Articolo pubblicato su Cristianità n. 23 (marzo 1977)
di Massimo Introvigne
INDICE
I. CHE COS’È LO STRUTTURALISMO?
1. IL METODO
2. LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA
3. L’ANTI-METAFISICA
II. ESITI E APPLICAZIONI DELLO STRUTTURALISMO
1. IL PENSIERO SELVAGGIO
2. LA LETTURA STRUTTURALISTICA DI MARX
3. STRUTTURALISMO E SEMIOLOGIA
A. La classificazione delle cose
B. La «messa in ordine» delle istituzioni
CONCLUSIONE: IL RITORNO DI DIONISO
NOTE
I. CHE COS’È LO STRUTTURALISMO?
«Tutti ne parlano ma la maggioranza non sa affatto che cosa sia» (L. Jugnet) (1). «Lo strutturalismo è una categoria che esiste per gli altri, quelli che non sono strutturalisti» (M. Foucault) (2). Basterebbero queste due citazioni – la prima di un avversario, la seconda di uno dei maggiori esponenti dello strutturalismo – a presentare le difficoltà di una definizione unitaria delle dottrine, delle ricerche e delle teorie comunemente etichettate come «strutturalistiche» o «strutturali».
Né sarebbe esatto assumere come denominatore comune soltanto il concetto di «struttura», largamente usato da scienziati, da sociologi e anche da filosofi (i neo-positivisti discepoli di Carnap, per esempio, e per certi versi anche vari seguaci di Popper), che non possono essere in alcun modo. ricollegati al movimento strutturalista.
Pare opportuno, quindi, distinguere nello strutturalismo tre aspetti diversi: un metodo, una dottrina della conoscenza, una metafisica (o più esattamente un’anti-metafisica), che, pur trovando un punto di incontro e una sintesi unitaria nell’opera di Claude Lévi-Strauss, il fondatore dello strutturalismo propriamente detto, non sono necessariamente tutti e tre compresenti nei vari autori considerati strutturalisti.
1. IL METODO
Il metodo strutturalista si fonda principalmente sulla asserzione secondo cui è possibile studiare le relazioni tra i termini di un sistema, a prescindere da qualunque informazione relativa ai termini stessi. «Lo strutturalismo – dichiara Lévi-Strauss – preleva i fatti sociali nell’esperienza e li trasporta in laboratorio.
Là si sforza di rappresentarli sotto forma di modelli, prendendo sempre in considerazione non i termini, ma la relazione tra i termini» (3). Noi possiamo descrivere, per esempio, una tribù – come gli indiani Nambikwara, a lungo studiati da Lévi-Strauss – senza osservare e senza dire nulla dei singoli membri delle tribù, ma semplicemente inventariando e classificando le relazioni (di parentela, di comunicazione linguistica, economiche, sociali, ecc.) che essi stabiliscono tra loro.
L’insieme di tali relazioni costituirà la «struttura» della tribù, unico oggetto autentico della scienza in quanto (almeno nel breve periodo) rimane costante e immutabile, mentre i singoli membri mutano e non è possibile seguire le loro complesse vicissitudini, Così – per usare un altro esempio particolarmente caro allo strutturalismo – è possibile fornire la descrizione di una lingua o di un linguaggio senza fare riferimento alle singole parole o espressioni, ma soltanto alle relazioni (grammaticali, sintattiche, ecc.) che tra esse si stabiliscono, ricavando così la «struttura» della lingua o del linguaggio in questione.
Il metodo strutturalista serve così a costruire schemi di relazioni a partire da un insieme di termini: schemi logico-formali o matematici, schemi antropologici, schemi socio-economici (incontrando per questa via il marxismo e la nozione marxista di una struttura economica fondamentale su cui si costruiscono le varie sovrastrutture), schemi relazionali oscuri dell’inconscio (avvicinandosi così alla psicanalisi).
È necessario però, a questo punto, rilevare come molti studiosi e scienziati, forse troppo frettolosamente etichettati come strutturalisti – come il linguista svizzero de Saussure (4) o lo psicologo Piaget – si limitano a considerare quello relazionale o strutturale come un aspetto della realtà oggetto della loro indagine, senza escludete la validità complementare di altri approcci e di altri metodi di studio.
