Dal blog di Carlo Bellieni
Carlo Bellieni
Neonatologo, Azienda Ospedaliera Universitaria Senese
Consigliere nazionale Associazione Scienza e Vita
Che rapporto ha la vita al suo inizio e la disabilità?
E’ un ossimoro parlare di disabilità nel feto e nel neonato. Perché un conto è la malattia e un conto è la disabilità. Ma questo incontro ci dà la possibilità di chiarire bene cosa è la disabilità, perché non crediamo che la questione sia chiara per tutti. La disabilità infatti è l’impossibilità di eseguire azioni fisiche o mentali che persone della stessa età riescono a fare. Ora è chiaro che le azioni che può fare un feto o un neonato difficilmente vengono alterate dalla malattia, o comunque non sono quelli che normalmente conosciamo come “handicap” per l’adulto ad essere ostacoli per un feto o un neonato. Per l’adulto si considera un handicap non poter essere autonomo, mentre il feto e il neonato non lo sono per definizione; si considera non poter camminare, parlare, esercitare forme di pensiero in cui l’autocoscienza emerga, e questo invece è normale per il neonato.
Dunque la disabilità non riguarda il neonato?
Lo riguarda nella misura in cui nel futuro il soggetto non riuscirà a fare le cose comuni agli altri, ma per il momento non è disabile, a meno che non abbia una malattia/malformazione che gli impedisce di fare le cose della sua età.
Per parlare della disabilità del bambino, dobbiamo capire cosa è la disabilità. Ma cos’è la disabilità?
Questa domanda è importante perché ci porta per mano a capire un punto importante: cosa è l’handicap ma ancora più, cosa è la salute. Infatti, la salute non può e non deve essere identificata con la mera mancanza di malattia, ma nemmeno con quell’utopica espressione dell’organizzazione Mondiale della sanità che la descrive come “stato di completo benessere psicologico, fisico e sociale”. Per capire cosa è la salute dobbiamo riflettere su quando sentiamo di non averla e la risposta è semplice: sentiamo di non aver salute non quando non riusciamo a compiere dei capricci o imprese straordinarie (ad esempio correre i 100 metri in 10 secondi… a meno che non siamo dei recordmen); nemmeno sentiamo di non avere salute quando scopriamo di avere una malattia, ma questa malattia è ancora lontana dal manifestare i suoi sintomi.
Invece possiamo dire che sentiamo di non avere salute quando non riusciamo a compiere le attività di tutti i giorni che prima riuscivamo a fare o che la media dei nostri coetanei riesce a compiere. Il vecchio per sentirsi in salute basta che possa fare cose da vecchio: stare con la famiglia, avere una vita di relazione, leggere, camminare quanto basta per le sue esigenze; per il giovane questo non sarebbe segno di buona salute. Per il neonato essere sano è fare cose da neonato: prendere il latte, stare con la mamma, avere funzioni fisiologiche sane. Tutto questo significa che partendo proprio dall’osservazione del feto e del neonato capiamo due cose che ora descriveremo rapidamente.
La prima cosa è che la salute è un fatto variabile con l’età e le situazioni, e che per essere sani non occorre essere come impongono i modelli pubblicitari, perché il rischio è proprio questo: pensare che si sia “giusti” solo quando si è conformi a certi modelli. E dall’altro canto pensare che se si hanno certe malattie non si può pensare di essere sani, cosa ben smentita da tante persone portatrici di handicap che spesso riescono a fare gesti mentali o fisici che i loro coetanei “normoconformati” non si sognerebbero nemmeno.
La seconda cosa è che la disabilità è un fatto legato all’ambiente: la disabilità è tale perché si confronta o con una mancanza di accettazione culturale del diverso o perché la società non dà quel livello di assistenza e agevolazioni alle famiglie al punto da far risaltare con dolore e peso la malattia che altrimenti sarebbe gestita con maggior sopportabilità.
Ma davvero le cose oggi sono così? Si vuole che tutti siano perfetti, la società reclamizza e fa aspirare alla perfezione, rendendo alla fine tutti infelici e in particolare facendo sentire chi non può nascondere il proprio handicap un peso non desiderato, indesiderato e indesiderabile?
Una cosa è chiara: tutti abbiamo un handicap, ma il mondo si distingue tra chi riesce a nasconderlo e chi non può in una visione che alla fine diventa classista, in quanto divide la gente in caste: chi riesce a mascherare l’handicap e chi non può farlo; questi ultimi finiscono per sentirsi indesiderati e di troppo.
Indesiderati già prima di nascere, forse?
Più che indesiderati, “desiderati sotto condizione” perché oggi si nasce dopo aver passato l’esame di idoneità prenatale: la diagnosi genetica prenatale, che in un modo o in un altro fanno tutti: o attraverso vie invasive (amniocentesi) o attraverso la ricerca di marker di anormalità genetica con ecografie o esami di sangue materni (triplo test) mirati a questo. Ovviamente si sa che sono malattie, quelle genetiche, che non hanno cura, e che nella gran parte dei casi esitano in aborto dopo averle scoperte; per questo possiamo dire che la diagnosi genetica prenatale non è eticamente neutra: sempre necessita di una scelta di campo dato che arriva a toccare la privacy del feto e il suo diritto all’integrità.
