Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa Anno IX
Verona luglio-settembre 2013 n. 3
Riflessioni morali sull’imposizione fiscale nella attuale recessione
Ferdinando Leotta (*)
Dirigente dell’Agenzia delle Entrate Roma
La crisi economica mondiale, innescata nel 2006 negli USA – a seguito dei mancati pagamenti delle rate di mutui sub prime, al tempo non valutabile anche dai più autorevoli analisti – in questi sette anni si è gravemente manifestata in tutta l’economia occidentale tanto da essere definita dal Centro Studi della Confindustria, con particolare riferimento all’Italia, la crisi peggiore della storia [1].
In tale situazione, le esigenze di tutela dell’Euro hanno portato alla sottoscrizione di un patto di bilancio, approvato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 Stati membri dell’Unione europea ed entrato in vigore il 1º gennaio 2013. Un fiscal compact andava sottoscritto perché, sebbene la maggioranza degli Stati membri dell’Unione europea partecipi all’unione economica e monetaria, basata sulla moneta unica, le decisioni riguardanti le tasse e la spesa pubblica sono rimaste di competenza dei governi nazionali. La difesa dell’Euro esigeva pertanto un’unione fiscale tra Stati indipendenti, un patto fiscale per il pareggio di bilancio.
Analoga esigenza hanno rilevato altri Paesi occidentali estranei all’Euro e analoghe misure di vincolo alla spesa pubblica ha preso il governo del Presidente Obama.
Tutti i Paesi che si riconoscono nella logica del fiscal compact si impegnano per il controllo della spesa e dell’incremento delle entrate pubbliche. Impegno particolarmente doloroso e rischioso in tempi di recessione, come hanno evidenziato economisti di tutto il mondo [2]. In via generale si è osservato che in tempi di recessione fissare un tetto rigido della spesa pubblica potrebbe avere effetti perversi, poiché nei momenti di difficoltà diminuisce il gettito fiscale, per concomitante diminuzione del PIL, mentre aumentano alcune spese pubbliche, tra cui i sussidi di disoccupazione.
È ben vero che questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit pubblico, ma, limitando la contrazione del reddito disponibile e quindi del potere di acquisto, influiscono positivamente sui consumi. Nell’attuale fase dell’economia, continuano i critici del fiscal compact, è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale, necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa economica già di per sé debole.
Il fiscal compact, imposto in tempi di recessione, può accrescere la sperequazione, genera divisione sociale e quindi pone domande tutt’altro che teoriche di ordine etico sull’economia, sulla finanza pubblica e privata, nonché sulla responsabilità morale nel pagamento dei tributi e nelle decisioni di spesa [3].
Interrogativi etici in materia fiscale. La premessa della Dottrina sociale cattolica.
Nella prolusione di apertura dei lavori del Consiglio della CEI, il 23 gennaio 2012, il Cardinale Angelo Bagnasco ricordava: «Evadere le tasse è peccato». E aggiungeva: «Se evadere le tasse è peccato, per un soggetto religioso questo è addirittura motivo di scandalo». Sul settimanale Famiglia Cristiana, il 12 febbraio 2012, il teologo Lorenzetti sosteneva che è giusto denunciare i grandi evasori fiscali, purché la denuncia sia firmata; sulla stessa rivista l’11 marzo 2012, il direttore, intitolava la risposta a due lettori: «Non assolvo chi non paga le tasse».
Toni forti li aveva già usati Tommaso Padoa-Schioppa che, presentando il disegno di legge finanziaria per il 2007, aveva denunciato la violazione del VII comandamento da parte dei cittadini evasori. Gli aveva fatto eco Romano Prodi, lamentando che il tema dell’evasione fiscale non era «quasi mai toccato nelle omelie» [4]. Il Cardinale Tarcisio Bertone, intervistato a Rimini nel 2007, alla XXVIII edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, ricordava il dovere di pagare le tasse secondo leggi giuste.
La correlazione tra la rilevanza morale dell’adempimento tributario e la giusta imposta, richiamata dal Cardinale Bertone, è costante nel magistero sociale; la si ritrova, ad esempio, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes5. Tale requisito è stato recentemente sottolineato dall’Arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte [6]. Benedetto XVI, che aveva fatto cenno al problema in due udienze generali del 2007, ha dedicato al tema della finanza pubblica alcuni passaggi della Caritas in veritate, sollecitando un ripensamento sul ruolo dello Stato e proponendo una fiscalità sussidiaria.
Un contributo alla riflessione sulla questione fiscale fu offerto anni addietro dalla Diocesi di Milano. Nella pubblicazione si legge: «La questione fiscale è una delle questioni più complesse e ardue da affrontare, è tema che rimanda alla stessa concezione della società, dello Stato, della democrazia» [7].