Altri, invece, ritengono che la scienza possa avere per oggetto solo le strutture e debba disinteressarsi dei termini individuali che, posta la loro variabilità e non riducibilità in schemi, non potrebbero essere oggetto di una indagine scientifica seria. Si tratta, in questo caso, di una prospettiva riduzionista che già presuppone il passaggio dallo «strutturalismo-metodo» allo «strutturalismo – dottrina della conoscenza».
Una prospettiva, tra l’altro, che si vuole severamente «scientifica», ma che fatalmente denuncia tutti gli inconvenienti derivanti dalla presenza di premesse filosofiche occulte, che condizionano lo stesso momento sperimentale. Altri studiosi, così, criticano severamente gli strutturalistì: l’antropologo Lévi-Strauss viene accusato di costruire in laboratorio falsi sel-aggi che non esistono nella realtà, e gli stessi psicanalisti insorgono contro la sintesi tra strutturalismo e psicanalisi operata da Lacan (5).
2. LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA
La gnoseologia strutturalista parte dal metodo strutturalista, ma va oltre. Non solo asserisce la possibilità di studiare le strutture relazionali a prescindere dai termini individuali tra cui le relazioni si stabiliscono, ma sostiene la necessità di questo approccio teorico, in quanto la conoscenza umana è limitata, può conoscere soltanto le relazioni e le strutture, mai gli individui, mai una pretesa « essenza » delle cose.
Non è possibile conoscere la realtà in sé: l’intelletto umano può arrivare soltanto a cogliere la trama di rapporti, relazioni, strutture che lega tra loro uomini e cose. Paul Ricoeur ha insistito, giustamente, sulla « parentela » tra la dottrina della conoscenza strutturalista e quella di Kant, il quale pure asseriva che gli uomini possono conoscere solo l’apparenza delle cose, i fenomeni, e mai il noumeno, la cosa come è in sè, che resta oscura e inconoscibile (6).
Tuttavia, la dottrina della conoscenza di Lévi-Strauss è una trascrizione materialista della filosofia di Kant, un kantismo materialista (un kantismo dopo il marxismo), perché la struttura è un insieme di relazioni rigorosamente materiali e lo spirito umano la conosce in quanto ne è partecipe, ne è parte, in quanto «lo spirito rivela la sua natura di cosa tra le cose» (7).
La dottrina della conoscenza strutturalista intende andare oltre l’idealismo e il marxismo, segnare un passo ulteriore nella linea del rifiuto dei principi della gnoseologia e della metafisica classica greco-cristiana. L’hegelismo, infatti, nega la conoscenza e perfino l’esistenza di oggetti, ma pretende ancora di conoscere e descrivere almeno un soggetto, lo Spirito Assoluto; lo stesso Marx è ancora «metafisico» nella misura in cui identifica la materia come soggetto dell’evoluzione e descrive il suo movimento nella storia: lo strutturalismo, invece, nega la possibile conoscenza non solo di oggetti, ma anche di qualunque soggetto, posto che non si conoscono termini, ma solo relazioni.
In particolare, viene combattuta la pretesa di conoscere la storia. È vero: le strutture mutano – ma per poter conoscere le loro mutazioni, cioè la storia, occorrerebbe avere conoscenza di cose « in sè » che rimarrebbero immutabili al mutare delle loro relazioni, ed è appunto ciò che lo strutturalismo nega. Niente scienza della storia, dunque: ma scienza, al massimo, dei singoli momenti storici.
Si potrà, per esempio, descrivere, come spiega Michel Foucault, il tessuto di strutture, l’epistéme, del secolo XVI, e poi l’epistéme del secolo XVII, che è diversa, ma non si potrà mai scoprire come è avvenuto il passaggio dall’una all’altra (6). Lo strutturalismo rifiuta – il gergo è quello delle predilette scienze linguistiche – l’indagine «diacronica» e si accontenta dello studio «sincronico», elevando a limite universale della conoscenza il limite metodologico che de Saussure assegnava alla sua indagine sulla lingua: operare come il giocatore di scacchi, per il quale una data posizione dei pezzi prescinde dagli antecedenti che l’hanno prodotta; per comprendere la situazione e impostare le mosse successive conta solo il presente, ed è perfettamente inutile ricordare quello che è successo prima.
