il problema della fiscalità non è soltanto un fatto economico e che, pertanto, non è risolvibile con modifiche puramente tecniche della normativa fiscale, ma investe sia il complesso dei rapporti tra lo Stato e i cittadini, sia la concezione delle funzioni e dei limiti dell’attività di governo: quindi, si tratta di un problema che può essere correttamente qualificato come politico in senso proprio.
di Ferdinando Leotta
“[…] ritengo che gli argomenti importanti meritano di essere ripetuti instancabilmente, almeno fino a quando la comprensione generale non ne riduca l’importanza”: così si legge nella Premessa al volume Noi e il fisco. La crescita della fiscalità arbitraria: cause, conseguenze, rimedi, Premessa in cui l’autore, Antonio Martino, avverte che — al fine di spiegare le motivazioni della protesta fiscale in Italia e di individuare le soluzioni per rispondere all’esigenza di una fiscalità diversa e meno vessatoria — riprende non solo argomentazioni da lui stesso formulate alcuni anni addietro ma ripropone anche argomenti già sostenuti da altri, convinto che la riproposizione di questi argomenti rafforzi la credibilità di quelli esposti (1).
Professore ordinario di Storia e Politica Monetaria alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma e Direttore Scientifico del Centro di Ricerche Economiche Applicate, il CREA, Antonio Martino ricerca, insieme a Gianni Marongiu e Sergio Ricossa, le ragioni della protesta fiscale in Italia, che — per esempio — nella manifestazione svoltasi a Torino il 23 novembre del 1986, ha mobilitato oltre trentamila cittadini (2). L’anno precedente lo studioso aveva pubblicato sullo stesso argomento, presso il CREA, un saggio intitolato Fisco: anarchia o legalità costituzionale? (3).
La tesi di fondo di Noi e il fisco. La crescita della fiscalità arbitraria: cause, conseguenze, rimedi è che il problema della fiscalità non è soltanto un fatto economico e che, pertanto, non è risolvibile con modifiche puramente tecniche della normativa fiscale, ma investe sia il complesso dei rapporti tra lo Stato e i cittadini, sia la concezione delle funzioni e dei limiti dell’attività di governo: quindi, si tratta di un problema che può essere correttamente qualificato come politico in senso proprio.
L’opera si propone di illustrare l’origine della crescita incontrollata della fiscalità, di richiamare l’attenzione sulle conseguenze di tale processo e di far comprendere la necessità di una soluzione costituzionale del problema.
Nell’arco di tempo intercorso dalla data di pubblicazione — cioè dal 1987 — a oggi, tutti i problemi della fiscalità italiana, elencati da Victor Uckmar nell’Introduzione (4), sono rimasti irrisolti: le dimensioni enormi della spesa pubblica; la carenza di garanzie per il cittadino di fronte al legislatore, all’amministrazione finanziaria e al giudice; la proliferazione di provvedimenti legislativi in materia fiscale; la debolezza dell’amministrazione finanziaria non adeguatamente fornita di mezzi e di funzionari; l’inadeguata tutela del cittadino dinanzi alle commissioni tributarie, espressa, in particolare, dal mantenimento del solve et repete, del “paga e ricorri”; l’introduzione del nuovo sistema penale tributario, sono tutti esempi che mostrano come, in sostanza, nulla sia mutato in meglio, mentre nuove e delicate problematiche sono sorte, come quelle relative all’elusione e al passaggio dalla tassazione del reddito effettivo a quella del reddito “normale”.
La libertà e le tasse, la protesta fiscale e il senso dello Stato
Esordendo in modo volutamente paradossale l’autore fa propria l’osservazione del filosofo di Harward Robert Nosick, secondo cui “la tassazione del reddito da lavoro configura una sorta di lavoro forzato” (5). Infatti lo Stato, prelevando al cittadino una parte di reddito equivalente al profitto di un certo numero di ore lavorative, lo costringe a lavorare gratis per quelle ore e, quindi, lo rende di fatto temporaneamente schiavo.
Dunque la fiscalità determina un costo, in termini di libertà personale, che, se è accettabile quando è attinente ad attività propriamente pubbliche, risulta odioso quando è causato da un’inefficiente ingerenza dello Stato in ambiti in cui potrebbe operare con successo la società civile.
Così non tardano a delinearsi le ragioni della protesta fiscale: invece di scandalizzarsi perché i contribuenti, nel 1986, si permisero di “parlar male di Garibaldi”, Antonio Martino sostiene che i benpensanti dovrebbero “[…] rendersi conto non solo che la protesta fiscale è legittima […], ma che essa costituisce caratteristica tipica ed ineliminabile della democrazia”, e che se vi è “[…] qualcosa di strano nella protesta fiscale in Italia, non è certo il fatto che abbia avuto luogo, ma che non abbia avuto luogo prima” (6).