Analoga opinione ha espresso il responsabile del Dipartimento economico della CGIL: «Dietro alle diverse discussioni che si fanno sul fisco ci sono però, oltre a interessi contrapposti e aspetti pratici, visioni ideologiche e concettuali che riguardano un nesso più profondo: quello tra proprietà, individuo e Stato» [8].
È affermazione condivisa dagli studiosi di teologia morale sociale che il problema delle tasse giuste si distingue, tra i vari temi etici, per la sua difficoltà e vastità. La ragione della complessità sta nel fatto che non risulta facile formulare un giudizio sull’eticità di certe situazioni, in virtù delle molteplici condizioni che vi concorrono [9]. In altre parole non si può stabilire una volta per tutte la pratica misura della giusta imposta, poiché la legittima pretesa tributaria può variare in funzione delle concrete esigenze della comunità politica. Di conseguenza la cogenza morale dell’obbligazione tributaria può variare a seconda delle esigenze di solidarietà sociale.
Per contro, va subito detto che non può bastare la fiscalità a far fronte a tutte le esigenze di solidarietà né a risolvere l’eccezionale gravità dei problemi legati alla depressione mondiale. Inoltre va tenuto presente che la politica fiscale non si risolve nella determinazione di aliquote, ma ci interpella sulla destinazione universale dei beni, sulla sua coniugabilità con il diritto di proprietà privata, sul ruolo e sulle funzioni dello Stato.
La crisi economica mondiale, spesso assimilata ad una tempesta perfetta, ha portato al pettine tutti i nodi. La crisi fiscale, la disoccupazione, la delocalizzazione dei capitali e del lavoro, l’anarchia e l’irrazionalità delle decisioni di spesa non sono che alcuni di questi nodi, ai quali altri si affiancano, solo in apparenza estranei all’economia, quali l’oblio dei valori tradizionali, il disconoscimento di diritti non negoziabili, la crisi della famiglia e quella antropologica. Sono tutti fenomeni di un’unica, universale crisi.
Muovendo da questa consapevolezza, la Dottrina sociale della Chiesa non intende offrire soluzioni tecniche concrete, ma propone principi di riflessione, formula criteri di giudizio, offre orientamenti per l’azione e, coniugando interdisciplinarietà e unitarietà del sapere, rimette l’uomo al centro, secondo la prospettiva di un umanesimo cristiano. Premessa irrinunciabile.
La Dottrina sociale delle Chiesa e il fisco. Principi generali.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica contiene un espresso riferimento al tema dell’imposizione fiscale nella Parte III, relativa ai dieci comandamenti. Nel commento al IV comandamento, “Onora tuo Padre e tua Madre”, si prescrive di riservare il giusto onore a quanti, per il bene di tutti, ricevono da Dio un’autorità nella società; quindi si richiamano i doveri sia di chi è preposto all’esercizio dell’autorità, sia dei consociati. Poco dopo si legge: «La sottomissione all’autorità e la corresponsabilità nel bene comune comportano l’esigenza morale del versamento delle imposte».
Nel commento al VII comandamento, “Non rubare”, si considerano tra i comportamenti illeciti la frode fiscale, le spese eccessive, lo sperpero. Il VII comandamento garantisce in primo luogo il rispetto della giustizia equiparativa – o commutativa – che regola i rapporti giuridici da individuo a individuo.
L’obbligazione tributaria ha quindi un duplice fondamento di giustizia: non solo la giustizia legale, che riguarda la condotta dei privati rispetto al bene comune, ma anche la giustizia distributiva, che l’autorità pubblica amministra a favore dei cittadini. Il Catechismo della Chiesa Cattolica contiene, riguardo al VII comandamento, un diretto richiamo alla Dottrina sociale della Chiesa, che, si è ricordato, «propone principi di riflessione, formula criteri di giudizio, offre orientamenti per l’azione» [10]. Nel far questo si giova dei contributi conoscitivi provenienti da qualunque sapere, secondo una prospettiva interdisciplinare, nonché di unitarietà del sapere stesso.
Essendo il Magistero sociale della Chiesa un corpo dottrinale sparso in moltissimi documenti, nel 2004 il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace pubblicava il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, seguito, l’anno successivo, a cura dello stesso dicastero, dal Dizionario di dottrina sociale della Chiesa.
In quest’ultimo, alla voce “Politica fiscale”, si trovano riassunti i principi della giusta imposizione fiscale, la cui ragione ultima, la cosiddetta causa impositionis, risiede nell’ «insufficienza della singola creatura umana a soddisfare da sola i propri bisogni materiali e spirituali» e individua nella convivenza con gli altri e nella comunicazione della conoscenza e dell’amore gli elementi basilari delle società politiche. È dunque sulla base di questa premessa che si riconosce allo Stato un diritto naturale d’imposizione fiscale.