Tuttavia, anche lo studio «sincronico» delle strutture presuppone che queste rimangano ferme, almeno per il tempo necessario a descriverle:. dire che possiamo conoscere le strutture, ma non le loro mutazioni, significa asserire implicitamente che le mutazioni avvengono soltanto nel lungo periodo.
La seconda generazione strutturalista si rivolta pertanto contro Lévi-Strauss, asserendo che le strutture mutano e cambiario continuamente, e dunque non è possibile fissarle e descriverle (mentre si comincia a descriverle già sono mutate), così che, non potendo conoscere affatto la mutazione che pure (marxisticamente) è l’unica realtà, l’uomo propriamente non può conoscere nulla. Si scivola così nel relativismo assoluto e nello scetticismo universale, dove – come già ammoniva sant’Agostino (9) – forzatamente conclude chiunque neghi i principi del ragionare logico.
3. L’ANTI-METAFISICA
Muovendo dalle premesse gnoseologiche sopra enunciate, lo strutturalismo giunge alla più radicale e totale negazione della metafisica. Se il metodo strutturalista afferma che è possibile studiare la struttura di relazioni tra gli enti, a prescindere dagli enti stessi; se la dottrina della conoscenza aggiunge che la conoscenza umana è soltanto conoscenza delle relazioni, rimanendo gli enti in sé totalmente inconoscibili; l’anti-metafisica di Lévi-Strauss e dei suoi seguaci conclude che gli enti non soltanto non sono conoscibili, ma non esistono affatto, e che l’unica vera realtà è la trama universale di relazioni, l’unica struttura che intesse l’universo.
È l’esito ultimo della filosofia moderna. Restano ancora gli uomini, quando si nega l’esistenza di Dio. Resta ancora un soggetto universale, uno Spirito Assoluto, quando, con Hegel, si nega l’esistenza dei singoli. Resta ancora la materia, quando Marx nega l’esistenza dì ogni realtà spirituale: e perfino i neo-positivisti più spinti, che negano ogni categoria generale, concedono almeno l’esistenza di singoli oggetti, di cose.
Lo strutturalismo, invece, sanziona la morte del reale: non esistono né uomini né cose, né soggetti né oggetti, né spirito né materia, e tutto ciò che sembra esistere non è che concrezione, «piega» più o meno occasionale e momentanea dell’unica gigantesca ragnatela, della struttura universale.
All’ontologia della morte del reale fa seguito l’antropologia della morte dell’uomo: l’uomo non esiste, è soltanto «una smagliatura nell’ordine delle cose […] una semplice piega» (Foucault) (10), un coagulo accidentale nell’universo delle relazioni. E il pensiero umano è rilevante solo in quanto, composto a sua volta di relazioni materiali, è disvelamento occasionale della struttura. universale.
Funzione assolta non dal pensiero logico, ma dal «pensiero selvaggio», al limite dell’inconscio in cui meglio emerge la struttura primordiale; e dal pensiero collettivo, dall’oscuro substrato psichico comune dell’umanità, non dal pensiero individuale del quale, a rigore, si deve dire che non esiste. Non «io penso» è dunque l’espressione esatta, ma «si pensa», «on pense» (Foucault), «ça pense» (Lacan).
L’unico compito che rimane al filosofo è il monotono inventario dei sistemi relazionali, tendenzialmente tutti uguali, che la struttura universale produce (e in cui si rivela) in tutti i campi della natura e dell’agire umano. Compito scarsamente entusiasmante: e tuttavia ancora troppo ambizioso, se l’uomo è soltanto «una smagliatura nell’ordine delle cose».
L’unica soluzione sarà allora abbandonarsi all’inconscio, alla follia, alla droga, sperando così in uno spontaneo emergere della struttura primordiale attraverso i furori del «pensiero selvaggio». Ma anche questa potrebbe non essere altro che l’ultima delle illusioni metafisiche se gli uomini, anche soltanto collettivamente, ancora si illudessero di esistere.
