di Giuseppe Brienza
«Si può rimpiangere un Regime che scriveva “dio” con la minuscola e “Kgb” maiuscolo?». Da questa citazione di Aleksandr Solzenicyn (1918-2008) partiamo per riassumere finalità e contenuti del libro, presentato il 24 agosto a Tortoreto Lido (Teramo), dal titolo: La sinistra ha fallito? Opinioni a confronto (a cura di Italo Inglese, Postfazione di Riccardo Cristiano, Edizioni Solfanelli, Chieti 2020, pp. 160, € 12).
Gli autori dei contributi, tutti estranei al mainstream del Pensiero unico, sono 20 intellettuali, saggisti, filosofi, editori e giornalisti del mondo della Destra italiana (molti scrivono su Il Borghese),che elenchiamo qui di seguito in ordine rigorosamente alfabetico: Adalberto Baldoni, Eugenio Balsamo, Mario Bernardi Guardi, Mario Bozzi Sentieri, Giuseppe Brienza, Rino Cammilleri, Luigi Copertino, Giuseppe Del Ninno, Gianfranco de Turris, Dalmazio Frau, Luciano Garibaldi, Francesco Giubilei, Marco Iacona, Luciano Lanna, Andrea Marcigliano, Gennaro Malgieri, Luca Pignataro, Andrea Scarabelli, Fabio Torriero e Marcello Veneziani.
Alla prima presentazione abruzzese del libro, che ha visto protagonisti il curatore Italo Inglese e il docente del Dipartimento di Scienze Politiche, della Comunicazione e delle Relazioni Internazionali dell’Università di Macerata Armando Francesconi, ci si è anzitutto soffermati nello spiegare come e perché la sinistra italiana ed europea si siano ormai convertite al liberalismo e al liberismo, «nel loro odierno atteggiarsi quali promotori di un governo mondiale elitario basato su un’economia sempre più interconnessa e dominata dalla grande finanza, che incentiva i processi migratori con l’obiettivo di ridurre i salari e incrementare i profitti, a discapito della capacità regolatoria degli Stati nazionali».
Questi processi, che non si sono incredibilmente arrestati neanche durante questa crisi mondiale da Covid-19, stanno pericolosamente mettendo in discussione le conquiste faticosamente conseguite in Occidente in termini di condizioni di lavoro e welfare state, «con pesanti ripercussioni proprio sui lavoratori che in passato la sinistra intendeva tutelare».
Non a caso, i partiti e movimenti che ancora oggi si professano laburisti o socialdemocratici sono in crisi in Occidente particolarmente presso le fasce di popolazione che un tempo garantivano loro il maggiore apporto elettorale. Inglese e Francesconi si sono quindi soffermati, sulla base del contenuto dei principali contributi inclusi nel libro, sulle ragioni di questo “tradimento”, «in virtù del quale la sinistra ha voltato le spalle al “proletariato” e deciso di perseguire le “magnifiche sorti e progressive” assecondando le dinamiche del mercato globale».
Personalmente ho articolato il mio saggio al volume mettendo in discussione uno dei presupposti di questo “contributo collettivo” della Destra italiana all’attuale dibattito sulla lettura e sulla interpretazione della crisi complessiva della sinistra italiano-europea. Penso infatti che, soprattutto la sinistra euro-continentale, non abbia in realtà «abbandonato la sua vocazione primigenia all’emancipazione della classe lavoratrice e dei ceti meno abbienti», come sostenuto da Italo Inglese nella sua pregevole Introduzione al volume.
È vero che ha ormai instradato la sua azione, pubblica e “privata”, alla promozione pervasiva della globalizzazione e di un’Europa sempre più tecnocratica e distante dalle reali esigenze dei popoli che la compongono ma, come ho scritto, in realtà «non è che la sinistra ha fallito ma, come ogni espressione ideologica, essa non ha mai perseguito realmente un fine “politico” nel senso genuino del termine, ovvero di cura della polis» Giuseppe Brienza, Perché la sinistra ha fallito?, op. cit.
Quando la sinistra avrebbe abbandonato le classi non abbienti? Per rispondere non ho trovato di meglio che ricorrere alle argomentazioni della “scuola elitista” italiana dei vari (e insuperati) Vilfredo Pareto(1848-1923), Roberto Michels (1876-1936) e Gaetano Mosca (1858-1941). Come ha dimostrato soprattutto quest’ultimo grande politologo, qualunque regime politico (e aggiungo: qualunque regime o sistema politico che non si fondi sulla “realtà delle cose”), non può che finire col ridursi «necessariamente ad una aristocrazia, o meglio al dominio di una minoranza organizzata e governante sulla maggioranza disorganizzata e governata» (Gaetano Mosca, Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Laterza, Bari 1949, p. 27).
