Giovanni Sale s.j.
Nei mesi successivi alla promulgazione del R D. L. del 17 novembre 1938 n. 1728 in materia di difesa della razza, agli organi governativi responsabili della politica razziale risultò evidente che la sua applicazione avrebbe creato al regime più problemi di quanto si era previsto. La realtà dell’ebraismo italiano, infatti, apparve ben presto in tutta la sua complessità e varietà, contraddicendo nei fatti le previsioni di una soluzione rapida e sostanzialmente indolore (dal punto di vista sociale) della questione razziale; esso si rivelò come un fatto concretamente e profondamente inserito nel contesto della realtà italiana.
I provvedimenti applicativi della legge (1) a loro volta contribuirono non poco a rendere più incisiva la tendenza alla discriminazione-separazione degli ebrei dal resto della popolazione: essi, più che creare negli italiani una consapevolezza della propria superiorità razziale, come avrebbe voluto il regime, furono accolti con malcelato imbarazzo, con disprezzo e a volte con sarcasmo.
Nonostante gli sforzi del regime per inculcare negli italiani il senso dell’unicità e della grandezza della pura stirpe italica, utilizzando a tale scopo gli strumenti della propaganda (giornali, riviste, manifesti di ogni tipo da esporre ovunque) e sollecitando l’adesione degli artisti e degli intellettuali per rendere più incisiva tale campagna, la maggioranza degli italiani non si fece coinvolgere da tale indirizzo, di cui in realtà non capivano né i fondamenti né l’utilità, tanto più che in Italia la piccola componente ebraica (circa 50.000 persone), soprattutto dopo l’emancipazione, si era inserita molto bene nel contesto sociale della nazione.
Gli ebrei italiani, insomma, si sentivano cittadini italiani a tutti gli effetti e, in realtà, essi avevano combattuto le guerre italiane, avevano gioito per le vittorie e le conquiste coloniali italiane e contribuito con il loro genio professionale e con la loro attività imprenditoriale ad arricchire e modernizzare il Paese.
Particolarmente odiosi, inoltre, furono i vari provvedimenti amministrativi in materia razziale (di diverso livello e spesso applicati in modo discrezionale) emanati a quel tempo: essi avevano lo scopo di palesare, partendo dalla quotidianità, l’indirizzo discriminatorio assunto dal regime nei confronti degli ebrei, ai quali si vietava, fra le altre cose, di frequentare luoghi di villeggiatura e di svago, di tenere personale di servizio ariano, di possedere apparecchi radio, di pubblicare libri, di tenere pubbliche conferenze, di accedere negli uffici pubblici e altro ancora: tutte limitazioni della libertà personale che si aggiungevano a quelle, certo più gravi, previste dalle leggi, ma che agli occhi di molti risultavano ancora più odiose e incomprensibili.
Nonostante l’impegno del Governo a promuovere sul piano legislativo e della propaganda una politica «francamente razzista», furono in molti anche all’interno del partito a rendersi conto che gli italiani restavano indifferenti a tale indirizzo, e che esso più che adesione provocava in alcuni settori, soprattutto tra i cattolici, ostilità nei confronti del regime. Il periodici) Critica fascista del 15 giugno 1939 deplorava la passività degli intellettuali italiani di fronte al razzismo e affermava che la politica razziale «è un aspetto essenziale dell’azione del regime […]. Respingerla o ignorarla, o svalutarla, significa negare la rivoluzione fascista in blocco».
Rivolgendosi poi ai cattolici chiedeva che, anziché ignorare o criticare il razzismo, «cerchino di approfondirne il senso e come possa essere armonizzato con il nostro patrimonio religioso. Ma soprattutto pensino che la nostra rivoluzione, fatta da un genio e dal popolo italiano, innestata sul tronco di una civiltà tre volte millenaria, non può assolutamente essere arbitrio» (2).
Dello stesso tenore era un articolo pubblicato contemporaneamente sul Quadrivio e sul Tevere, redatto dallo scrittore antisemita G. Sottochiesa, il quale criticava l’atteggiamento degli intellettuali cattolici riguardo al problema della razza. Egli deplorava la preconcetta ostilità e la «inguaribile incomprensione» di cui questi davano prova. A tale riguardo citava gli interventi della Civiltà Cattolica, accusandola di vedere tutto «con lenti nerissime» (3) e di confondere il razzismo italiano con quello germanico, dando di quest’ultimo una interpretazione non rispondente al vero.
