di Riccardo Cascioli
Domenica scorsa sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia offriva una immagine scoraggiante quanto realistica dell’Italia, un paese – diceva – che «non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi». E giù a descrivere impietosamente un paese che dalla giustizia all’istruzione e alla burocrazia, dalla classe politica a quella imprenditoriale, è l’immagine di un paese paralizzato, fermo al passato, avvitato su se stesso, in cui «la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti».
Bisogna invece riconoscere che la crisi di identità riguarda tutto il popolo italiano, che già da tempo ha smesso di credere nel futuro e nella vita, e per questo è condannato lentamente all’estinzione se non interverrà un fattore nuovo.
Per capire basta soffermarsi sugli ultimi dati dell’Istat sulle nascite in Italia, diffusi pochi giorni fa. Nei primi 4 mesi del 2013 sono nati 163.078 bambini, ottomila in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: con questo ritmo a fine anno la contrazione rispetto al 2012 potrebbe essere di 23-24 mila nascite portando il numero complessivo di nati a 511mila, se non un record negativo, comunque molto vicino.
Peraltro, sempre guardando ai primi quattro mesi del 2013, registriamo anche un saldo negativo tra nascite e morti che arriva a 54201 unità. Dopo il leggero – ma molto leggero – miglioramento dell’inizio 2000, l’Italia dunque si ricandida a guidare la classifica dei paesi a più basso indice di fertilità al mondo.
Qualcuno sostiene che questo calo sia anche una conseguenza della crisi economica: con meno soldi in tasca, più precarietà nel lavoro – si dice – si fa fatica a metter su famiglia e pensare anche di avere figli. Ma questo, che pare un ragionamento di buon senso, è invece smentito dalla realtà. Perché queste ultime sono solo piccole variazioni di una tendenza che però è ormai netta da oltre quattro decenni, da quando cioè il tasso di fertilità delle donne italiane è crollato ben sotto la media europea, che è attualmente intorno agli 1,5 figli per donna. In altre parole, il crollo delle nascite precede la crisi economica e, anzi, ne è una causa, anzi la causa principale e strutturale.
In realtà si smette di mettere al mondo figli non per mancanza di soldi ma per mancanza di fiducia nel futuro, e non è un caso che il crollo delle nascite in Italia abbia accompagnato il rapido processo di secolarizzazione, che poi dal punto di vista sociale e legislativo si è tradotto in diffusione della contraccezione, introduzione del divorzio e poi dell’aborto con tutto quel che ne consegue.
Dal punto di vista economico le conseguenze non si sono fatte attendere. L’effetto più evidente del rapido invecchiamento della popolazione è quello dell’aumento insostenibile della spesa previdenziale e assistenziale, che non potrà che peggiorare negli anni a venire. Basti pensare alle cifre presentate alla Settimana sociale dei cattolici lo scorso settembre dal demografo Giancarlo Blangiardo: nel 2041 «la fascia di età più rappresentata nella struttura degli italiani diventerà quella dei 70enni».
Ma la mancanza di nascite significa pure invecchiamento della forza lavoro (con perdita di competitività conseguente), minori investimenti, restringimento della base per l’imposizione fiscale (si abbassa la percentuale della forza lavoro sul totale della popolazione). In queste condizioni l’aumento delle tasse diventa la strada più facile per compensare la minore base per l’imposizione fiscale a fronte di spese sociali sempre più elevate. Fino al punto da diventare insopportabili per il sistema, cosa a cui l’Italia è già arrivata.
A rendere maggiormente drammatica la situazione è l’assoluta incoscienza e irresponsabilità di politici e intellettuali di questo paese (ma il problema è europeo) che non sanno o non vogliono vedere questa situazione e quindi impediscono che ci si interroghi seriamente su possibili soluzioni. Probabilmente perché questo costringerebbe a mettere in discussione una serie di idoli della nostra società: la disgregazione della famiglia naturale è la prima causa di questa situazione e allora bisognerebbe pensare a rafforzarla anziché prenderla a picconate come si sta facendo. Aiutare le donne a portare avanti le gravidanze anziché invocare (e finanziare) l’aborto come diritto umano già chiuderebbe il gap tra nascite e morti. Bisognerebbe poi smetterla di promuovere l’ideologia di genere e stili di vita omosessuali, che per definizione sono sterili e saranno quindi il colpo di grazia per questa società.
Se queste sono osservazioni elementari su cui qualsiasi governante dovrebbe ragionare, c’è anche un livello più radicale a cui affrontare la questione.
La mancanza di fiducia nel futuro, infatti, non si cura con l’ottimismo della volontà né a colpi di legge. E’ qualcosa che ha a che fare con le domande elementari e più profonde che sono nel cuore di ogni uomo, sui motivi per cui vale la pena vivere, sulle ragioni per cui vale la pena costruire: studiare, lavorare, sposarsi e mettere al mondo figli.
E’ il punto sui cui anche i nostri vescovi dovrebbero riflettere maggiormente: invece di pensare a cosa dovrebbero fare i governi, dovrebbero preoccuparsi maggiormente di come testimoniare la bellezza di una vita piena di senso che scaturisce dall’incontro con Cristo. Se il problema dell’Italia – e dell’Occidente – nasce con la secolarizzazione la risposta più radicale è solo una nuova evangelizzazione, ovvero una proposta chiara e affascinante di vita.