«Nulla ha senso se non per l’uomo – dichiara Lévi-Strauss – ma l’uomo a sua volta non ha alcun senso» (11). E, a sintesi della sua filosofia, scrive a lettere maiuscole, al termine della sua opera La Civilisation de l’Homme Nu, «RIEN», «NULLA».
II. ESITI E APPLICAZIONI DELLO STRUTTURALISMO
A detta di Lévi-Strauss lo strutturalismo è suscettibile di applicazione allo studio di qualunque realtà naturale o umana, posta l’esistenza di un unico tessuto relazionale fondamentale, che si rivela e si riproduce in una miriade dì strutture particolari. Paul Ricoeur, che dello strutturalìsmo è attento studioso e acuto critico, ha sostenuto l’esistenza di tre possibili «esiti» delle teorie strutturaliste:
1. una «filosofia in cui lo spirito è organizzato come lo sono le cose», che va alla ricerca delle strutture elementari e primordiali del pensiero umano, «omologhe» (e non soltanto analoghe) alle strutture della realtà materiale (12);
2. «una specie di rinnovamento del marxismo», un marx-strutturalismo;
3. una «filosofia dello spirito oggettivo in cui la combinatoria dello spirito oggettivo, in sé incosciente, si esprime volta a volta in una impresa di classificazione delle cose o in un’impresa di messa in ordine delle istituzioni» (13).
Lo schema di Ricoeur mi sembra felice: converrà dunque seguire, almeno sommariamente, le tre direzioni indicate, che conducono rispettivamente alle varie ipostasi del «pensiero selvaggio», alla lettura strutturalistica di Marx e all’incontro tra strutturalismo e semiologia.
1. IL PENSIERO SELVAGGIO
Per Lévi-Strauss i princìpi della logica, e tutto il pensiero razionale umano che su essi secolarmente si è costruito, non sono che pure mistificazioni, in quanto fondati sull’idea secondo cui esistono individui, cose, termini: mentre per lo strutturalismo non vi sono che relazioni e strutture.
Tuttavia – e qui opera su Lévi-Strauss l’ipoteca del mitico «bon sauvage» rousseauiano – la struttura universale continua a manifestarsi nelle oscure profondità dell’inconscio collettivo degli uomini e si rivela in piena luce nei popoli «selvaggi», fino a oggi scampati alla corruzione del pensiero logico, dalla cui nefasta influenza alcune tribù «primitive» sarebbero fortunatamente riuscite a rimanere immuni.
Illustri etnologi hanno ribattuto a Lévi-Strauss che «selvaggi» siffatti, totalmente alogici, esistono solo nelle pagine dei suoi libri e comunque, secondo l’ipotesi già avanzata – contro Rousseau – da Joseph de Maistre (14), tali tribù non sono affatto «primitive», bensì decadute e corrotte: ma, ugualmente, l’entusiasmo per il «selvaggio» è diventato il connotato più popolare dello strutturalismo e, volgarizzato dalla letteratura giornalistica, è entrato ormai nella «cultura» comune.
Sarà però opportuno ricordare che il «selvaggio» di Lévi-Strauss, che forse invano si cercherebbe per foreste e savane, può essere facilmente reperito in un luogo assai più accessibile, e cioè nei capitoli I-III della nota opera di Friedrich Engels L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, dove il padre (con Marx) del comunismo descrive l’orda primordiale delle scimmie appena trasformate in uomini che, prima della divisione del lavoro e conseguente nascita delle classi, si aggirano per le pianure nella più completa promiscuità sessuale ed economica (15).
Fondati indizi fanno ritenere – onde la ricorrente accusa a Engels di indulgere a una concezione ciclica della storia – che la futura, utopica società comunista, destinata, dopo il «deperimento dello Stato», a sostituire l’autoritaria società socialista, altro non sia che una riedizione aggiornata dell’orda primordiale: all’orizzonte del comunismo vi sarebbe dunque una società tribale, coerentemente «selvaggia» secondo il modello strutturalista.