Oltre all’eccessività del prelievo, gli italiani devono subire una legislazione fiscale “complessa, contorta, farraginosa, contraddittoria e spesso incomprensibile” (7), per cui neanche contribuenti con titoli di studio avanzati e di buona cultura possono adempiere ai loro obblighi fiscali senza l’ausilio di esperti. Come se ciò non bastasse, vengono comminate “[…] pene enormi ai contribuenti che adempiono i loro obblighi fiscali anche solo con un giorno di ritardo”: dinanzi a simili episodi “a me sembra — giunge ad affermare Antonio Martino — che questo terrorismo fiscale sia indegno di un Paese civile” (8).
Ciononostante, alcuni ritengono che interrogarsi sulla legittimità della pretesa fiscale sia segno di mancanza di senso dello Stato; ma, se il senso dello Stato è la consapevolezza dell’importanza delle sue funzioni, è lecito indagare quali siano le attività di sua competenza e quali no, quali da finanziare e quali da lasciare invece alla libera iniziativa, ponendo in questo modo le premesse per una fiscalità equa.
Il problema è ulteriormente complicato da “[…] coloro che parlano della necessità di perseguire la “giustizia distributiva”” (9) attraverso la fiscalità e da una mentalità corrente, secondo cui le imposte sarebbero “[…] fine a se stesse, una sorta di meritata punizione da infliggere a chi produce e guadagna un reddito” (10).
Anche questo aspetto va tenuto presente per comprendere come la spesa pubblica e la fiscalità abbiano potuto raggiungere, negli ultimi venticinque anni, i livelli denunciati dall’autore e perché, fra le cause che rendono difficile la soluzione dei problemi della spesa pubblica, dell’imposizione e dell’evasione, occupi un posto non secondario un diffuso sentimento, conscio o inconscio, di invidia sociale.
La misura della fiscalità
Secondo l’autore, la misura effettiva della fiscalità non è data dal totale delle entrate — fiscalità esplicita —, ma dall’ammontare complessivo della spesa pubblica — fiscalità implicita. Di questa fa parte anche il disavanzo pubblico, che, a tutti gli effetti, è un’“imposta diffusa”, “invisibile” agli occhi dei più, e “[…] “a scoppio ritardato”, nel senso che l’effettivo pagamento del disavanzo viene spostato avanti nel tempo e grava sui contribuenti futuri” (11).
Negli anni che vanno dal 1960 al 1985, la spesa pubblica è aumentata da 7.588 miliardi — pari a 77.634 se comparati al diminuito potere d’acquisto della lira — a 425.263, con un incremento reale del 448%. In questa condizione parossistica, il settore pubblico, nel 1985, impiegava mediamente, per spendere un miliardo, soltanto poco più di un minuto; tale esborso è costato, nello stesso periodo, quasi sette milioni e mezzo ad ogni italiano.
Queste prime cifre mostrano anche che, sempre negli ultimi venticinque anni, l’inflazione è stata superiore al 1.000%, un dato rilevantissimo, anche sotto il profilo fiscale, per valutare gli effetti del cosiddetto fiscal drag, del “drenaggio fiscale”, e la dinamica della fiscalità occulta.
Al finanziamento della spesa nell’anno 1985 hanno concorso, accanto alle imposte dirette (24,8%) e a quelle indirette (17,5%), i contributi sociali (25,4%) e altre entrate (8,1%), oltre ovviamente a un indebitamento netto pari al 24,3%.
Il “giorno dell’indipendenza personale”
Se si confronta l’ammontare complessivo dei costi pubblici con il reddito nazionale si ottiene la percentuale di reddito prodotto dagli italiani e da questi, consapevolmente o inconsapevolmente, consegnata all’erario. Tale percentuale può essere espressa anche con il numero di giornate lavorative che l’italiano medio deve dedicare al “leviatano pubblico” (12) per la fornitura dei mezzi richiesti.
Nel 1974 l’economista americano Milton Friedman ha proposto l’istituzione di “a new holiday”, di “una nuova festa” celebrativa del giorno in cui il contribuente medio smette di lavorare per il settore pubblico e inizia a destinare a sé e ai suoi i frutti del proprio lavoro (13).
In Italia questa nuova festività, che Antonio Martino propone di intitolare “il giorno dell’indipendenza personale”, è mobile e “progressiva”: infatti, se nel 1960 si sarebbe potuta celebrare il 29 aprile, nel 1980 si sarebbe dovuto attendere il 27 giugno e, nel 1985, addirittura Ferragosto: a suo avviso, il rapporto fra la spesa pubblica e il PIL, il prodotto interno lordo, “[…] costituisce la misura più evidente dell’abuso del potere politico ai danni della collettività”, mentre è “[…] illusorio ritenere che la libertà individuale sia tutelata e abbia un futuro quando la macchina politico-burocratica assorbe […] oltre il 60 % del reddito nazionale” (14).
D’altra parte, i difensori dello statalismo bollano queste argomentazioni qualificandole come “qualunquistiche” e “poujadistiche” e cercano di confutarle tecnicamente sostenendo che, per effetto dell’economia sommersa, il PIL è sottostimato e che, di conseguenza, le dimensioni del disavanzo devono essere ritenute meno preoccupanti, che la spesa pubblica non può essere considerata eccessiva e che l’imposizione può ancora aumentare (15).