Dal secondo dopoguerra, analizzando la socialdemocrazia tedesca del 1911, Roberto Michels ha descritto quella “legge ferrea dell’oligarchia” alla quale successivamente non si sono sottratti i regimi (e quindi anche i partiti e movimenti) social-comunisti. Insomma, Paesi-guida come l’URSS, la Cina e Cuba, tre Stati che per alcuni aspetti perpetuano ancora le stesse dinamiche del secolo scorso, si sono gradualmente strutturati in maniera esclusiva per occuparsi dello sviluppo e, nei periodi di crisi, della sopravvivenza dei propri apparati.
«Ne è seguita – ho concluso nel mio intervento – la relativa dirigenza inesorabilmente chiusa in conventicole, gruppi corrotti e circoli polizieschi. Lo scopo delle sinistre comuniste al potere, quindi, è stato fin dall’inizio quello di utilizzare l’ideologia marxista per impiantare, consolidare ed estendere il proprio regime respingendo ogni visione del mondo in grado di insidiarlo» (Ibid.).
Tre sono i cortocircuiti ideologici che, fra gli altri, hanno accompagnato soggettivamente il fallimento ideale e politico della sinistra italiana ed europea. Il primo è il riflusso tecnocratico, un esito ideologico poco trattato nelle disamine finora proposte sulla dinamica storica della metamorfosi “progressista”. Seppure tale analisi non possa essere annoverata fra quelle più rilevanti in termini di significatività sociale, vale la pena accennarla perché ha coinvolto una parte dell’élite scientista sovietica, che ha influenzato gli utili idioti del materialismo occidentale.
Si tratta dell’influenza del darwinismo nell’Intellighenzia russa, compresa la versione darwinistico-sociale, sebbene quest’ultima mai esplicitata poiché costitutiva di un argomento dialettico utilizzato dalla propaganda anticapitalista. La Weltanschauung darwinista ha avuto una qualificata adesione tra gli scienziati russi o, almeno, di quelli che hanno lavorato per l’URSS [citiamo fra gli altri l’agronomo Trofim Denisovič Lysenko (1898-1976), a lungo presidente dell’Accademia pansovietica Lenin delle scienze agrarie e il mineralogista e geochimico Vladimir Ivanovič Vernadskij (1863-1945), negli anni 1930-40 consulente del programma nucleare militare sovietico].
L’establishment tecnocratico occidentale ha sempre perseguito le ricadute socioeconomiche delle teorie di Charles Darwin, tanto da far affermare ad un biologo e genetista di fama internazionale come Giuseppe Sermonti (1925-2018) che «un non-darwinista non potrà mai far carriera nei Paesi anglosassoni, in Italia o in Giappone» (Sinistra e darwinismo, in Avvenire, 5 marzo 2003). Lo stesso scienziato, uno di pochi “non-conformi”, ha anche ricordato: «in nome della intangibilità della selezione naturale»,la maggior parte degli studiosi materialisti ha fatto«accettare queste affermazioni darwiniane: “Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta…”, e “Tra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato nei secoli, è quasi certo che le razze umane più civili stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo a quelle selvagge…”.
Queste parole sono terribili perché non sono una previsione, ma un auspicio» (G. Sermonti, Il darwinismo è un credo che non tollera obiettori di coscienza o eretici, Il Foglio, 7 aprile 2010). Da un cortocircuito ideologico come questo è derivato uno dei fallimenti della sinistra. Altro cortocircuito è stato innescato dall’immigrazionismo, che sta conducendo le società dell’Occidente verso una visione del lavoro deteriore e strumentalizzato da parte degli Stati e dei grandi organismi (pubblici e privati) sovranazionali.
L’Italia non è l’unico Paese in cui integralismo islamico ed estrema sinistra hanno intrecciato un’alleanza strategica. Tale esito discende dalla negazione, condivisa anche da certa falsa Destra, della superiorità del sistema politico, giuridico e culturale occidentale rispetto a quello del resto del mondo e, in particolare, di quello dell’islam. È piuttosto vasta ed opera fin dagli anni Ottanta una lobby filo islamica di sinistra, che vede nelle masse mediorientali e del Maghreb il nuovo proletariato su cui far leva per dare l’assalto a ciò che rimane degli Stati (e delle identità) comunitarie nazionali.