Ma c’è di più: Lévi-Strauss attira adeguatamente l’attenzione sulla figura dello stregone, artefice principale della fusione collettivistica della tribù, che capta ed esprime dalle profondità del subconscio collettivo là struttura che lentamente va emergendo. Concetti di cui è estremamente facile una trascrizione marxista (il che spiega forse perché lo strutturalismo sia l’unica filosofia occidentale di cui è permesso l’insegnamento, sia pure parziale, nelle università dell’Unione Sovietica): non gioca forse il ruolo dello stregone il partito «intellettuale collettivo» che, per esprimersi nei termini inequivocabili di Gramsci, «standardizza i sentimenti popolari» e dimostra che «tutto il complesso […] si può muovere come un uomo collettivo» (16)? Lo stregone strutturalista non dev’essere necessariamente vestito di pelli di capra, così come importa poco che si parli di partito «moderno Principe» o di partito-stregone: cambiano le etichette e le immagini, non la sostanza dei concetti.
Del selvaggio, comunque, non mancano figurazioni e anticipazioni anche nelle società «razionali» dove, nonostante il pernicioso dominio del pensiero «logico», pure esistono personaggi in cui la struttura primordiale più potentemente urge e si esprime.
Tali i bambini (che vanno perciò preservati – altro tipico motivo di Rousseau – dagli irreparabili danni dell’educazione), i «cosiddetti» pazzi e i «cosiddetti» criminali, tutti in lotta contro il pensiero logico e perciò considerati «devianti» dalla società logicista.
Strutturalmente, psicanalisi e marxismo si incontrano negli scritti di Lacan e nella pratica psichiatrica di Basaglia, teorico di una «maggioranza deviante», che occorre solo fare uscire dal manicomio o dalla prigione: una volta trasformata la propria lotta inconsapevole in lotta consapevole contro la società borghese, insieme logicista e classista, questo esercito di folli e di delinquenti sarà l’avanguardia dirompente per la trasformazione rivoluzionaria del mondo e l’instaurazione immediata di una società comunistica e tribale (17).
Nell’attesa, per chi non avesse raggiunto la felice condizione di infermo di mente o trovasse troppo scomodo o rischioso il liberarsi dalle alienazioni del pensiero logico attraverso la pratica criminale continuata, rimane sempre la scorciatoia della droga, che permette di pervenire rapidamente alle ebbrezze del «pensiero selvaggio», facendo emergere – sia pure solo per un istante – le più intime e nascoste strutture dell’inconscio. Nella figura del drogato si esprime il rifiuto più radicale possibile del pensiero logico e razionale, l’approdo ultimo – ma conseguente – dell’odium rationis strutturalista.
2. LA LETTURA STRUTTURALISTICA DI MARX
Il tentativo più noto di fusione tra strutturalismo e marxismo è quello di Louis Althusser, che propone insieme una interpretazione strutturalistica di Marx e una interpretazione marxista dello strutturalismo. Secondo la dottrina comunista, come è noto, «le relazioni fondamentali di ogni società umana sono i l’apporti di produzione» (18): essi costituiscono la «struttura» su cui si impiantano le varie «sovrastrutture» ideologiche (morale, diritto, arte, religione, ecc.), che non sono che riflesso e derivazione dell’unica struttura materiale.
Tutte le strutture, tutti i sistemi di relazioni che si incontrano nei vari campi dell’agire umano non sono dunque che riproduzioni dell’unica struttura fondamentale, che è quella materiale economica: questa, per Althusser, sarebbe la «verità comune» dello strutturalismo e del marxismo. Althusser intraprende quindi un’opera di rigorosa «purificazione» del marxismo da tutte le incrostazioni idealistiche e spiritualistiche derivate da Hegel: Marx è soprattutto il continuatore del materialista Feuerbach, la sua filosofia secondo la celebre espressione di Lenin – e «il materialismo filosofico integrale».
