesimo non è un atto di vita interiore; non nei suoi effetti che sarebbe improprio definire modernamente “interiori”. Magris stesso ricorda che Battesimo è “trasformazione radicale dell’esistenza”, il che va inteso anzitutto non nel suo rilievo biografico ma nell’ontologia sovrannaturale della Salvezza.
Non è “interiore” nella essenziale verità del rito, che è azione e segno “per molti”, manifestazione ordinata di simboli, quelli della luce in particolare, lumina neophitorum splendida. Il rito del Battesimo è un’icona del mistero della Salvezza. Nelle azioni sacramentali la Chiesa trascende la Scrittura, ne attualizza l’origine stessa, l’Incarnazione.
Credo che Magris volesse dire che la scelta personale del Battesimo è un atto interiore; senza dubbio, anche se è stato nei secoli anche evento solidale di intere comunità, nuova realtà di una Gemeinschaft. L’evento battesimale non appartiene comunque alla singola persona (quasi possa come nasconderlo in sé). Io sono già non più Io nella traversata segnata dalla conversione.
Se Magris, forse nella fretta del primo commento, appare sfocato, alcuni commentatori cattolici appaiono ancora meno di lui capaci di evitare i tic della pronta censura alla esibizione mediatica di Magdi Cristiano non meno che del Pontefice. Infelici decenni hanno cercato di sciupare, di estinguere in noi, la gioia per una conversione alla Chiesa cattolica, persino la gioia più grande per un nuovo battezzato; le due cose possono infatti non corrispondere.
Per un battezzato di altra confessione cristiana o per un ritorno alla fede di un battezzato non credente resta decisivo l’unum baptismum già ricevuto, il segno incancellabile, la cui unicità proclamiamo nel Credo.
Non posso dimenticare l’istintiva reazione di un amico con cui, parecchi anni fa, progettavamo il fascicolo di una rivista dedicato alla storia della Firenze religiosa del Novecento. Alla mia proposta di toccare la conversione di Giovanni Papini e di altri, rispose: “Perché, ti paiono cose belle?”. A lui non parevano, e non si trattava anzitutto di antipatia per Papini; la conversione era divenuta scandalo, e non per i Gentili.
Si sosteneva, esplicitamente o implicitamente, che proprio la comunità cristiana non avrebbe motivo di volersi come istituzione specifica, come identità. Nell’acuta crisi secolarizzante la nuova apologetica della fede nella storia dell’uomo si fondava proprio sul presupposto che ovunque essa attecchisce lì sono all’opera gli stessi fondamentali valori umani.
Con l’assunto dell’istituzione-chiesa, della Città di Dio, l’ecclesiologia segnando confini distruggerebbe il terreno sul quale il cristianesimo avrebbe potuto esistere e rigenerarsi, ossia l’unità del genere umano sancita dalla coscienza morale, liberata dalle rivoluzioni dei poveri e rivelata religiosamente, alla persona, solo dall’universalità dell’elevazione mistica, che brucia ogni particolarità.
In questa dissoluzione dell’universale determinato (qual è una Rivelazione) si manifestava anche nella Chiesa cattolica il processo di rovesciamento del rapporto tra Rivelazione e Umanità che segna la modernità recente. Solo l’umano (secondo ragione) è l’universalisticamente costituito; di conseguenza la (una) Rivelazione risulta particolaristicamente data o fondata.
Così il passaggio, o ritorno, ad una Religione è un atto indesiderabile, incomprensibile, risibile, quando proprio le élites di quella religione cercano di emanciparsi dalla sua particolarità. I termini attuali della riflessione cattolica non sono più quelli (che restarono minoritari), ma spiritualità transreligiose e religioni filosofiche, in luogo delle ideologie di rigenerazione sociale, la tentano ancora. E la conversione non è amata. Magdi Cristiano Allam avrà modo di accorgersene; nelle pieghe dello splendore della Città di Dio apprenderà l’amaro della complexio oppositorum cattolica.
In effetti la conversione è sempre un passaggio di soglia, e in certo modo, profondamente, la disegna la dove non era apparente, la rende discernibile a chi per abitudine o per opacità di visione non la riconosce più. O a chi, conoscendola, per ideologia la nega, nihilisticamente. Contro teologie, letterature e “mistiche” che intendono la Salvezza come immobile resistenza autocontemplativa, e regnum indifferentiae, la Conversione religiosa dichiara la differenza decisiva.
La soglia nega l’indifferenza (fosse pure l’eguale valore) dei punti del percorso. La soglia indica l’umano-divino della ricerca che vuole trascendimento; lo stesso agostiniano in te ipsum redi è per eccellenza un percorso e un passaggio ad Altro, poiché l’anima è aperta, teocentrica. La Differenza attribuisce alla Speranza l’unico suo possibile significato.
La soglia che la conversione rivela si attraversa per lenti, piccoli successi, diceva Claudel. È traversata, spesso penosa, di una terra incognita dopo il fulgore di una chiamata, di quella certitude d’une Présence pure (Louis Massignon) che giudica e brucia il cuore, che è uscita dall’Egitto spirituale e perciò si rivela presto come (solamente) inizio.
La Conversione manifesta, allora, scandalosamente il viaggio e ancora più l’approdo, dice che l’approdo è e trascende la ricerca, che la terra raggiunta non è nihilisticamente ancora e sempre quella di partenza.