Tale diritto si fonda su alcuni principi generali:
a) il bene comune, per cui ogni cittadino ha il dovere di contribuire alla spesa pubblica in misura proporzionale alla sua capacità;
b) la destinazione universale dei beni della terra, che esige una redistribuzione dei beni terreni in modo equo e fraterno;
c) la solidarietà, per cui ognuno è responsabile del bene integrale di tutti gli altri; a tale responsabilità si ottempera – in parte – mediante i servizi che elargisce lo Stato [11].
Il prioritario riferimento al bene comune ne richiede la definizione, che nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes è così formulata: «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» [12].
La politica fiscale – prosegue il Pontificio Consiglio – dovrà, quindi, tenere nel debito conto il diritto dello Stato a riscuotere le tasse secondo una legge giusta. Tale diritto non è illimitato; la legge fiscale dovrà anche rispettare l’equità, facendo in modo che il carico fiscale sia distribuito secondo le reali possibilità delle persone e dei gruppi e astenendosi dall’«imporre una pressione fiscale dannosa per le iniziative private o che stimoli l’evasione fiscale».
Il rispetto del contribuente da parte dello Stato, infine, comporta che si offra ai consociati la possibilità di contestare le tasse che essi considerano ingiuste, garantendo in questo modo il principio del contradditorio. Una corretta politica finanziaria deve interessarsi della famiglia, cellula vitale della società. A tal fine è irrinunciabile una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, senza moltiplicare l’apparato burocratico e senza convertire lo Stato in Stato assistenziale.
Sul punto era già intervenuta molto chiaramente la Centesimus annus. La Caritas in veritate, a sua volta, ha fornito un suggerimento concreto in relazione al principio di sussidiarietà con l’innovativo concetto di sussidiarietà fiscale. Questa consiste, in estrema sintesi, nel consentire ai contribuenti, sotto il controllo dell’autorità pubblica, di destinare le loro risorse a scopi scelti fruendo di detrazioni e deduzioni.
Alla luce di quanto fin qui esposto, emerge che l’evasione è peccato solo in presenza di giusta imposizione; in caso di violazione della norma tributaria, se di principio viene negata la giusta imposta, ci può essere solo addebito legale.
Il disconoscimento teorico della giusta imposta quale esempio di dittatura del relativismo.
La giusta imposta, richiamata dalla teologia morale, non è solo un problema di religione, è soprattutto una priorità del buon governo. Infatti, come rilevava Luigi Vittorio Berliri, «solo un giusto sistema d’imposte ha sufficienti probabilità di raggiungere un soddisfacente grado di pratica efficienza» [13].
Tuttavia, continua Berliri, «economisti e politici si dichiarano concordi nel pensare che della giustizia o ingiustizia dell’imposta debba la loro scienza disinteressarsi, mentre i giuristi vantano da parte loro come l’ultimo progresso dei loro studi l’esser giunti a definire l’imposta come pura e astratta “manifestazione della sovranità finanziaria dello Stato”. Ed economisti, politici e giuristi finiscono a concludere, inter se o ex cathedra, che la giusta imposta non esiste».
Il disconoscimento della giusta imposta da parte dei giuristi deriva da una visione ideologica, da una concezione etica e giusfilosofica che trova i suoi prodromi nell’idealismo tedesco, in particolare nel pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), il quale propugnò la dottrina dello Stato etico, onnipervasivo della società. «Secondo Hegel – nota Nicola Abbagnano – il fine della condotta umana […] è lo Stato. Perciò l’Etica è per Hegel una filosofia del diritto. Lo Stato è “la totalità etica”, Dio che si è realizzato nel mondo. Lo Stato è il culmine di quella che Hegel chiama “eticità” […] cioè la moralità che trova corpo e sostanza in istituzioni storiche che la garantiscono» [14].
Questa idea della morale e dello Stato ha trasformato, si potrebbe dire alchemicamente, la legalità in religione civile. Ha quindi inciso profondamente sulla teoria dei diritti pubblici soggettivi, nonché su quelli corrispondenti dei sudditi, per lungo tempo derubricati in interessi legittimi [15].
Grazie alla teoria idealistica dei diritti pubblici soggettivi, si è potuto affermare che «l’imposta ha come carattere distintivo la mancanza di una causa specifica giustificatrice dell’obbligazione che non sia la soggezione alla “potestà di imperio” originaria o delegata dall’ente pubblico» [16], in contrapposizione con quanti (pochi!), rifacendosi ad un’impostazione più giusnaturalistica, non hanno rinunciato a cercare la justa causa impositionis quale funzione economica o sociale del tributo.