Un articolo di J. Evola pubblicato su Vita Italiana, facendo il punto sulla situazione, affermava che la politica razziale in Italia aveva fallito il suo scopo, sia per la inadeguatezza della legislazione posta in essere, sia anche per l’ostilità delle forze vive della nazione. La legislazione italiana — scriveva Evola — in fatto di ebraismo sarebbe ancora primitiva e dovrebbe essere completata al più presto. I fattori che ritardano l’avanzata del razzismo «nella coscienza generale della nazione» sarebbero tre: «la borghesia, l’elemento intellettuale e l’atteggiamento di certi cattolici».
Trattando di questi ultimi, affermava: «I cattolici italiani con grandi sforzi sono riusciti a digerire il nazionalismo; dopo di esso, sia pure con reticenze varie, il fascismo. Di fronte al razzismo avvertono, però, un vero non possumus. Una conciliazione tra i princìpi razzisti e le loro opinioni, la ritengono impossibile» (4).
Alcuni cattolici, infatti, distinguevano un razzismo «cattivo», da rigettare, in quanto fondato su basi eugenetico-biologiche, e un razzismo «buono», che promuoveva, oltre la preservazione e il miglioramento degli elementi costitutivi di una stirpe, la riscoperta e la valorizzazione dei valori etico-spirituali di un popolo. Come tipo ideale di legislazione razziale, rispettosa della dottrina cristiana, venne indicata dalla pubblicistica cattolica quella promulgata nel 1937 dal Governo ungherese (5).
Uno degli elementi di debolezza della legislazione razziale italiana riguardava certamente il trattamento riservato ai matrimoni misti; tale fatto non sfuggì agli organi preposti all’applicazione di tale legge. Un rapporto del 2 luglio 1939 della Direzione della Demografia e della Razza (che era un organo del Ministero dell’Interno) illustrava al Duce il sentimento di ripulsa e lo sconcerto che serpeggiavano nell’opinione pubblica riguardo al trattamento dei matrimoni misti, nonostante i recenti provvedimenti assunti dal Governo per contrastare il «pietismo», considerato una piaga della cultura cattolica nazionale.
«Sono stati raccolti commenti — è scritto nella relazione — secondo i quali le disposizioni sulla razza hanno creato stato di disagio nelle famiglie dei cittadini italiani di razza ebraica che hanno sposato donne ariane di religione cattolica. Si rileva che la compagine di tali nuclei famigliari sia stata scossa perché fra i coniugi sono venute a crearsi delle condizioni di disparità» nei diritti e nei doveri molto forti.
Il relatore sottolineava che nelle altre legislazioni emanate dagli Stati totali-tari in materia razziale, la questione dei misti era stata risolta in linea generale e con sufficiente chiarezza: in Germania si consentì al coniuge ariano di chiedere lo scioglimento del matrimonio contratto con un non ariano; in Ungheria invece al coniuge di razza ebraica battezzato si riconosceva legalmente la qualità di ariano.
Interessanti sono i suggerimenti che i responsabili della «Demorazza» davano a Mussolini sull’indirizzo da seguire su tale delicata materia: «Ora non vi è dubbio che sarebbe equo un trattamento di favore per quei coniugi i quali: a) contrassero matrimonio misto con rito cattolico; b) in conformità degli impegni assunti, battezzando i loro figli col rito cattolico; e) anteriormente al 1 ottobre 1938 abbracciarono la religione cattolica» (6).
Dalla documentazione di parte governativa risulta, come vedremo, che tale questione fu più volte e in diverse occasioni sottoposta all’attenzione del Duce (7). Egli cercò in tutti i modi di rimandare una decisione impegnativa a tale riguardo, anche per non dare l’impressione sia ai dirigenti del suo partito sia all’alleato tedesco, molto sensibile a tali questioni di principio, di cedere alle insistenti richieste dell’autorità ecclesiastica in materia.
In ogni caso, secondo De Felice, l’orientamento a quel tempo dominante nella Direzione della Demografia e della Razza era di concedere al coniuge non ariano, ma battezzato e professante la religione cattolica, la cosiddetta arianizzazione, assimilandolo nei diritti e negli obblighi familiari all’altro coniuge; in tal modo — si pensava — si restituiva alla famiglia quella solidità e unità che il regime auspicava. Tale scelta, secondo i responsabili della Direzione, avrebbe inoltre contribuito a rendere meno fluida e più sicura la linea di separazione tra l’elemento ariano (o arianizzato) e quello non ariano della popolazione.