“Il tesoro nascosto”
Il direttore del CREA si interessa al problema dell’economia sommersa fin dal 1978, studiando le serie monetarie dei vent’anni precedenti relative a un certo numero di paesi industrializzati. In quell’occasione “[…] notai — ricorda l’autore — un’inspiegabile anomalia: la quantità di moneta in rapporto al prodotto interno lordo era molto maggiore in Italia che nella media degli altri Paesi […]. Nel tentativo di spiegare il fenomeno avanzai […] la congettura che il denominatore della frazione, cioè il P.I.L., fosse in Italia superiore a quello rilevato” (16). Ipotizzando una sottostima del reddito nazionale del 28%, egli si premurava però di avvertire che “queste cifre sono solo il risultato di un semplicistico esercizio aritmetico, e non vanno prese alla lettera” (17).
Ma l’ipotesi, avanzata per sostenere che l’economia italiana sopravviveva nonostante lo statalismo, venne da diversi osservatori “[…] citata come la “stima” (sic) più alta del contributo dell’economia sommersa al reddito nazionale” (18).
A causa di quella strumentalizzazione, Antonio Martino confessa di essersi ben presto pentito di aver formulato quella congettura; infatti, le stime della sommersione economica vengono preferite ai veri rimedi per curare il malessere economico del paese, poiché “una robusta rivalutazione del reddito nazionale consente di gestire con minore affanno la politica di bilancio. Non solo diventa possibile porsi l’obiettivo di accrescere di qualche punto il prelievo fiscale, ma diventa anche più facile contenere la spesa. Un Paese che si scopre più ricco protesta di meno se si elimina un sussidio di troppo” (19).
Se così fosse, “[…] per risolvere i problemi italiani — commenta Antonio Martino — basterebbe una “robusta” rivalutazione del 100 per cento, che riporterebbe l’incidenza del disavanzo ai valori dei primi anni Settanta, alta ma meno assurda, quelli della spesa pubblica ai livelli dei primi anni Sessanta, e la pressione tributaria scenderebbe al di sotto di quella di Stati Uniti e Giappone. Come se non bastasse, l’Italia si collocherebbe ai vertici della prosperità mondiale. Purtroppo, non è così semplice” (20).
In realtà — prosegue — non abbiamo nessuna indicazione certa che l’incidenza dell’economia sommersa sia aumentata negli ultimi anni; anzi, i dati monetari suggeriscono che essa sia diminuita: “[…] il rapporto fra quantità di moneta […] e P.I.L., che nel 1978 era 0,55, è andato diminuendo ed è stato pari a 0,44 nel 1985″ (21) e, se è vero, come da più parti si sostiene, che l’economia sommersa è collegata a fenomeni di evasione fiscale, “[…] la crescita accelerata delle entrate tributarie che ha caratterizzato l’ultimo decennio dovrebbe suggerire una diminuzione drastica dell’economia sommersa” (22).
Ciononostante la convinzione che esista un “tesoro nascosto” è radicata anche nelle più alte autorità finanziarie dello Stato: nel febbraio del 1987, il Governatore della Banca d’Italia ha, fra l’altro, preso esplicitamente in considerazione l’ipotesi di una rivalutazione dei conti nazionali dell’ordine del 13-15%, sostenendo, nella sua relazione annuale, che “la necessità di affidare il riequilibrio della finanza pubblica anche all’innalzamento della pressione fiscale è confermata dal permanere di aree di elusione, di evasione e di erosione degli imponibili”, la cui “[…] ampiezza è resa oggi più evidente dalla rivalutazione del reddito nazionale” (23).
E Antonio Martino contesta la giustezza della soluzione che, per contrastare la tendenza alla sommersione di una parte dei contribuenti italiani, propone un innalzamento della pressione fiscale per tutti.
Non per volontà della maggioranza
Antonio Martino è decisamente convinto che, nonostante tutte le operazioni d’ingegneria contabile, la spesa pubblica abbia veramente raggiunto dimensioni esorbitanti, anche se la sua crescita non è stata probabilmente voluta dalla maggioranza e non è stata il risultato intenzionale di una cosciente deliberazione politica, avendo ripetutamente tutti i governi ribadito il proposito di un controllo della spesa e di una riduzione della sua incidenza sul reddito nazionale. Tale proposito, forse sincero, era quindi sicuramente velleitario.
Escludendo dunque la volontà politica, la causa effettiva del fenomeno va ricercata nella congiuntura di “anarchia costituzionale” (24), di cui soffre il procedimento di formazione delle decisioni di spesa. Esemplificando, l’autore sostiene che “[…] in una democrazia “illimitata” (cioè priva di una costituzione fiscale operante)” (25) il processo di formazione della spesa pubblica è analogo a quello dell’inquinamento ecologico, dal momento che la posizione del soggetto che la propone è molto simile a quella dell’ipotetico utente di un corso d’acqua: per entrambi i soggetti, il costo del comportamento è esterno rispetto a chi lo realizza, il danno sociale derivante dal singolo atto contribuisce in modo quantitativamente trascurabile alle dimensioni globali del problema, mentre l’eventuale astensione dal comportamento dannoso non produce alcun rilevabile vantaggio alla comunità e favorisce soltanto la concorrenza meno scrupolosa; il risultato è che chi ne ha l’interesse e la possibilità abusa del bilancio pubblico, esattamente come altri abusano dell’ambiente: tanti singoli atti dannosi realizzano una situazione finale disastrosa per tutti.
