Alle radici teoriche del neoconservatorismo: dalla “Old Right” alla “seconda generazione”
di Marco Respinti
In Italia, il quotidiano il Foglio, diretto da Giuliano Ferrara, ne ha fatto – soprattutto a partire dalla preparazione della guerra condotta dagli Stati Uniti d’America contro l’Iraq nella primavera del 2003 – una bandiera e una divisa anche per la propria linea politico-culturale (accanto alla filosofia di Leo Strauss, che negli stessi Stati Uniti, soprattutto a opera di alcune scuole straussiane, si è appunto appaiata o sovrapposta al neconservatorismo), introducendo il termine – e spesso lasciando intradotto l’aggettivo sostantivato inglese neonservative – anche nel linguaggio politologico italiano e applicandolo in maniera rigida e pressoché totalizzante al governo di Washington, dal 2000 guidato dal presidente repubblicano George W. Bush jr.
Ma cosa è, davvero, il neoconservatorismo? Per iniziare a rispondere, occorre ricostruire, seppure per cenni, la storia della destra statunitense del secondo Novecento.
La galassia conservatrice
Il conservatorismo che si sviluppa negli Stati Uniti dall’inizio del secolo Ventesimo alla fine degli anni Quaranta del Novecento è indicato nella storiografia politica nordamericana con l’espressione Old Right; identico nome assume però anche il conservatorismo del secondo dopoguerra, tanto che storiograficamente si parla di una Old Right prebellica e di una Old Right postbellica.
La prima è fortemente caratterizzata da venature libertarian e da un marcato isolazionismo, la seconda – da cui peraltro non sono assenti componenti libertarian – è decisamente antisovietica e, in questa chiave, più disponibile a impegnarsi militarmente all’estero per ragioni di difesa nazionale (in primis) e dell’Occidente (1).
Il movimento dei decenni successivi, peraltro, se proprio non ricondurrà ad unum queste anime, certo le affiancherà con successo politico, ma spesso anche con felicità teoretica, laddove, del resto, autori tradizionalisti come Robert A. Nisbet (1913-1996) e Richard M. Weaver (1910-1963), eredi anche di componenti significative del pensiero della «Old Right» prebellica, hanno sviluppato con il libertarianism piste di dialogo poco note e poco frequentate anche dagli studiosi.
E Frank S. Meyer (1909-1972) ha cercato di articolare il fusionism, appunto una fusione organica forte fra le due componenti. Ulteriore importante tessera del mosaico della destra nordamericana è appunto il libertarianism. Impostosi come «liberalismo coerente», costituisce il punto più estremo a cui giunge il «liberalismo classico» anglosassone (non giacobino, non illuminista, non razionalista): tanto estremo da finire per mettere in crisi alcuni dei pilastri teoretici comunemente ritenuti fondanti la filosofia genericamente definita «liberale» e da tornare, quindi, dopo lungo errare, alle radici stesse della filosofia politica antistatalista e personalista che lo ispira, talvolta riscoprendosi conservatore e addirittura reazionario (2).
Affondando le proprie radici nel più puro «spirito statunitense», il libertarianism costituisce per certi versi la nuova frontiera del liberalismo, per altri (la compiutezza di questa dimensione è venuta maturando soprattutto nel corso degli anni Novanta del secolo Ventesimo e per molti aspetti è ancora in corso oggi) il recupero di quel «tradizionalismo» che già era patrimonio di ampi settori dell’Old Right statunitense.
Negli anni Settanta si sono dunque sviluppate due altre branche del «movimento», in parte parallele, in parte una evoluzione di alcune componenti dell’altra: la New Right e il neoconservatorismo. La definizione di New Right oscilla fra chiaro intento cronologico quanto alla morfologia del fenomeno e intenzione teoretica quanto ai suoi contenuti politico-culturali.
Considerata in senso cronologico, la New Right costituisce l’ultima stagione del «movimento», in una fase storica in cui l’opzione politica diviene sempre più praticabile e auspicata: la New Right che nel 1980 porterà alla presidenza Ronald W. Reagan, il repubblicano che saprà raccogliere (in parte) l’eredità di Robert A. Taft (1889-1953) e di Barry M. Goldwater (1909-1998) – i pionieri del conservatorismo in politica, in momenti in cui la «discesa in campo» di esponenti del «movimento» era una prospettiva per molti versi solo remota – ma soprattutto portare al successo un «movimento» di opinione che in alcune sue componenti sembrerà poi essere del tutto pago del successo ottenuto.