A pochi mesi dalla promulgazione della legge sulla difesa della razza ci si rese conto (e Mussolini non poteva non riconoscere tale realtà) che essa nella sua applicazione pratica incontrava ostacoli insormontabili e che non era sufficiente per rimuoverli apportare qualche piccolo adattamento occasionale, ma che, al contrario, era necessario cambiare alcuni aspetti fondamentali della stessa e fissare nuovi criteri per discriminare, dividere, separare meglio.
Per il momento, però, il Duce riteneva opportuno non intervenire sulla legge e far finta che i problemi denunciati non esistessero. DÌ fatto su tale materia egli assunse un atteggiamento attendista e dilatorio, aspettando il momento più opportuno e meno compromettente per appianare ogni cosa: possibilmente — egli pensava — intavolando trattative segrete con la Santa Sede per risolvere, senza troppo clamore, il problema dei matrimoni misti. Ma in tal caso bisognava sconfessare l’impostazione «biologica», sostenuta dalla propaganda del regime e data alla legislazione in materia razziale, e metterne in evidenza la debolezza sul piano dei principi.
Richieste della Santa Sede di modifica della legislazione razziale
Dalla documentazione di parte ecclesiastica sulla materia razziale risulta invece come proprio in questi mesi l’atteggiamento delle autorità governative preposte all’applicazione della legge sulla purezza della razza andasse irrigidendosi, rigettando in modo insolitamente duro e risoluto le richieste dell’autorità ecclesiastica rivolte a mitigare O rigore della legge. Una delle prime richieste avanzate dalla Santa Sede consisteva nel considerare il catecumeno come membro della Chiesa cattolica a tutti gli effetti.
Per dimostrare tale dottrina, le Congregazioni romane presentarono al Governo relazioni molto dettagliate e dotte, riportando la tradizione cattolica in materia. Su tale punto il sottosegretario dì Stato G. Buffarini Guidi si mostrò irremovibile, affermando di considerare soltanto il battesimo già amministrato suscettibile di effetti legali. Allo stesso modo non furono prese in considerazione dall’autorità governativa le richieste fatte dagli incaricati della Santa Sede per modificare alcuni aspetti del progetto di legge sull’esercizio delle professioni dei cittadini di razza ebraica (legge che fu poi promulgata il 29 giugno 1939 n. 1054).
«Feci osservare — scrisse il p. Tacchi Venturi il 19 maggio 1939 — che con le progettate disposizioni si verrebbero a colpire, in modo del tutto ingiusto, i battezzati di razza ebraica, i quali non avrebbero potuto sperare una clientela tra gli ebrei autentici e d’altra parte venivano esclusi dall’esercitate la professione tra i cattolici ariani» (8).
Prima dell’entrata in vigore della legge, la cui applicazione fu rimandata di diversi mesi (marzo 1940), la Segreteria di Stato fece pervenire a Mussolini, attraverso l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, un memoriale su tale materia, sottolineando l’effetto disastroso che tale normativa avrebbe avuto sulle famiglie miste. Si denunciava ancora la norma che proibiva ai professionisti di razza ebraica, non discriminati, «di esercitare la loro professione in favore degli ariani», nonché il divieto di costituire tra professionisti di razze diverse associazioni o collaborazioni necessaria, o almeno assai utili, nell’esercizio di tali professioni.
«E facile comprendere — commentava il memoriale — che tale stato di cose sarà causa di desolazione e di rovina per molte di dette famiglie che, eccetto il capo, sono di stirpe ariana, in quanto che ai medesimi capi famiglia viene grandemente diminuita e, nei casi dei non discriminati, tolta, o quasi, ogni possibilità di quel lavoro, che anche dalla “Carta del lavoro” è considerato come un dovere sociale» (9).
Al memoriale presentato dalla Santa Sede non fu data nessuna risposta ufficiale. Il che stava a significare che sulla materia razziale, nonostante i rapporti tra le due autorità fossero migliorati, almeno formalmente il Governo non intendeva confrontarsi con la Santa Sede.