La soluzione al problema del disavanzo pubblico — che secondo l’autore è una componente rilevante della fiscalità implicita — “[…] va ricercata in un insieme di regole che disciplini il comportamento dei singoli fautori di nuove o maggiori spese, cioè in una Costituzione fiscale” (26), e che elimini quelle asimmetrie nella percezione dei costi e dei benefici della spesa pubblica, che, a loro volta, favoriscono la denunciata anarchia.
Un’asimmetria è costituita dal “[…] contrasto nella percezione di benefici concentrati, che vanno cioè ad un numero ridotto di persone, e costi diffusi, ripartiti su un gran numero di contribuenti” (27): per esempio, un contributo complessivo a fondo perduto di 570 miliardi a cento imprese di un determinato settore produttivo costerà solo 10.000 lire a ciascuno dei 57 milioni di italiani; mentre i beneficiari si organizzeranno in gruppo di pressione, gli altri non avranno né la percezione del costo né l’interesse a contrastare la relativa spesa; perciò la conclusione è scontata: “come previsto da Pareto nel lontano 1896: in queste circostanze, l’esito è fuori dubbio: gli sfruttatori avranno una vittoria schiacciante” (28).
Un’altra asimmetria consiste nel contrasto fra i benefici immediati, anche se modesti, e i costi futuri, anche se rilevanti; questa asimmetria ha un rilievo particolarissimo in Italia, i cui governi, negli ultimi quarant’anni, hanno avuto una durata media di circa dieci mesi! Un’esistenza politica tendente all’effimero è un evidente incentivo “ad adottare decisioni che producono benefici immediati, il cui merito viene attribuito al Governo in carica, finanziandoli con costi futuri, che verranno affrontati da governi successivi” (29) e da contribuenti a venire.
Spesa pubblica fra anarchia e legittimità costituzionale
L’anarchia costituzionale nel procedimento di formazione della spesa pubblica ha prodotto un disavanzo che, dal 1960 al 1985, è aumentato del 32.000% in termini nominali, e di 31 volte in termini reali e la cui incidenza sul PIL è passata dall’1,8% al 17,7%.
Un effettivo freno all’aumento del deficit pubblico si ha nel decennio 1951-1960. Nel periodo del “centrismo” i governi si ispiravano alla convinzione che il dettato costituzionale, contenuto nell’ultimo comma dell’articolo 81 — “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte” —, imponesse la tendenza al pareggio del bilancio, ed “erano altresì convinti che la copertura finanziaria delle leggi di spesa, oltre che obbligatoria sul piano costituzionale, fosse opportuna sotto il profilo della responsabilità nella gestione della cosa pubblica” (30).
Nel periodo precedente l’”apertura a sinistra” si hanno dodici rinvii alle Camere di leggi di spesa prive di copertura finanziaria, ma successivamente, con l’avvento del “centro sinistra”, si afferma sempre più la filosofia del deficit spending, del “deficit da spesa”, e viene di fatto abbandonato il principio ritenuto arcaico del pareggio di bilancio. La possibilità di adottare decisioni di spesa prive di copertura finanziaria ha prodotto, secondo l’autore, non soltanto l’aumento del livello complessivo di spesa, ma anche, in ragione del perseguimento “sfrenato” dello scopo prefisso, “il mancato rispetto di una scala di priorità” (31); l’attenzione è demagogicamente attratta soltanto dai benefici connessi alla decisione particolare e quest’ultima viene adottata indipendentemente dalla considerazione della sua economicità.
In questo modo si è passati dal principio di copertura alla “legge della futilità marginale crescente”, per cui “[…] le esigenze che la spesa si propone di soddisfare diventano via via sempre più futili” (32); vengono quindi trascurati i servizi pubblici essenziali; l’assistenza e la previdenza pubbliche sono insoddisfacenti e i cittadini ricorrono con sempre maggiore frequenza a cure e a coperture assicurative private; la difesa del loro patrimonio è affidata ad agenzie private di sicurezza; alla giustizia dei tribunali si preferiscono arbitrati e transazioni e si ricorre sempre più spesso a imprese private di recapito della corrispondenza.
Tuttavia, tutto questo non è l’esito di una cosciente scelta politica, “[…] ma la conseguenza non intenzionale dell’operare del sistema di incentivi politici tipico di qualsiasi sistema democratico” (33).