Considerata per i suoi contenuti politico-culturali, invece, la New Right è un crogiuolo d’istinti diversi, che solo il tempo ha saputo sviluppare e distinguere, anche con esisti differenti e fra loro contraddittori. Se la New Right affermava di essere solo la continuazione della Old Right postbellica, ancorché aggiornata ai tempi e ai modi dell’agone politico degli anni Settanta (in particolare della seconda metà degli anni Settanta), di fatto è stata però un fenomeno assai più complesso (3).
Novità invece assoluta – e coscientemente tale – rispetto alla Old Right e alla New Right (ancorché in alcuni momenti e a tratti in cerca di ponti o di alleanze strategiche con quei mondi) è il fenomeno del neoconservatorismo. Peraltro, all’interno della galassia conservatrice i neoconservatori descrivono una stratificazione nella stratificazione, già di suo tipica del mondo complesso e composito – ma talvolta anche rissoso – della destra nordamericana del secondo Novecento.
I neoconservatori: da Lev Trotzkij a Ronald W. Reagan
Di per sé, infatti, il neonconservatorismo designa quel fenomeno sociale-sociologico, e al contempo movimento politico che, a metà degli anni Settanta, vede convertirsi a destra porzioni significative dell’intellettualità newyorkese marxista – spessissimo trotzkysta – e/o ebraica (4). A essa si sono poi uniti i cosiddetti cold war liberal – i progressisti non comunisti – e quei socialdemocratici non marxisti per i quali l’Unione Sovietica è stata il grande nemico di ogni riformismo. Tutti mondi gradualmente trasformatisi in bedfellow della destra conservatrice della Old Right postbellica e della New Right.
Il neoconservatorismo è quindi sostanzialmente divenuto – pur con differenze di sensibilità, di enfasi e d’intensità – il cantore della superiorità del modello statunitense nel mondo, della globalizzazione economica intesa anche come veicolo del globalismo politico, della «crociata per la democrazia», del capitalismo democratico (5); insomma di quello spirito che viene giornalisticamente definito «imperalista» e «americanista», e per il quale è stato coniata l’espressione gergale Manhattan Conservatism.
Affermatosi in parte sulle ceneri di una delle componenti della New Right, il neoconservatorismo ha guadagnato terreno durante il primo mandato presidenziale del repubblicano Reagan (1980-1984), si è rafforzato egemonizzando ampi strati della politica della destra a scapito dell’Old Right durante il suo secondo mandato (1984-1988) e durante la presidenza del repubblicano George W.H. Bush (1988-1992), e ha solo apparentemente segnato il passo durante l’«era» del presidente democratico William J. «Bill» Clinton (1996-2000), in realtà riuscendo, anche da posizioni di opposizione (interrotte, però, nel 1988 dal successo ottenuto nelle elezioni del 104° Congresso, guidato dal presidente della Camera dei deputati, il repubblicano Newt Gingrich) a egemonizzare, almeno sul versante pubblico e propagandistico, il panorama della destra statunitense e amplissimi strati della destra del Partito repubblicano, con cui peraltro in numerosi casi finisce per confondersi.
Questo anche grazie ai numerosi posti di rilevanza pubblica occupati nelle amministrazioni a guida repubblicana o nell’organigramma stesso del partito da suoi esponenti di punta. Affondando le proprie radici nel liberalismo progressista statunitense degli anni Quaranta, il neoconservatorismo presenta alcune differenze fondamentali rispetto al conservatorismo più classico, tradizionalista o libertarian, ma in realtà storicamente «fusionista».
Per descriverne in dettaglio tutte le peculiarità, anche per contrasto ai suoi avversari di destra, sono stati riempiti volumi e volumi. In questa sede tenterò solo una prima, suggestiva, ipotesi di reductio ad unum. Nella misura in cui il conservatorismo della Old Right – anche postbellica, con tutte le differenze che essa presenta rispetto a quella prebellica – è di fatto la reazione teoretica e politica a quella che in Italia un filosofo come Augusto del Noce (1910-1989) definirebbe «Modernità filosofica» (anche il libertariansim in quanto «liberalismo coerente» o «liberalismo reazionario» lo è in grande misura), il neoconservatorismo rappresenta l’accettazione da destra di detta «Modernità filosofica».