La materia che in quel momento stava maggiormente a cuore alla Santa Sede era però quella dei matrimoni misti, non soltanto per motivi di ordine giuridico — la disposizione legislativa relativa a tale materia violava infatti la lettera del Concordato —, ma anche per ragioni umanitarie, insistentemente portate dagli interessati all’attenzione del Papa. Inoltre, molte coppie di fidanzati (di cui uno era considerato di razza ebraica), che al tempo della promulgazione della legge sulla razza avevano rinviato il matrimonio a motivo del divieto in essa contenuto, ora chiedevano alla Santa Sede di regolarizzare, anche soltanto religiosamente, il rapporto.
Il 23 agosto 1939 il Papa chiese alla Segreteria di Stato di fare qualche passo presso il Governo italiano per ottenere che «ai cattolici di razza ebraica fosse consentito dì contrarre matrimonio con persona di razza ariana e che a tale matrimonio siano riconosciuti gli effetti civili» (10) Immediatamente la Segreteria di Stato incaricò mons. F. Borgongini Duca e il gesuita p. P. Tacchi Venturi, perché facessero presenti alle autorità competenti i desiderata del Papa in tale delicata materia. Va ricordato che già altre volte erano state presentate richieste di questo tipo all’autorità governativa, senza alcun esito.
Da una relazione del Nunzio del 30 agosto 1939 risulta che l’autorità governativa, nonostante le incertezze sull’atteggiamento da tenere su tale materia, si mostrava poco disponibile ad andare incontro alle richieste vaticane: «Ambedue purtroppo — è detto nella Nota — abbiamo dovuto constatare che gli umori [negli ambienti governativi] non sono cambiati e non vi è indizio alcuno di una mitigazione del rigore della nota legge».
Dalle fonti del Ministero dell’Interno risulta al contrario che proprio in questo periodo gli organi preposti all’applicazione della legge auspicavano, per il bene della nazione, un cambiamento della stessa sulla materia matrimoniale. La parola d’ordine data dall’alto, cioè da Mussolini, e di cui l’on. Buffarini era il portavoce ufficiale, era però di fare «muso duro» alle richieste del Vaticano e di non cedere in nulla, fino a nuovo ordine.
L’on. Buffarini, il quale fu contattato dai due inviati pontifici, disse chiaramente che quello non era il momento adatto per intavolare discorsi su tale materia a motivo della delicata situazione politica e della divisione che sul piano europeo si stava prospettando tra Stati democratici e Stati autoritari. «Voi lo sapete, la Sinagoga internazionale — disse il Sottosegretario — recentemente in occasione di questo movimento di guerra ha preso posizione contro l’Italia».
Prendendo spunto da tali parole il Nunzio rispose che, a motivo dell’imminente entrata in guerra dell’Italia, il Governo avrebbe potuto avvantaggiarsi della collaborazione degli ebrei convertiti al cattolicesimo e verificare così sul campo di battaglia la loro fedeltà alla patria e alla Chiesa. L’on. Buffarini ascoltò attentamente le parole del Nunzio e alla fine, pensoso, rispose: «Questo si potrà vedere se ci sarà la guerra».
Stando così le cose osservava il Nunzio, «sono del parere che non sia possibile ottenere un miglioramento circa i matrimoni e perciò sia fuori luogo iniziare, almeno per il momento, conversazioni» (11). Da tale relazione risulta, dietro le righe, che l’autorità governativa sul problema dei matrimoni misti, a motivo della complessità della materia, iniziava a palesare i primi segni di cedimento. Essa però non intendeva dare l’impressione all’autorità ecclesiastica che il Governo stesse già progettando di fare marcia indietro; ciò infatti ne avrebbe indebolito l’autorità presso i propri avversari, anche interni, e ridato fiato ai critici della legislazione razziale.
Tale atteggiamento di «ostile chiusura» delle autorità governative nei confronti delle richieste della Santa Sede risulta anche sulla materia delle «arianizzazioni», prevista dalla legge del 13 luglio 1939 n. 1024, la quale dava facoltà al ministro dell’Interno di dichiarare, su parere conforme di un’apposita commissione, «la non appartenenza alla razza ebraica [del richiedente] anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile».
Tale norma, la quale in realtà non seguiva nessun criterio particolare (né giuridico né religioso né razziale) nella concessione del beneficio, ma soltanto l’arbitrio e la discrezionalità dell’autorità concedente, si prestò ben presto a forme odiose di favoritismo e di corruzione, denunciate perfino dalla stampa fascista.