Partendo dal presupposto che le maggioranze che si formano in Parlamento non rappresentano necessariamente la maggioranza degli elettori, ma spesso sono soltanto la somma di diverse minoranze, Antonio Martino descrive un fenomeno, denominato dagli americani logrolling, ben noto agli studiosi di “economia della politica”: “lo scambio di favori” fra parlamentari o partiti politici diversi; attraverso il vicendevole sostegno, “si sommano […] due (o più) minoranze che, coalizzandosi, realizzano la maggioranza necessaria all’approvazione di tutte le decisioni di spesa cui ognuna di esse è interessata” (34).
In questo modo vengono approvate dalla maggioranza parlamentare, con un procedimento poco rispettoso di una vera democrazia, decisioni che avvantaggiano esigue minoranze di cittadini e che non sarebbero mai accettate dalla maggioranza degli elettori.
D’altro lato, secondo l’autore — che dichiara di non voler formulare una critica al metodo democratico in genere, ma al funzionamento attuale dei meccanismi decisionali — è lecito dubitare che il solo requisito di una maggioranza, anche reale, dei cittadini, configuri pienamente la condizione di legittimità di una decisone di spesa, non potendosi escludere che una maggioranza abusi sistematicamente del suo potere per sfruttare la minoranza.
Dunque, se non è sufficiente la legge del numero a garantire la richiesta legittimità, è necessario che si trovi un accordo su criteri obbiettivi minimi di giustificazione delle decisioni di spesa, che, essendo “inevitabilmente finanziata con denaro proveniente da tasche private”, si sostanzia in una sorta di “confisca” di risorse e limitazione della libertà a danno di qualcuno (35).
Se “[…] il finanziamento della spesa pubblica costituisce, per chi ne sopporta il costo, niente altro che un esproprio” (36), in quanto l’erario preleva coattivamente una parte del reddito di proprietà del contribuente, si può sostenere che i criteri di legittimità dell’esproprio della proprietà, previsti dall’articolo 42 della Costituzione, possano valere analogamente anche nel caso dell’esproprio del reddito. In questo modo, si possono individuare i requisiti di legittimità delle decisioni di spesa nel conseguimento dell’interesse generale e nell’indennizzo del contribuente mediante la fornitura di servizi pubblici di valore pari alle imposte pagate.
Però, poiché questo meccanismo limita pur sempre la libertà del cittadino di disporre autonomamente della ricchezza prodotta, l’entità della spesa e del conseguente prelievo andranno oggettivamente contenuti per non ridurre il soggetto in una condizione di tutela statale.
Una fiscalità eccessiva è antisociale
Si può facilmente immaginare che la soluzione appena prospettata non sarà condivisa dai difensori dello Stato assistenziale, i quali sostengono che le dimensioni della spesa pubblica sono determinate anche dalla necessaria soddisfazione dell’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, richiamati dall’articolo 2 della Costituzione, e accusano i critici dello statalismo di scarsa sensibilità sociale.
Molti di loro ignorano che “[…] la spesa per “prestazioni sociali” rappresenta circa un terzo delle spese totali del settore pubblico consolidato”, e che nel decennio 1975-1985, a fronte di un reddito reale “enormemente più alto e più uniformemente distribuito che in passato” (37), essa è aumentata di circa sette volte.
Se i 133.782 miliardi spesi nel 1985 per prestazioni sociali fossero stati distribuiti al 20% della popolazione, supponendo per assurdo che tale sia la percentuale di povertà nel paese, gli italiani sarebbero stati trasformati in una nazione di soli benestanti; invece, i soldi dei contribuenti sono stati assorbiti dai costi e dagli sprechi burocratici che hanno reso costosissimi i servizi.
Antonio Martino ricorda il caso esemplare del Comune di Roma, che, qualche anno fa, spendeva 77 miliardi all’anno per gestire asili nido in cui si accoglievano 4.000 bambini; se il Municipio della Capitale, invece di gestire in proprio il servizio, avesse pagato le relative rette presso i più esclusivi asili della città, avrebbe risparmiato almeno 15 milioni all’anno per ogni ospite.
Simili episodi legittimano il sospetto che “[…] i veri beneficiari dell’assistenzialismo non sono i destinatari dichiarati dell’aiuto, ma i politici e i burocrati legati all’”industria dell’assistenza”” (38).
Gli statalisti ritengono inoltre che le esigenze di socialità non sarebbero comunque pienamente soddisfatte neppure in uno Stato assistenziale ben funzionante, se non si provvedesse nel contempo a ridistribuire la ricchezza attraverso provvedimenti di politica economica; a questi sostenitori dell’ugualitarismo e della spesa pubblica, secondo l’autore, non interessa tanto “dare a chi ha “poco““, ma soprattutto “punire chi ha “troppo”” (39) attraverso una progressiva imposizione tributaria, accompagnata non di rado dall’enfatizzazione dell’evasione e dallo stimolo dell’invidia sociale, senza preoccuparsi se il concorso di questi fattori determini una graduale disgregazione della società.