Un’accettazione che sovente si spinge oltre la tattica strategica e che assume come dato fondante del discorso politico l’orizzonte ideologicamente pluralista (ed eticamente relativista) introdotto in Occidente dal cosiddetto «progetto illuminista» (6).
Pesa, su questo atteggiamento culturale, l’eredità marxista che, soprattutto quanto a metodo di analisi del reale, non abbandona mai completamente l’orizzonte neoconservatore. Vero è che anche alcuni campioni della Old Right postbellica erano ex comunisti, talvolta addirittura agenti sovietici poi convertitisi alla destra, ma la differenza fra essi e i neoconservatori è proprio nella positiva volontà di rescindere ogni legame con il proprio passato ideologico quanto ai primi, di «farne tesoro» riconfezionandolo in abiti nuovi per quel che riguarda i secondi.
Anzi, proprio il peso positivamente esercitato da questo retaggio costituisce il carattere distintivo – sono i neoconservatori stessi ad affermarlo – dell’opzione neoconservatrice.
Neoconservatorismo e religione
Cruciale anche il ruolo svolto dal dato religioso. La religione pesa poco, quantomeno inizialmente, nell’universo neoconservatore, laddove invece gli ex comunisti della Old Right hanno operato anche svolte di vita radicali quanto al dato di fede oppure hanno percorso itinerari culturali vicinissimi alla conversione, quasi immancabilmente tutti sfociati proprio in positive conversioni al cristianesimo in articulo mortis.
Per il neoconservatorismo, invece, l’analisi sociale-sociologica ha sempre contato di più dell’introspezione religiosa (e questo ha un significato anche rispetto alla citata accettazione dei parametri della «Modernità ideologica»); e quando la religione ha contato, lo ha fatto – per ammissione degli stessi neoconservatori – come instrumentum regni, ovvero mediato da un atteggiamento di tono positivista interessato più alla valutazione del peso e del significato politico del dato religioso che non alla sostanza teologica del dato di fede.
Peraltro, laddove il conservatorismo tradizionale della Old Right e della New Right ha riservato un ruolo fondamentale e fondante al dato religioso, la sua religione di riferimento è stata il giudeo-cristianesimo. Un dato, questo, particolarmente estraneo alla cultura postmarxista e al fondo neoilluminista degli esponenti del mondo ebraico negli anni Settanta disilluso dal radicalismo della Nuova sinistra, con cui un tempo aveva intrattenuto rapporti e commerci intellettuali che hanno dato vita al neoconservatorismo.
Vero è che il neoconservatorismo statunitense ha annoverato e annovera diversi esponenti e talora intere fondazioni o periodici cristiani e anzi cattolici, ma si tratta di un innesto successivo sul tronco del neoconservatorismo originario che di fatto ha mutato non poco la fisionomia di quel movimento.
Peraltro (e proprio per questo lo si può definire neoconservatore), questo filone cristiano e cattolico del movimento presenta le medesime caratteristiche di fondo del neoconservatorismo tout court sopra ricordate quanto all’accettazione dei parametri della «Modernità ideologica».
Soprattutto nel suo filone cristiano e cattolico, il neoconservatorismo ha rappresentato per gli Stati Uniti la forma e la sostanza di quel «partito» (le virgolette sono d’obbligo trattandosi di Stati Uniti e di «partito» detto nel senso di «parte organizzata», non di struttura politica elettorale) che da noi, in Italia, è stato il partito a. Come la Democrazia Cristiana è nata in Italia dal tronco di quel transigentismo cattolico che, rispetto all’irriducibilità reazionaria dell’intransigentismo, accettava non solo strategicamente e tatticamente il dato della «Modernità filosofica», e in esso cercava di agire con coscienza cristiana, il neoconservatorismo statunitense raccoglie attorno a sé i transigenti cristiani e cattolici.
Transigenti, bene inteso, rispetto al dato della «Modernità filosofica», il che non esclude che all’interno di questa accettazione del dato del pluralismo ideologico si esercitino, su questo o su quel punto dottrinale o persino anche politico, forme d’irriducibilità. Come la Dc in Italia, dunque, il filone cristiano e cattolico del neoconservatorismo statunitense ha conosciuto e conosce fenomeni di neotomismo, di cattolicesimo liberale, di declinazione della democrazia come regime e non come condizione della politica, addirittura di (cripto)modernismo, tutti fenomeni sconosciuti in queste forme al conservatorismo tradizionale della Old Right, ivi compreso quello cristiano e cattolico.
Neoconservatorismo e amministrazione Bush jr.