L’antisemita G. Preziosi nella sua rivista La vita italiana nel settembre del 1941, denunciando gli abusi in materia di arianizzazione, scrisse che ciò dimostrava come le «nostre leggi razziali furono — dietro le quinte — preparate dai giudei» (12) e che esse venivano applicate in modo sommario e senza convinzione. In realtà la politica antisemita seguita dal Governo fascista non era fondata su precise e ferme basi ideologiche — sebbene Mussolini andasse asserendo che il problema della purezza della razza fosse presente fin dall’inizio nelle priorità e nei finì del fascismo —, ma sulla volontà del regime di seguire su questa strada l’alleato tedesco e di accodarsi, sviluppando un proprio indirizzo razzista e antisemita, agli altri Stati totalitari (13).
Nei giorni successivi alla promulgazione della legge del 13 luglio arrivarono in Vaticano numerose richieste perché l’autorità ecclesiastica appoggiasse presso gli uffici governativi competenti le domande di arianizzazione presentate da ebrei. La Segreteria di Stato incaricò della questione il Nunzio apostolico, pregandolo, innanzitutto, di «volersi informare [presso il Ministero] e riferire quale è lo scopo e l’ambito della legge stessa» e in quale modo fosse possibile aiutare i richiedenti.
Pochi giorni dopo il Nunzio informò la Segreteria di Stato sul risultato della sua esplorazione. «Ho preso contatto — scrisse in una Nota del 30 agosto — con varie persone per essere informato sulla portata della legge stessa e ieri ho potuto discuterne anche con l’on. Buffarini, nonostante che nella sua camera, in luogo molto visibile, abbia trovato affisso un cartello con questa dicitura “Prego di non parlarmi di ebrei”».
Il Sottosegretario disse che la legge intendeva risolvere soltanto quei casi (portati all’attenzione dell’autorità) in cui un non ariano risultasse non essere figlio di colui di cui porta il nome, essendo stato concepito in un rapporto adulterino. «Poiché — continuava l’on. Buffarini — la legge razzista si è ispirata ad un criterio biologico, più che ad un criterio legale, il Governo ha dovuto, in ossequio alla logica, ammettere tali eccezioni». La legge, continuava il Sottosegretario, non intende dare al Ministero poteri discrezionale «per far entrare dalla finestra chi non poteva entrare dalla porta», vale dire chi non poteva ottenere la discriminazione in base alla legislazione vigente.
Il Nunzio concludeva il suo rapporto affermando perentoriamente che «la nuova legge non ha la portata di una mitigazione, come alcuni hanno creduto, tale da dare adito a nuovi esami e relative raccomandazioni» (14). Ci sembra strano che un diplomatico consumato come era mons. Borgongini non abbia colto la vera portata di tale nuova disposizione, finalizzata a creare una «zona franca in materia razziale» sulla quale il regime potesse a sua discrezione intervenire. Certamente egli si rese conto che, in ogni caso, essa non poteva essere utilizzata dalla Santa Sede per chiedere mitigazioni alla legislazione in materia razziale. Alla fine del 1942 il totale degli ebrei che godettero di tale «privilegio» furono 145, cinque dei quali erano stati «arianizzati» su richiesta personale di Mussolini (15).
Pio XII e la politica dei piccoli passi in materia razziale
Dopo la morte di Pio XI (10 febbraio 1939) e con l’elezione al Pontificato di Pio XII (2 marzo 1939), i rapporti tra le due autorità divennero più distesi e meno improntati a spirito dì contrapposizione. Mussolini negli ultimi mesi del pontificato di papa Ratti aveva assunto un atteggiamento piuttosto duro nei confronti del Vaticano e malvolentieri incontrava gli inviati pontifici, compreso il p. Tacchi Venturi.
Il Duce, trattando con il Re della questione razziale, aveva detto che su tale materia il Papa stava «tirando troppo la corda con l’Italia», mentre ad alcuni suoi collaboratori aveva confidato che Pio XI, ormai gravemente malato, con il suo modo di agire avrebbe condotto la Chiesa alla rovina. Un dossier della Segreteria di Stato, sistemato e accompagnato da opportuni commenti di mons. D. Tardini, a quel tempo segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, contiene importanti documenti relativi ad alcune questioni trattate dal Papa nelle ultime settimane di vita: in esso sono contenuti progetti sui festeggiamenti per la ricorrenza del decennale della Conciliazione, nonché per l’anniversario dei 17 anni di pontificato.