“Pagare tutti per pagare meno”
Se i tributi, che “non dovrebbero mai essere visti come strumento di soddisfazione dell’invidia” (40), sono diventati un pericoloso strumento di dialettica, ciò accade proprio a causa dell’invidia sociale, che è “l’ultima speranza degli orfani dello statalismo” (41). A motivo di ciò, secondo l’autore, si è affermata nell’opinione pubblica l’idea che “[…] i contribuenti italiani si dividerebbero in due categorie, “evasori e tartassati” […] e i tartassati lo sarebbero soltanto per via del fatto che i malvagi evasori si rifiuterebbero di fare il loro dovere”, per cui, se si riuscisse a far pagare agli evasori il dovuto, ritengono alcuni che “tutto funzionerebbe nel migliore dei modi” (42).
L’enfasi è ulteriormente aumentata da quegli organi di informazione che definiscono sarcasticamente l’evasione come lo “sport nazionale”, mentre in realtà essa “[…] non costituisce […] un’invenzione italiana, ma è un fenomeno universale” (43).
Il legislatore è talmente consapevole dell’universalità e dell’invincibilità residuale dell’evasione, che “[…] la nostra legislazione tributaria è basata su una stima spesso implicita della sue dimensioni. Le nostre imposte, in altri termini, vengono introdotte nella consapevolezza del fatto che verranno in parte evase e sono, quindi, maggiori di quanto non sarebbero se il legislatore fosse convinto che l’evasione sia assente” (44).
Lo stesso Governatore della Banca d’Italia, nella relazione già citata, si dice convinto che l’ampiezza delle aree di elusione, di evasione e di erosione renderebbe necessario un innalzamento della pressione fiscale.
In questo senso è vero che l’evasione si traduce in imposte più alte per i contribuenti onesti, ma l’affermazione va corretta denunciando l’ingiusto comportamento del legislatore e dell’esecutivo: infatti, “se esistono contribuenti che non fanno il loro “dovere civico” e si rifiutano di pagare le imposte dovute, la soluzione non sembra proprio quella di accrescere il carico complessivo su tutti i contribuenti, anche quelli onesti” (45).
Il problema dell’evasione non si risolve aumentando le imposte o praticando il terrorismo fiscale; esso “[…] può essere risolto solo grazie all’azione di “un corpo numeroso di accertatori onesti, tecnicamente preparati ed adeguatamente remunerati”, come sosteneva un predecessore dell’attuale Governatore che si chiamava Luigi Einaudi” (46).
Per quanto riguarda, infine, lo slogan “pagare tutti per pagare meno” (47), si tratta appunto di un puro slogan perché “[…] non è certo che dalla lotta all’evasione possono venire i mezzi per una riduzione cospicua delle imposte” (48); anzi l’esperienza mostra che “[…] quando aumentano le entrate del settore pubblico le spese aumentano in misura ancora maggiore” (49).
La crescita della fiscalità visibile e di quella occulta
Dal 1974 al 1986 le entrate totali del settore pubblico sono aumentate di quasi nove volte in termini nominali (+785%) e dell’87,5% in termini reali — tenendo cioè conto dell’inflazione —, passando dal 32,8% al 47,1% del PIL. Alla spesa pubblica, che nel 1975 era finanziata per il 14,6% dalle imposte dirette — 8.440 miliardi —, l’imposizione diretta nel 1985 ha fornito un contributo del 24,8%, pari a 105.471 miliardi. La crescita delle imposte dirette dal 1975 al 1985 è stata impressionante: essa è aumentata di dodici volte in termini nominali (+1.150%) e di otto volte in termini reali (+705%).
Tuttavia, un incremento di queste dimensioni non corrisponde a un reale aumento della base imponibile, ma è collegato al fenomeno del fiscal drag, che rappresenta una modalità extralegale e nascosta per dilatare l’imposizione.
Il fenomeno fa riferimento a un particolare effetto dovuto all’azione congiunta della progressività delle aliquote d’imposta e dell’inflazione, per cui gli imponibili dei contribuenti vengono spinti verso scaglioni di reddito gravati da aliquote maggiori.
Il risultato è che, “[…] anche se il reddito reale è invariato, i contribuenti sopportano una pressione tributaria crescente” (50). Il fenomeno ha assunto proporzioni enormi, l’autore cita le stime di altri economisti, secondo i quali “il gettito complessivo da fiscal drag, maturato dal 1976, sarebbe risultato, nel 1984, pari a circa 24.300 miliardi, il 45 per cento del gettito totale dell’IRPEF di quell’anno” (51).
In tale contesto i provvedimenti, adottati periodicamente dai nostri governanti, di ritocco delle aliquote si mostrano puramente apparenti, perché danno l’impressione di concedere sgravi fiscali, mentre in realtà le imposte continuano a crescere.
Un meccanismo, che di fatto e surrettiziamente introduce nuove imposte, non soltanto è contrario all’articolo 23 della Costituzione, ma è anche radicalmente iniquo. La soluzione — suggerita originariamente da Vito Tanzi e condivisa in seguito anche dal sindacato socialcomunista — consiste nell’indicizzazione degli scaglioni di reddito ai fini della determinazione dell’imposta: accolta dal legislatore nel 1989, decorre dal periodo d’imposta 1990, quindi non se ne conosce ancora la reale efficacia.