Lo strutturalismo, d’altra parte, è anzitutto un materialismo, che deve assumere come modello primario di struttura quello derivato dalla più materiale delle attività umane, l’attività economica, e volgersi pertanto alle immortali pagine del Capitale di Marx, all’uopo tradotto in termini strutturalisti nel 1965 da Althusser e dal suo collaboratore Balibar nel volume Lire le Capital (19).
Senonché quello di Althusser è uno strano marxismo, dove non c’è posto per la dialettica: giacché lo strutturalismo nega la storia e asserisce che dai passaggi «diacronici» (che per Marx sono dialettici) da un’epoca all’altra l’uomo non può avere alcuna conoscenza. Contro il marx-strutturalismo hanno quindi reagito violentemente i marxisti ortodossi, e il teorico comunista Henri Lefebvre ha visto nella filosofia di Althusser «la perdita del senso della storia e l’abbandono della dialettica», nonché finalmente un deplorevole «confusionismo» (20).
Tralasciando le beghe interne tra i comunisti francesi, si può rilevare come l’ipertrofia del momento materialista a detrimento di quello dialettico nel marxismo di Althusser si contrapponga esattamente alla prevalenza della dialettica sul materialismo (e dunque, tendenzialmente, della sovrastruttura sulla struttura) in Gramsci e più ancora in Ernst Bloch.
Una divaricazione che, in ultima analisi, giova alla propaganda culturale marxista: perché, mentre riesce possibile captare la benevolenza dei «moderati» (e dei cattolici) con l’utopismo escatologico blochiano e le varie strategie «eurocomuniste» ispirate a Gramsci, mediante il tribalismo strutturalista e il «materialismo assoluto» di Althusser si riescono viceversa ad attirare anche le frange più arrabbiate della «contestazione globale» universitaria ed extra-universìtaria.
Un’operazione a tenaglia, dunque: secondo la strategia dei «comunismi assortiti» che consiste, come nel classico plateau des fromages, nel presentare comunismi diversi per «consumatori» diversi (21).
3. STRUTTURALISMO E SEMIOLOGIA
Come abbiamo visto, una delle tesi fondamentali dello strutturalismo è che l’unica struttura si rivela e si manifesta nei vari sistemi relazionali che si incontrano studiando la natura e l’agire umano. Tutte le scienze e tutte le attività dell’uomo possono pertanto essere descritte mettendo a nudo la struttura che, come uno scheletro segreto, le intesse e le sorregge.
Su questa prima operazione, meramente descrittiva, di «classificazione delle cose», secondo il citato schema dì Ricoeur, se ne innesta una seconda, prescrittiva, di «messa in ordine delle istituzioni», di «consigli» miranti a fare emergere, soprattutto in campo politico, la struttura nella sua purezza, liberata da tutte le mistificanti incrostazioni sovrastrutturali, preparando così una futura società strutturalista. Sarà opportuno, per maggiore chiarezza, esaminare separatamente »l’impresa di classificazione delle cose» e l’«impresa di messa in ordine delle istituzioni».
A. La classificazione delle cose
Esistono ormai opere che trattano in termini strutturalistì pressoché di ogni argomento: dalla matematica all’esegesi biblica, dalla moda al diritto (22). Il campo di applicazione principale dello strutturalismo è, tuttavia, quello dei sistemi di segni: linguaggio, arte e sistemi di informazione rivelerebbero una struttura primaria, omologa a ogni altra struttura esistente.
La semiologia – come studio generale dei segni – non si identifica con lo strutturalismo, giacché l’interesse tematico per i sistemi di segni si è manifestato anche tra filosofi non strutturalisti e ben prima della pubblicazione delle opere di Lévi-Strauss (23): oggi, tuttavia, nonostante interminabili polemiche e distinzioni, la maggior parte dei semiologi si dichiara strutturalista e semiologia e strutturalismo sono venuti a confluire in un movimento di pensiero comune. In concreto i sistemi di segni analizzati dalla semiologia sono principalmente:
a) la lingua, di cui alcuni linguisti si limitano a studiare e classificare, sulle orme di de Saussure, relazioni e rapporti, mentre altri affermano senz’altro che le strutture rivelate dalla lingua sono le strutture profonde dello spirito umano e anzi (secondo una tesi accettata da qualche tempo dallo stesso Lévi-Strauss) le strutture stesse della realtà;
b) la letteratura e l’arte, considerando «l’opera come una macchina […] solo un assieme di pezzi»e attuando quindi «una decostruzione del testo, che viene poi ricostruito secondo categorie, formule, tabelle» (Cesare Segre) (24).