Non mancano osservazioni sulla materia razziale, che amareggiava il cuore del Papa. Da tale materiale, studiato e in parte pubblicato da E. Fattorini (16), risulta che il Duce era molto irritato con il Papa per averlo chiamato in un’allocuzione concistoriale con le parole, in realtà un poco ironiche, di «incomparabile Ministro». Mussolini fece sapere in Vaticano che il Governo non avrebbe partecipato ai festeggiamenti del decennale della Conciliazione. Successivamente, spinto dai suoi ministri alla moderazione, cambiò idea e inviò Ciano per trattare tale questione con le autorità vaticane.
Mussolini il 19 gennaio fece sapere, attraverso l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, che avrebbe partecipato alla celebrazione del decennale dei Patti a condizione che il contenuto dei rispettivi discorsi pubblici fosse concordato insieme, e il capo del Governo potesse poi intrattenersi con i vescovi italiani.
L’indomani il Segretario di Stato card. Pacelli fece conoscere all’ambasciatore la posizione del Papa sulle richieste di Mussolini: «Scambio di messaggi sì. Se Mussolini manda un messaggio, il Santo Padre risponderà. Quanto ai discorsi non so che cosa il Papa dirà. Parlerà come Papa ai vescovi. Dire a Mussolini che il Santo Padre è rimasto soddisfatto della sua risposta a fare l’accordo, però che non lasci venire la data del decennale senza aver risposto alla lettera del Santo Padre. Il Santo Padre aspetta ancora e ha il diritto dì aspettare quale effetto abbia avuto la parola del Re […]. Il Papa non vuole trovarsi nella circostanza di dire che [Mussolini] è stato scortese e fedifrago» (17).
Il card. Pacelli faceva riferimento alla lettera inviata dal Papa al capo del Governo il 4 ottobre 1938 in cui denunciava il vulnus al Concordato e chiedeva modifiche del progetto di legge, e alla quale non era stata data alcuna risposta; il che irritava moltissimo il Pontefice, che andava ripetendo che Mussolini si era comportato con lui come un villano e un fedifrago; aggiungeva che se non voleva partecipare alla celebrazione (dei Patti), avrebbe fatto tutto da solo (18).
Come è noto, il Papa morì un giorno prima della celebrazione dei Patti Lateranensi, cosicché lo scontro fu alla fine evitato, e il discorso preparato dal Papa, che Tardini definì di «grande importanza» e che di fatto in molti tratti era piuttosto pungente e critico nei confronti del fascismo, fu accantonato e non dato alle stampe (19).
In ogni caso, la prospettiva mussoliniana nei mesi a cavallo fra i due pontificati fu di far intendere alle autorità vaticane che il Governo fascista era risoluto a portare avanti fino in fondo la sua politica «sinceramente razzista» e che la Chiesa, in particolare la Santa Sede, non doveva porre ostacoli di nessun tipo a tale indirizzo. La politica della «linea dura» in materia razziale, pensavano Mussolini e gli intransigenti del partito, alla fine si sarebbe imposta, costringendo le autorità vaticane a più miti consigli.
Eppure, come si è detto prima, la presunta solidità dell’edificio razziale iniziava a dare, dall’interno, i primi segni di cedimento. Da parte sua, il nuovo Pontefice, da fine diplomatico qual era, cercò in tutti i modi di non inasprire ulteriormente i rapporti con il Governo in carica, ma, utilizzando la «diplomazia domestica», riprese discretamente i contatti — praticamente interrotti negli ultimi mesi dì vita dì Pio XI —, partendo dalla trattazione di problemi dai quali sperava di ottenere dalla controparte qualche risultato positivo.
D’altra parte anche le autorità governative, a partire dallo stesso Mussolini, erano interessate a instaurare rapporti più cordiali con il Vaticano, per rendere meno problematica l’applicazione della legislazione razziale, soprattutto in rapporto alla spinosa questione dei matrimoni misti. Questo almeno era il punto di vista dell’organo preposto all’applicazione di tali leggi, cioè la Direzione generale della Demografia e della Razza. Mussolini dal canto suo, invece, intendeva riprendere i contatti col nuovo Pontefice, partendo dai problemi di politica internazionale, sui quali la Santa Sede poteva giocare ancora un ruolo importante.