Nonostante le “troppe imposte sui redditi” (52), l’imposizione diretta rappresenta solo un quarto del finanziamento della spesa pubblica; al resto si provvede con la “fiscalità occulta” (53), costituita da imposte indirette (17,5%), contributi sociali (25,4%), indebitamento netto (24,2%). Sommando questi dati emerge chiaramente che “[…] circa l’80 per cento delle imposte in Italia sono invisibili, pagate cioè da contribuenti inconsapevoli” (54).
Un tale sistema è “fraudolento e antidemocratico” (55), e non certo soltanto perché il prezzo della benzina è costituito per quattro quinti da tasse, ma per il sistematico e progressivo ricorso al deficit, che, finanziato con la monetizzazione del debito e con l’inflazione, è la peggiore delle imposte: infatti, secondo Luigi Einaudi, è “peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento per i pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni classe sociale e di disordine sociale” (56).
Anche se l’indebitamento netto e le imposte indirette hanno finanziato circa il 42% delle spesa pubblica, il sistema non cessa di dichiararsi informato a “criteri di progressività”, e ciò è malauguratamente vero perché in effetti coniuga “[…] il peggio di entrambe le alternative, in quanto accoppia una insensata progressività nell’imposizione sul reddito, con il massiccio ricorso a fonti di gettito chiaramente regressive o di segno incerto” (57).
Antonio Martino ripetutamente insiste per l’abbassamento delle aliquote marginali, convinto che un simile provvedimento “[…] riduce l’incentivo all’elusione delle imposte ed accresce l’incentivo alla produzione del reddito” (58), e favorisce anche un ampliamento della base imponibile e del gettito. Il convincimento dell’economista si fonda, oltre che sull’insegnamento di Luigi Einaudi, sull’esperienza degli Stati Uniti d’America, ove, nel triennio dal 1982 al 1984, nonostante la riduzione dell’aliquota marginale massima dal 70 al 50%, sono aumentati sia l’imponibile che il gettito.
L’alternativa costituzionale
Comunque, un’efficace soluzione del problema della fiscalità italiana deve essere ricercata a livello costituzionale. Allo scopo non è necessaria una riforma della Costituzione, ma è sufficiente una corretta applicazione del già citato ultimo comma dell’articolo 81, che — come riteneva Ezio Vanoni — “[…] è una garanzia della tendenza al pareggio del bilancio” (59).
Sono trascorsi più di venticinque anni da quando la prospettiva discrezionale di tipo keynesiano è stata preferita al principio “neutrale” (60) del pareggio di bilancio e “[…] le conseguenze che ne sono seguite hanno indotto un numero crescente di personalità politiche ed accademiche a suggerire il ripristino di una Costituzione fiscale funzionante” (61), e fra esse il Governatore della Banca d’Italia nella relazione del 1983.
Anche senza pretendere la soluzione più radicale, consistente nel privare i membri delle due Camere dell’iniziativa in materia di bilancio — soluzione condivisa da Luigi Einaudi per il motivo che “[…] proprio i deputati, per rendersi popolari, hanno proposto spese senza nemmeno rendersi conto dei mezzi necessari per fronteggiarle” (62) — è possibile per altre vie “[…] sottrarre le decisioni di spesa alla miriade di centri decisionali operanti in condizioni di irresponsabilità” (63).
In primo luogo va ripristinato il principio dell’ultimo comma dell’articolo 81, quale principio generale di responsabilità nelle decisioni di spesa. L’obbligo del pareggio effettivo va rispettato da tutte le decisioni di spesa del settore pubblico, comprese le amministrazioni locali, e la copertura finanziaria deve riguardare l’intera durata dell’impegno di spesa che viene assunto e non basta che sia limitata alla frazione del primo anno di vigenza.
Quindi occorre individuare tassativamente i mezzi costituzionalmente accettabili per far fronte a nuove o maggiori spese. Tali mezzi sono: la riduzione di altre spese, l’introduzione di nuove imposte ad hoc, e, eccezionalmente, l’indebitamento sul mercato.
Antonio Martino è convinto che “se si riuscisse a sottoporre il processo di formazione delle decisioni di spesa a regole costituzionali, la soluzione del problema dell’iperfiscalità sarebbe in larga misura realizzata” (64).
L’unica modifica della Costituzione auspicata dall’autore è l’abolizione del divieto di referendum abrogativo in materia tributaria, sancito dall’articolo 75, al fine di consentire ai cittadini un effettivo controllo popolare diretto sull’attività fiscale.
E, per finire, il rispetto effettivo del dettato costituzionale potrà dirsi realizzato solo a condizione che venga perseguito l’obbiettivo della trasparenza in materia fiscale, “[…] un obiettivo da porsi senza la pretesa di poterlo raggiungere immediatamente” (65), ma adoperandosi con continuità “[…] perché il grado di trasparenza della fiscalità aumenti, perché l’imposizione sia in misura sempre maggiore consapevole, perché i contribuenti sappiano sempre meglio quanta parte del carico fiscale grava direttamente su di loro” (66): infatti, “[…] la fiscalità onesta è quella che consente ai contribuenti di apprezzare per intero la penosità dell’imposizione: il fisco “indolore” è, quasi sempre, disonesto” (67).