Oggigiorno, però, l’etichetta neoconservatrice viene genericamente – e giornalisticamente – adoperata per definire tutta l’«ala destra» del Partito repubblicano e i cosiddetti «falchi» dell’amministrazione Bush jr. Eppure questo uso disinvolto e sovente generico sembra essere insufficiente a descrivere un ceto politico che certamente affonda, in parte anche sostanziale, le proprie radici politico-culturali in quello che negli anni Ottanta è stato il neoconservatorismo trionfante, ma che altrettanto certamente non è la pura e semplice riedizione e nemmeno la semplice continuazione di quel mondo.
Insomma, il neoconservatorismo – nato in un contesto geopolitico mondiale assolutamente differente (la guerra fredda e il suo risolversi con l’implosione dell’Unione Sovietica), e con caratteristiche e personale culturale-politico-amministrativo decisamente diverso – sembra andare stretto alla leadership statunitense attualmente definita (appunto un poco sbrigativamente) tale, a meno di una ridefinizione sostanziale (che può pure significare evoluzione continuativa di fasi differenti del medesimo mondo) del termine e del suo portato, soprattutto a fronte delle grandi novità introdotte dalla storia degli anni Novanta, dal crollo del Muro di Berlino sino all’11 settembre.
Ovvero: il riferimento al neoconservatorismo esaurisce la descrizione del personale politico dell’amministrazione Bush? E gli elettori che l’amministrazione Bush rappresenta, ammesso e non automaticamente concesso che essa sia completamente esaurita dalla definizione di neoconservatorismo, sono esauriti dalla definizione di neoconservatorismo? Lo studio attento della realtà sociale, politica e religiosa degli Stati Uniti di oggi impone quanto meno d’introdurre dei distinguo. Affatto secondari.
Generazioni: contrapposte o solidali?
Nel frattempo, occorre almeno contemplare anche una variazione terminologica, che seppure incapace di risolvere la questione alla radice, ne denuncia palesemente la problematicità e l’intento intenzionalmente problematizzatore: per esempio – in mancanza di meglio e in attesa di altra elaborazione semantico-concettuale -, l’utilizzo della locuzione «seconda generazione del neoconservatorismo», espressione che svincola il neoconservatorismo dalla sua componente esclusivamente cronologica (che pure in parte in passato ha avuto, analogamente a quanto successo per le espressioni Old Right e New Right), che pone attenzione ai contenuti teoretici sia del neoconservatorismo sia dell’attuale amministrazione repubblicana considerandoli – se non altro come ipotesi di lavoro suggerita dall’analisi dei fatti – due fenomeni distinti, e che infine apprezza pure le differenze (anche qualora fossero appunto di natura continuativa) fra diverse fasi, se non addirittura componenti, di questo mondo, intessendo un importante dialogo fra analisi degli sviluppi (talvolta generazionali, testimonianza ne è il fatto che fra «prima» e «seconda generazione» del neoconservatorismo il legame può passare attraverso vincoli parentali, come per esempio nelle «coppie padre-figlio» di Irving e William Kristol, e di Norman e John Podhoretz) e indagini delle cesure.
La «seconda generazione del neoconservatorismo» potrebbe pure, alla fine dell’analisi, rivelarsi solo la continuazione della «prima generazione», anche e soprattutto nel senso di una conquista stabile del potere politico tale da condizionare uno dei due partiti maggiori della scena politica statunitense – peraltro quello tradizionalmente legato al mondo degli affari, della grande industria e della finanza – ma soprattutto da determinare le scelte di politica estera e di politica interna dell’attuale governo statunitense.
Ma, se così fosse, si sarebbe almeno data ragione dell’azione pubblica dell’amministrazione politica dell’unica superpotenza del mondo occidentale a far data da quell’11 settembre che proprio nel mondo occidentale ha introdotto una variabile imprevista e assolutamente dirompente, spiegandone e comprendendone le forze motrici. Potrebbe sembrare una magra consolazione, ma in realtà sarebbe un guadagno teoretico enorme. Di chiarezza.