Poche settimane dopo l’elezione del nuovo Papa, Mussolini stesso convocò per un incontro riservato il p. Tacchi Venturi, che era stato fino a quel momento l’inviato personale di Pio XI presso il Duce. Il 28 marzo il gesuita fu ricevuto a palazzo Venezia da Mussolini, il quale comunicò, con «esposizione serrata», tre punti riguardanti la politica internazionale che avrebbe voluto venissero portati all’attenzione del nuovo Pontefice.
Il primo riguardava la Spagna; egli chiedeva che il clero si adoperasse in questa nazione in favore del generale Franco, dei cui sentimenti cattolici non si poteva certo dubitare — disse — avendo egli sconfitto i comunisti e riaperto le chiese al culto. Il secondo riguardava la Croazia e chiedeva che le simpatie del clero croato fossero rivolte verso l’Italia, piuttosto che verso il «potente impero suo vicino», cioè il Terzo Reich; da questo infatti «la religione cattolica non aveva nulla da sperare», come insegnavano i recenti avvenimenti austriaci.
Il terzo punto riguardava invece l’America Latina; a questo proposito il Duce faceva osservare che in quella parte del mondo il cattolicesimo correva un grosso rischio a motivo della penetrazione missionaria dei protestanti, i quali in modo silenzioso e garbato vi impiantavano scuole, ospedali e altre opere filantropiche per guadagnarsi la simpatia del popolo. I vescovi e il clero del Sud America avrebbero dovuto contrastare con ogni mezzo tale penetrazione e impedire che «la mentalità latina cattolica» fosse sostituita con quella protestante «della Repubblica stellata».
Esaurita la trattazione dei tre desiderata, il Duce invitò il gesuita a esporgli eventuali richieste della Santa Sede. Egli prontamente gli consegnò un promemoria nei quali erano riportati cinque punti «che il Santo Padre spera di vedere accolti dalla saggezza e benignità del Duce». Mussolini lesse lo scritto, ma non — annotava il gesuita — «con quella posatezza che avrei voluto». Disse che due punti indicati nel promemoria si potevano accogliere senza problemi, quello cioè riguardante i domestici ariani e quello sui fidanzati; degli altri invece, che erano quelli più significativi (arianizzazione dei misti), non fece parola.
Il p. Tacchi Venturi notò che il Duce ripose il promemoria vaticano nella cartella indirizzata alla commissione speciale che sovrintendeva all’applicazione della legge «presso la quale — sottolineava — sarà ora da insistere a fine di ottenere che le nostre discrete proposte vengano in pieno accettate».
Tale colloquio tra il Duce e il p. Tacchi Venturi è, a nostro avviso, di grande importanza, poiché sta a significare che da parte governativa c’era la volontà di cambiare tattica nei rapporti con le autorità vaticane e di abbandonare la strategia della contrapposizione frontale, adottata negli ultimi tempi, poiché era chiaro che il regime aveva bisogno del sostegno morale della Chiesa per rendere più forte e sicura la sua azione politica sia all’interno sia all’esterno, soprattutto in questo periodo in cui lo spettro di una nuova guerra si aggirava per l’intera Europa.
Il p. Tacchi Venturi fece notare che il clima a palazzo Venezia era cambiato e ciò faceva sperare che i rapporti tra Santa Sede e Governo fascista si sarebbero normalizzati. «Tutto ci fa sperare — concludeva il gesuita — che sia per finire quel periodo di diffidenza, di punzecchiature a continui colpi di spilla che tanto rese difficili, o piuttosto amari, gli ultimi mesi del glorioso pontificato di Pio XI» (20).
Nonostante tale riavvicinamento in materia razziale, Mussolini era ben deciso, per il momento, a non modificare la sua strategia politica e a non concedere nulla, o molto poco alle richieste provenienti dalle autorità vaticane o anche dai rappresentanti degli Stati democratici. In realtà, la materia dei matrimoni misti continuerà ancora per lungo tempo a contrapporre frontalmente le due autorità.
Questo, infatti era, secondo la dottrina ecclesiologica del tempo, l’unico ambito nel quale l’autorità ecclesiastica poteva legittimamente intervenire, facendo riferimento agli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano in materia matrimoniale. Pio XII, saggiamente e con tatto diplomatico, a tale riguardo si mosse sia sul piano giuridico-formale (senza però insistere troppo nell’accusa rivolta al Governo fascista, come sì era fatto precedentemente, di aver «vulnerato» il Concordato), sia su quello umanitario, che impegnava la Chiesa ad andare in soccorso di tutti i fedeli cattolici, indipendentemente dalla razza di appartenenza.