“Perché non noi?”
“Non è mai politica attuale la parola dei profeti disarmati. Ma in un popolo ci vogliono i politici attuali e quelli inattuali; e, se i primi sono giudicati savi ed i secondi matti, ci vogliono i savi e i matti. E guai ai popoli che hanno solo i savi, perché spetta di solito ai matti porre e coltivare i germi della politica avvenire”: con questa citazione di Benedetto Croce posta in epigrafe del capitolo conclusivo (68), l’autore fa intendere che sa che le denunce e le proposte formulate nel suo studio provocano spesso una reazione scettica in chi, pur condividendole, le reputa tuttavia utopistiche o velleitarie, in quanto irrealizzabili politicamente.
Ma lo studioso non accetta la concezione della politica come “l’arte del possibile”; al contrario, ritiene che “[…] scopo della politica sia quello di rendere possibile ciò che è desiderabile” e che l’obiezione del “politicamente impossibile” in molti casi è solo “una razionalizzazione dell’inazione, una giustificazione del conservatorismo, una difesa ad oltranza dello statu quo“ (69).
La sua critica alla fiscalità, non condizionata dal bisogno di un compromesso a tutti i costi, né intimidita dalla mitologia socialista, mette coerentemente in discussione lo Stato “sociale”, che, nel suo assetto attuale, deve essere abbandonato.
Una sua difesa non ha argomenti, non può invocare né nobili intenzioni originarie, né risultati positivi; infatti l’assistenzialismo di Stato “[…] venne introdotto in forma sistematica da Bismark nel 1881 per svuotare di significato la posizione politica dei socialdemocratici” (70), e, di conseguenza, “[…] il problema della lotta alla miseria è stato affrontato dallo Stato sociale bismarkiano su base paternalistica: lo “Stato-papà” ha individuato una serie di bisogni “essenziali”, ha reperito i mezzi con la pressione tributaria, l’indebitamento e l’inflazione, si è dato alla produzione dei servizi relativi in proprio — spesso in condizioni di monopolio — e li ha distribuiti indiscriminatamente sotto costo o “gratis”. Questo sistema è fallito miseramente, anche se in misura diversa, ovunque” (71).
Il rifiuto di un simile modello di Stato non comporta l’abbandono degli indigenti, dal momento che “[…] lo Stato assistenziale costa più di quanto rende” e che “[…] solo le briciole dell’assistenzialismo sono arrivate ai beneficiari dichiarati”, mentre “[…] il più è stato dilapidato in costi burocratici (inclusivi della corruzione, degli sprechi, delle frodi e delle clientele)” (72).
Inoltre si deve considerare che “[…] non tutta la spesa pubblica è destinata a finalità “sociali”: nel 1985 la spesa per prestazioni sociali ha costituito soltanto il 31 per cento della spesa totale del settore pubblico; né è vero che la crescita della spesa pubblica complessiva sia interamente imputabile a spesa “sociale”: dal 1976 al 1985 l’incremento della spesa per prestazioni sociali […] ha rappresentato solo il 30 per cento dell’incremento della spesa complessiva” (73).
Infine va chiarito che contrastare l’assistenzialismo non significa negare l’assistenza: vi sono innumerevoli spese, secondo Antonio Martino, che potrebbero essere ridotte, garantendo una diminuzione della spesa totale, senza dover incidere sulle spese realmente assistenziali.
Riflettendo su queste affermazioni dell’autore, è naturale chiedersi per qual motivo i nostri governanti, dovendo ridurre la spesa pubblica, scelgano costantemente di contrarre i costi assistenziali, che, come si è visto, sono meno di un terzo del totale. Si potrebbe dubitare che essi vogliano, premendo in questo modo sull’opinione pubblica, esercitare una difesa preventiva, ricattatoria e non dichiarata dello statalismo.
Antonio Martino non affronta soltanto problemi di diritto tributario e di economia politica, ma anche temi di diritto costituzionale e di psicologia sociale, come quello dell’invidia, offrendo al lettore un lavoro scientifico e ricco di informazioni. La vivacità dell’esposizione rende lo studio piacevole, mentre l’oggettiva situazione della fiscalità italiana ne conferma l’attualità.
Concludendo, è giusto riconoscere l’idealità, che traspare in ogni pagina e che testimonia un gusto per la verità e un coraggioso anticonformismo, e ringraziare l’autore per l’aiuto che offre a quanti sperano che “la saviezza dei savi perirà e l’intelligenza degli intelligenti si oscurerà” (74), e a quanti intendono rispondere positivamente alla domanda posta a titolo del capitolo conclusivo: “Perché non noi?”.
NOTE
(1) Cfr. Antonio Martino, Noi e il fisco. La crescita della fiscalità arbitraria: cause, conseguenze, rimedi, con una Introduzione di Victor Uckmar, Studio Tesi, Udine 1987, pp. X-206; la frase cit. è a p. 4.