Note
1) Ho sviluppato un poco più articolatamente le fasi storiche della destra statunitense nel secondo dopoguerra nel mio L’inventore del Polo delle libertà: Barry Goldwater. Un excursus sul conservatorismo nordamericano, n. 4 Libertarianism, in Giampiero Cannella, Aldo Di Lello, Marco Respinti e Fabio Torriero, Rivoluzione blu. La sfida di destra alla terza via, con prefazione di Vittorio Feltri, KoinË-Nuove Edizioni, Roma 1999. Sulla storia del conservatorismo statunitense contemporaneo, cfr. almeno cfr. George H. Nash, The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945, 2a ed. aggiornata, Intercollegiate Studies Institute, Wilmington (Delaware) 1996 (1a ed. 1976); Paul E. Gottfried e Thomas J. Fleming, The Conservative Movement, Twayne, Boston 1988; e Paul E. Gottfried, The Conservative Movement: Revised Edition, Twayne, New York 1993;
2) Sulla nozione di «liberalismo reazionario» e sull’idea del libertarianism come insorgenza antimoderna, cfr. per esempio C. Lottieri, Liberale, cioè reazionario, in il Domenicale, anno II, n. 19, Milano 10-05-03, p. 2;
3) Cfr., di colui che per lungo tempo è stato la guida simbolica della New Right (P.E. Gottfried e T.J. Fleming, op. cit., p. 78, e P.E. Gottfried, op. cit., p. 98), Richard A. Viguerie, The New Right: We’re Ready to Lead, Viguerie Co., Falls Church (Virginia) 1980; laddove Robert W. Whitaker (a cura di), The New Right Papers, St. Martin’s Press, New York 1982 – con saggi di William A. Rusher, Richard M. Viguerie, Jeffrey Hart, Paul M. Weyrich, Samuel T. Francis, Robert J. Hoy, Clyde N. Wilson, Ronald F. Docksai, Robert E. Moffit, Thomas J. Fleming e William A. Stanmeyer e Robert W. Whitaker – permette di apprezzare le connessioni fra New Right (Viguerie e Weyrich, pur nelle loro notevoli differenze) e Old Right postbellica (Rusher, Hart), concedendo spazio anche alle componenti «sudista-confederalista» (Fleming e Wilson) e «nazionalistico-populiste» (Francis) di quel filone della New Right che non confluirà nel neoconservatorismo e che anzi (Francis, Fleming, Wilson) darà vita al cosiddetto paleoconservatorismo come revival della Old Right;
4) Piuttosto datato e critico da posizioni di sinistra è Peter Steinfels, I neoconservatori. Gli uomini che hanno cambiato la politica american (The Neoconservatives: The Men Who Are Changing America’s Politics, 1979), trad. it. a cura di Mario Rodriguez, Rizzoli, Milano 1982; più simpatetico è invece Alberto Pasolini Zanelli, La rivolta blu. Contro i miti dello Stato sociale, Editoriale Nuova, Milano 1981. Per qualche primo inquadramento, cfr. Norman Podhoretz, Making It, Harper & Row, New York 1967 e Idem, Breaking Ranks, Harper & Row, New York 1979; Richard T. Saeger, American Government and Politics: A Neoconservative Approach, Scott, Foresman and Company, Glenview (Illinois) 1982; Irving Kristol, On the Democratic Idea in America, Harper & Row, New York 1972; Idem, Two Cheers for Capitalism, Basic Books, New York 1978; Idem, Reflections of a Neo-Conservative: Looking back, Looking Ahead, Basic Books, New York 1983; Idem, Neo-Conservatism: The Autobiography of an Idea. Selected Essays, 1949-1995, The Free Press, New York 1995; Michael Novak, Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo (The Spirit of Democratic Capitalism, 1982), trad. it. a cura di Angelo Tosato, Studium, Roma 1987; Mark Royden Winchell, Neoconservative Criticism: Norman Podhoretz, Kenneth S. Lynn, and Joseph Epstein, Twyane, Boston 1991; Cristopher Demuth e William «Bill» Kristol (a cura di), The Neoconservative Imagination: Essays in Honor of Irving Kristol, American Enterprise Institute, Washington 1995; Mark Gerson (a cura di), The Essential Neo-Conservative Reader, Addison-Wesley, Reading (Massachusetts) 1996; Idem, The Neoconservative Vision: From Cold War to Culture Wars, Madison Books, Lanham (Maryland) 1997;
5) Per questa nozione, cfr. M. Novak, op. cit.;
6) Per una descrizione critica, in ambito statunitense, di questa nozione, cfr. E. Christian Kopff, The Devil Kows Latin: Whi America Needs the Classical Tradition, ISI Books, Wilmington (Delaware) 1999, sezione I, Civilization as Narrative, VII, The Enlightenment Project, pp. 69-84.