Facendo leva su questi due principi, accentuando ora l’uno ora l’altro, l’autorità ecclesiastica fece il possibile per ottenere dal Governo alcune concessioni a favore degli ebrei cattolici, o per rendere, per tutti, meno rigorosa l’applicazione della vigente legislazione in materia razziale.
Note
1) Tra i più importanti ricordiamo: il D. L. 9 febbraio 19J9 n, 126, relativo alle norme di attuazione delle disposizioni di cui all’ari. 10 del D. L. 17 novembre 1938 n. 1728, relative ai limiti di proprietà immobiliare- e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica; la legge 29 giugno 1939 n. 1054, che disciplinava l’esercizio delle professioni da parte degli ebrei; la legge 13 luglio 1939 n. 1055, che dettava norme in materia testamentaria e in relazione ai cognomi; la legge 13 luglio 1939 n. 1024, sulle «arianizzazioni». che comportava l’inserimento nella legislazione antisemita di questa nuova figura. Tali testi sono contenuti in A. CAVAGNON- G. ROMAGNANI, Le leggi razziali in Italia, Torino, Claudiana, 2002; N, MAGRONE, Codice breve del razzismo fascista. Stato totalitario e democrazia costituzionale. La questione razziale, Bari, Interno – Sudcritica, 2003; M. SAKHATTI (ed.), «Documenti della legislazione antiebraica. I testi della legge», in La rassegna mensile di Israele, 1988, n, 1 -2.
2) G. A. LONGO, «Parole chiare sul razzismo», in Critica fascista, 15 giugno 1939.
3) G. SOTTOCHIESA, «Gli intellettuali cattolici e la razza», in Il Tevere, 23 giugno 1939.
4) J. EVOLA, «La situazione del razzismo in Italia», in La vita italiana, 18 febbraio 1941.
5) Essa era ispirata, si diceva, dall’intento di proteggere la società cristiana e i suoi valori tradizionali dai raggiri dì una minoranza, quella ebraica appunto, che con le sue «idee moderne» intendeva sovvertire i principi cardine su cui sì fondava l’identità della nazione. Gli ebrei ungheresi, inoltre, pur essendo una minoranza, erano riusciti a occupare posti chiave nella direzione dell’economia e della finanza a scapito dell’elemento ariano. La legge, al fine di proteggere gli interessi della maggioranza, utilizzò come principio base quello della «proporzionalità numerica» nell’accesso alle cariche direttive e delle professioni liberali. Circa i matrimoni misti, essa fissava la regola generale che il coniuge non ariano, ma battezzato, che aveva contratto matrimonio cattolico, era considerato ariano a tutti gli effetti. Tale legislazione fu indicata dalla Civiltà Cattolica come un modello da imitare per la sua moderazione e per il rispetto del punto di vista cattolico, Cfr A, BARBERA, «La questione dei giudei in Ungheria», in Civ. Catt. 1938 III 146-153.
6) Citato in R DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961, 403.
7) Cfr ivi. Si vedano in particolare i documenti nn. 24-25-26 riportali nell’appendice del testo.
8) Actes et Documents du Saint Siège relatifs a la seconde guerre mondiale (AD&S), vol. VI, Roma, Libr. Ed. Vaticana, 1972, SO.
9) Ivi, 247. Il documento è datalo 25 febbraio 1940.
10) Ivi, 122.
12) G. PREZIOSI, La vita italiana, settembre 1941, 304.
13) Cfr R. DE FELICE, Storia degli ebrei sotto il fascismo, cit., 320-322; contro cfr M. SARFATTI, La shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 2005,71-73; E. COLLETTI, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma – Bari, Laterza, 2003, 58-60; E CASSATA, La difesa della Razza, Torino, Einaudi, 2009.
14) ADSS, VI, 127.
15) M SARFATTI, La Shoah in Italia…, cit., 83.
16) Cfr E. FATTORINI, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, 204-206
17) L’allocuzione era del 24 dicembre 1938. Cfr V. CHIRON, Pie XI, Paris, Perrin, 2004,392.
18) E. FATTORINI, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, cit., 211.
19) Ivi, 211-213. H. WOLF, II Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich, Roma, Donzelli. 2008, 221.
20) ADSS, VI, 59.
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