Che l’approdo non sia garantito, che debba essere sempre desiderato come non fosse posseduto, come dono che resta sotto la sovranità del Donatore, non negano anzi confermano la realtà della soglia. La precarietà del dono, infatti, è tale per l’uomo solo. Ma, dall’attraversamento della soglia, sappiamo che Egli, l’Amante divino (come i veri mistici lo conoscono, oltre l’ineffabilità) “ci prende come per mano (…) ci introduce nella vita duratura, in quella vera e giusta”. “Teniamo stretta la sua mano!” suona tenero, perfetto, un passaggio dedicato al Battesimo nell’omelia di Benedetto XVI, per la veglia pasquale in cui Magdi è stato battezzato.
Dunque, contro insopportabili luoghi comuni, diventati talora predicabili, la Conversione religiosa ci annuncia che la casa del Padre non è identica alla sua Lontananza, e la stretta delle sue braccia non è identica alla solitudine in terra lontana.
Il tema della conversione alla Chiesa cattolica mi ha fatto riaprire un libretto, Il Mistero della Chiesa del p. Clerissac, chiave di volta della geografia spirituale che fu ancora della mia formazione, quella delle “grandi amicizie” di Raïssa e Jacques Maritain. “Fuori della Chiesa – scrive Clerissac (l’opera esce postuma a cura di Jacques nel 1918) – l’errore individualista trascina anche a una specie di fatalismo morale (…). Non si crede veramente al passaggio dal male al bene, alla trasformazione del peccato in santità: mutamento che si opera solo attraverso quella solitudine che è peculiare alla Chiesa (…). Solamente la Chiesa sa coniugare il percorso nel deserto e i bisogni della persona”.
In essa la incredibile (e insopportabile per i sempiterni “inquieti”) “perfetta pace e tranquillità” che Newman attestava dopo la sua conversione al cattolicesimo romano. “Al momento della conversione non mi rendevo conto io stesso del cambiamento intellettuale e morale operato nella mia mente (o: nel mio spirito, Mind). Non mi pareva di avere una fede più salda nelle verità fondamentali della rivelazione, né una maggiore padronanza di me (…); ma avevo l’impressione di entrare in porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora, è rimasta inalterata”, nonostante che la sua penetrante intelligenza cogliesse le infinite difficoltà di “ogni articolo del credo cristiano”.
Appare in questa evocazione della gioia dell’approdo la celebre formula dell’Apologia: “Diecimila difficoltà, secondo me, non costituiscono un solo dubbio”. L’equilibrio, frutto della duplice funzione e cura della Chiesa, Maternità e sovranità, secondo Clérissac.
Se questo è il profilo, tratto da pochissime testimonianze tra le infinite, dell’approdo spirituale al Porto, alla maternità e sovranità della Chiesa cattolica, si capisce la passione (rivelativa) con cui il convertito comunica agli altri l’uscita dall’incertezza itinerante, dalla incompiutezza di un edificio non voltato, dal pungolo dell’insignificanza di sé e del mondo.
Tanto più se l’attraversamento del Mar Rosso spirituale è segnato dalla (e attuato nella) sua figura cristiana eminente, il Battesimo. Ho ricordato, e ha ricordato lo stesso Magdi Allam, che l’evento battesimale è evento pubblico per eccellenza, è fatto dell’intera Città di Dio; si estende dalla comunità particolare alla Città celeste, dai presenti alla intera comunione dei santi. Si cita spesso (lo ricavo da Vagaggini) il brano di Origene: “Quando il sacramento della fede ti è stato dato le virtù celesti, i ministeri degli angeli, la chiesa dei primogeniti erano presenti”. Vi è gioia tra gli angeli … È certo che questo si avvertisse in San Pietro nella notte pasquale.
In questo ordine di bellezza, l’intensità della interpretazione che Magdi Cristiano ha offerto (non, comunque, nel tempo/spazio dell’azione sacramentale) del proprio battesimo non è fuori luogo. Allam ha attraversato una soglia obiettiva, da un ordinamento di senso ad un altro, da un’appartenenza ad un’altra.
La Casa cui è giunto, l’abbraccio del Padre in cui si è lasciato serrare, lo segnano e confermano in una novità, che non è il nuovo utopico o evolutivo, ma è antichissima (la “chiesa dei primogeniti” in Cristo risorto). E non è facile riconoscere e accettare al termine di un percorso di libertà un Padre, un amore sovrano; l’atto decisivo di accoglimento della fede fu, in Louis Massignon se non ricordo male, nella capacità di inginocchiarsi di fronte al suo direttore spirituale e con lui a Dio.
Se Allam ha scoperto questa Casa, universalmente destinata all’uomo, come luogo di Libertà e Verità rispetto al proprio passato, egli non fa che muoversi all’altezza del significato essenziale del suo Battesimo.
Anche Messori, in un bell’articolo parallelo a quello di Magris (due voci diverse a confronto sono un eccellente costume del Corriere), ha espresso riserve rispetto all’asprezza di qualche enunciato di Magdi Cristiano sull’Islam.
Penso che oggi in Allam l’esperienza della soglia attraversata, dell’exitus da una servitù di peccato non anzitutto individuale e interiore (tanto meno metaforica), sia troppo forte perché egli non parli per opposizioni; quella anteriorità musulmana resta troppo anelante a colpire la sua vita stessa per non avere per lui nomi e forme (radicalismo, terrorismo, fanatismo).
Forse la durevole “felicità” del suo oggi cristiano, la stessa Maternità della Chiesa che lo aveva avvicinato già negli anni d’infanzia, gli permetteranno col tempo di pensare all’oceano attraversato, non solo nei termini (realissimi, ma non esclusivi) di pericolo e di abisso.
(A.C. Valdera)