Le strutture rivelate dall’opera non hanno alcun rapporto con le intenzioni dell’artista, che si limita, più o meno inconsapevolmente, a trasmettere – in quanto «emittente» di un «messaggio segnico» – le strutture profonde della psiche collettiva degli uomini. Il testo letterario (e per analogia, mutatis mutandis, il quadro o la scrittura) va pertanto studiato a prescindere da ogni riferimento al suo autore: scomposto in «microsequenze» e «macrosequenze», figure retoriche, combinazioni verbali e così via, e poi riclassificato in tabelle e schemi fino a ridurlo a ‘una pura struttura relazionale.
Ma «le singole opere sono la realizzazione sul piano individuale di sistemi generali (archetipi)» (25), che sono – ancora una volta – gli archetipi generali dello spirito umano e della realtà, a cui dunque, a partire dalla critica letteraria e artistica, è possibile risalire. La semiologia letteraria, con il concetto (assolutamente materialista) dell’opera d’arte come oggetto di fabbricazione, è nata nell’Unione Sovietica negli anni della Rivoluzione di Ottobre con la cosiddetta scuola formalista (26), ed è stata diffusa in Francia da studiosi provenienti dall’Est europeo: il lituano Algirdas Julien Greimas e i bulgari Tzvetan Todorov e Julia Kristeva.
Dalla Francia, celebrati i definitivi sponsali con lo strutturalismo di Lévi-Strauss a cui già la legavano profonde affinità, la «nouvelle critique» semiologica ha invaso le università di Lettere e le riviste di critica letteraria di tutto il mondo, grazie soprattutto all’opera di Roland Barthes e dei suoi collaboratori e seguaci.
In Italia i«semiologi» sono spuntati come funghi, e sono ormai riusciti a occupare un buon numero di cattedre universitarie, da cui impegnano gli alunni in noiosissimi lavori di «decostruzione» dei testi più vari, scarsamente giustificati da dichiarazioni filosofiche di principio e dall’ostentata fede marxista della maggior parte di questi personaggi (27);
c) l’inconscio è anch’esso considerato un sistema di segni dal già citato Jacques Lacan, la cui «neopsicanalisi» segna l’incontro tra Freud e lo strutturalismo. L’affermazione secondo cui la struttura si rivela anzitutto nell’inconscio conduce Lacan a sostenere la prevalenza dell’inconscio sul conscio e dunque all’apologia del folle come personaggio che realizza e pratica questa prevalenza, con un nuovo e inquietante «elogio della follia», le cui paradossali conclusioni identificano nel demente l’autentico personaggio-simbolo della nuova umanità strutturalista;
d) i gesti (la danza, il grido, la mimica, ecc.) sono pure oggetto di indagine in quanto a loro modo, «segni». Lo strutturalismo rivaluta in quanto maggiormente primordiale e «selvaggio» – il «linguaggio del corpo», la «gestualità» che si tende a ritenere qualitativamente superiore alla parola, essendo quest’ultima ormai indissolubilmente legata alle malefatte del pensiero logico (28);
e) il linguaggio degli animali, secondo taluni studiosi di «zoosemiotica», non sarebbe qualitativamente diverso dal linguaggio umano. Dagli studi sul modo di comunicare degli animali muovono alcune delle conclusioni più caratteristiche dello strutturalismo, formulate dallo stesso Lévi-Stràuss; «tutti i membri della specie homo sapiens sono logicamente paragonabili ai membri di una specie animale o vegetale qualsiasi», «studiare l’uomo è come studiare le formiche» (29), gli animali e l’uomo sono manifestazioni solo quantitativamente diverse delle medesime strutture.