Non si tratta della pura “diagnosi prenatale” che invece ha un intento curativo. Nella DPG ci troviamo a che fare con due soggetti: il figlio e la madre. Il feto su cui si fa la diagnosi è infatti un essere vivente; per questo ci troviamo di fronte ad un paradosso: si fa la diagnosi ad A – senza che lui/lei lo chieda – nell’interesse di B. E dato che si tratta di malattie che non possono essere curate, che se si scoprissero alla nascita non avrebbero un trattamento migliore che se scoperte quando è ancora possibile l’aborto, alcuni hanno supposto che la DPG è un indebito ingresso nella privacy genetica dell’individuo. Il rischio di morte fetale come “effetto collaterale” dell’amniocentesi è rilevante: 5-10 ogni 1.000 amniocentesi.
Certo, la donna può essere ansiosa in gravidanza e conoscere la condizione genetica del figlio può essere d’aiuto per ridurre l’ansia; ma la DGP può essere esito di un desiderio di controllo sul figlio, che va ben oltre il periodo prenatale; e può infine essere ordinata all’interruzione di gravidanza in caso di anomalia genetica.
È comprensibile l’ansia della donna in una società che addirittura mette la bellezza estetica come sommo principio, che non dà aiuto sociale ed economico alla disabilità, che obbliga culturalmente nei fatti ad un esame genetico prenatale; per questo nel caso di forte angoscia, si può comprendere che si esegua un accertamento genetico, ma è difficile una sua giustificazione come routine.
E il neonato?
Anche sulla vita appena nata grava la minaccia di non essere riconosciuta come vita di una persona e dunque di poter essere perlomeno trattata con minor efficacia di una vita adulta. Infatti i feti possono nascere prematuramente e finire il loro sviluppo fuori dell’utero materno. Con i moderni progressi medici, il neonato può sopravvivere fuori dell’utero materno quando è estremamente piccolo. Oggi il limite di sopravvivenza è di 22 settimane, quando – se nasce in un centro di alta specializzazione – la possibilità di sopravvivenza è circa il 10%. Più si ritarda la nascita (in assenza di controindicazioni), maggiori sono le possibilità di sopravvivere.
Il neonato è una persona?
Questa domanda non andrebbe posta, perché è come domandarsi se i cinesi o gli olandesi sono delle persone: va da sé che lo sono e volerlo dimostrare significa in fondo metterlo in dubbio; e nessuno accetterebbe che venga messo in dubbio che cinesi o olandesi sono persone. Dobbiamo riconoscere invece che diversi rinomati filosofi discutono se i neonati siano persone e alcuni affermano che non lo sono, in base al fatto che non hanno autocoscienza. Ma se i neonati non sono persone, possono essere trattati come si trattano in molte legislazioni i feti, cioè subordinando i loro interessi a quelli dei genitori o dell’economia generale, e questo ragionamento (che semmai dovrebbe valere al contrario per valorizzare la vita fetale, è difficile da sostenere.
Riflettiamo sul trattamento del dolore o nelle scelte sul fine vita. Vari studi mostrano che si è più propensi a considerare l’interesse dei genitori di quanto lo si sia per pazienti più grandi; e che si sospendono le cure su una base probabilistica (basandosi solo sull’età gestazionale) piuttosto che su una prognosi basata su accertamenti adeguati, cosa che invece avverrebbe in un adulto. Le motivazioni di questo trattamento sono probabilmente da ricercare in una forte empatia verso la sofferenza dei genitori e nello smacco che si prova vedere che gli sforzi per salvare un neonato talora lo fanno vivere ma con un grave handicap.
Il problema è se vogliamo fare l’interesse del paziente allora non dobbiamo farci prendere da un erroneo uso del sentimento, che deve essere equilibrato e opportuno, che ci può portare a sospendere le cure senza valutare cosa prova il paziente stesso o a farci protrarre delle cure inutili. D’altronde può esistere un conflitto di interessi tra genitori (oltretutto stressati e impauriti al momento del parto e nei giorni successivi) e bambino.
Parlare della dignità dei neonati è parlare dell’uguaglianza di tutte le persone, indipendentemente da razza, religione, età e salute. La dignità dei piccolissimi pazienti impone di dare a tutti una chance, esattamente come si farebbe con un adulto che subisce un infarto o un ictus, entrambe condizioni con alto rischio di morte e di disabilità in caso di sopravvivenza. Un trattamento disuguale è legato ad un’idea di uomo subordinata alla sua autonomia (chi è autonomo è trattato meglio degli altri).
La disabilità nel feto ha dunque la caratteristica di essere subordinata – in certe condizioni e in certe Legislature – al benessere completo dei genitori; la disabilità nel neonato, e in particolare nel prematuro, rischia di diventarlo presto per la pressione verso una “fetalizzazione” del neonato con conseguente congelamento dei diritti legati alla nascita, congelamento richiesto di recente da vari filosofi.