Seguendo coerentemente questa strada si deve arrivare a ritenere che la natura «strutturale» primordiale dell’uomo è la sua natura animalesca e belluina: al di là del «selvaggio», del folle, del drogato, non sarà forse l’animale (o l’uomo ridotto alla pura animalità) l’autentico termine ultimo dell’itinerario strutturalista?
B. La «messa in ordine» delle istituzioni
L’aspetto prescrittivo dello strutturalismo e della semiologia ha di solito minore rilevanza dell’aspetto descrittivo. Delle istituzioni politiche si dice, in generale, che dovrebbero correttamente esprimere la struttura materiale, non più tradita e occultata da sovrastrutture collegate al pensiero logico.
Semiologi strutturalisti come l’argentino Prieto svolgono così un’opera di «demistificazione» – direttamente ispirata dal marxismo – delle «sovrastrutture» della società borghese, mentre numerosi esponenti della «nouvelle critique», tra cui fa spicco L. Goldmann, sostenendo l’esistenza di un’analogia tra le strutture del testo letterario e le strutture economico-politiche vigenti, muovono dalle prime per sottoporre le seconde a una critica radicale.
Quanto alle soluzioni positive, ci si limita ad auspicare una società coerentemente materialistica che manifesti una purezza strutturale analoga a quella delle tribù dei «selvaggi», variamente identificata nella futura società comunista o in vaghe prospettive anarcoidi, salvo il correttivo introdotto da chi (come, per certi versi, la citata Julia Kristeva) vede emergere nella Cina comunista le prime strutture della nuova umanità.
CONCLUSIONE: IL RITORNO DI DIONISO
Secondo Jean Brun il nostro «contemporain capital», benché sconosciuto e sfuggente, è l’antico dio greco Dioniso, dio dell’ebbrezza e della follia, che già Nietzsche indicava come alternativa fondamentale a Gesù Cristo (30). Nel «nihilismo enciclopedico» strutturalista Brun vede una delle principali e peggiori manifestazioni di questo ritorno dionisiaco.
E veramente la folla strutturalista, tribale e vociante, in testa alla quale marciano criminali e selvaggi, folli e drogati, sembra ormai avere abbattuto gli steccati del tempio di Dioniso e riversarsi nelle nostre città come nuovo corteo di furibonde baccanti, fino a invadere la stessa coscienza di molti nostri contemporanei.
Mentre i manifesti funebri di Lévi-Strauss annunciano la morte del reale e la morte dell’uomo, si preannuncia all’orizzonte, lo si voglia o no colorare di rosso chiamandolo «società comunista futura», il totalitarismo degli stregoni, che pensano per tutti in una società che nega e proibisce il pensiero: il totalitarismo peggiore, il più crudele, il più tirannico. La rivoluzione, secondo la nota espressione di Augusto Del Noce, conclude in dissoluzione: oltre il comunismo – Lévi-Strauss ne è consapevole – non c’è che il convulso precipitare negli abissi del nulla e del caos.
Il nuovo Prometeo non si accontenta di odiare Dio: odia l’uomo. «Il nostro fine – scrive ancora Lévi-Strauss – non è quello di costruire l’uomo ma di dissolverlo» (31). Un odio così radicale fa sorgere inquietanti interrogativi sulle origini profonde e occulte dello strutturalismo, e giustifica il richiamo a quella «metafisica dell’odio rivoluzionario» così presentata da Malinsky e de Poncins: «Quest’odio misterioso e profondo è di una natura superiore ed è diverso da ogni altro odio riscontrabile nella storia […] non vi è odio normale che abbia quel carattere pauroso di un flusso di isterismo elementare, facente pensare involontariamente, lo si voglia o no, all’invasamento demoniaco. Il Cristo l’ha definito con queste parole: “Adesso è la vostra ora, quella della potenza delle Tenebre”. Un tale odio ha in sé un elemento che sorpassa la ragione ed è di là dal ponderabile. Esso corrisponde ad una crisi misteriosa, il cui dominio non è il corpo, ma lo Spirito» (32).
Note
(1) L. JUGNET, Problèmes et grands courants de la philosophie, L’Ordre Français, Versailles 1974, p. 215.