Il divieto scientifico, denunciato da Berliri, di fare domande sulla justa causa impositionis si radica, dunque, «nel positivismo giuridico che invade gli insegnamenti del diritto fin dalle facoltà giuridiche, manifestandosi poi nei corpi legislativi, per confluire infine negli atti discrezionali dell’esecutivo» [17]. Tale divieto è espressione della dittatura del relativismo [18], che nel campo politico e legislativo trova il sostegno dell’assoluto positivismo giuridico, che nega la legge naturale […], nega la realtà sulla natura della persona umana [19].
Il tema dei rapporti tra diritto positivo e legge naturale è stato ribadito con forza da Benedetto XVI in occasione della visita al Bundestag di Berlino, il 22 settembre 2011: «La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace.
Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto.
Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”, ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto, era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio».
Queste considerazioni sono essenziali per la corretta comprensione della justa causa impositionis e dei suoi requisiti.
La ricerca dei requisiti della giusta imposta nella legislazione vigente.
La giusta imposta, secondo l’insegnamento sociale della Chiesa, deve possedere i seguenti requisiti:
– la proporzionalità e l’equità: il carico fiscale deve essere distribuito secondo le reali possibilità dei contribuenti, trattando in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni differenti;
– la non eccessività della pretesa: non si deve imporre una pressione fiscale dannosa per le iniziative private o che stimoli l’evasione fiscale;
– il rispetto del principio di sussidiarietà: la gestione della cosa pubblica non deve moltiplicare l’apparato burocratico né convertire lo Stato in Stato assistenziale;
– la contestabilità della pretesa impositiva: devono essere garantiti, sul fronte delle entrate, il diritto al contradditorio e la tutela giurisdizionale e, sul fronte della spesa, una trasparente amministrazione del denaro pubblico.
Una volta individuati in astratto i requisiti della giusta imposizione, occorrerà verificarne il concreto rispetto nella legislazione vigente nei vari ordinamenti.
Il principio di proporzionalità è stato recepito, ad esempio, nell’art. 53 comma 1 della Costituzione della Repubblica Italiana, secondo cui «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Tuttavia, come gli studiosi della materia sanno bene, il primo comma dell’art. 53 è di chiarezza solo apparente.
Negli ultimi decenni è stato infatti diversamente letto e applicato, al punto da figurare talvolta svuotato di un preciso contenuto, a causa di una interpretazione che ha assorbito il principio della capacità contributiva nel principio di eguaglianza, partendo dal presupposto che i tributi hanno come prima finalità la ridistribuzione della ricchezza, più nobile rispetto alla funzione meramente corrispettiva [20].
Corollario di questa impostazione è l’inevitabile affievolimento della proprietà che, ricorda anche la Dottrina sociale, è un diritto preistituzionale tipico della persona. Le conseguenze dell’interpretazione progressiva della capacità contributiva, unita al principio positivistico che il legislatore fiscale sarebbe libero di ripartire i carichi pubblici scegliendo i presupposti di imposizione secondo le sue autonome valutazioni di rilevanza sociale e di virtualità economica, si riflettono sulla pressione fiscale, che non di rado supera il 50% del reddito effettivo [21], contraddicendo anche il secondo requisito della giusta imposta: la non eccessività della pretesa impositiva.
Simili livelli di prelievo, oltre a porre seri interrogativi sulla moralità dell’imposizione, legittimano l’interrogativo: «Esiste un limite, costituzionalmente presidiato, varcato il quale un’imposta diventa illegittima perché eccessiva, espropriativa, ecc. ecc.?» [22]. Non si tratta purtroppo di un interrogativo meramente teorico, ma assolutamente concreto se solo si pone attenzione all’incidenza dell’IRAP sui bilanci delle imprese o ai meccanismi della fiscalità immobiliare, che prevede la tassazione di un reddito virtuale di immobili sfitti, la indeducibilità dal reddito fondiario dei costi di manutenzione e di risanamento degli immobili ad uso diverso da quello abitativo, nonché la notissima gravosa imposta patrimoniale chiamata IMU.
In molti di questi casi siamo di fronte ad una vera e propria fiscalità confiscatoria, poiché il tasso impositivo globale è talmente elevato da costringere il contribuente, non bastando il suo reddito disponibile, a mutilare il proprio patrimonio per soddisfare l’obbligazione tributaria [23].
Simili modelli fiscali non possono essere considerati moralmente vincolanti neppure invocando le esigenze di contenimento del deficit pubblico, perché, secondo la Dottrina sociale cattolica, l’«imposta non può mai essere trasformata da parte dei pubblici poteri in un comodo strumento per estinguere il disavanzo causato da un’amministrazione imprudente» [24].
La giustizia fiscale, come si è detto, esige anche il rispetto del principio di sussidiarietà, cioè la gestione della cosa pubblica senza moltiplicare l’apparato burocratico e senza convertire lo Stato in Stato assistenziale [25].
Nella Centesimus annus, definita la Magna Charta della Dottrina sociale [26], si considera ampiamente il ruolo dello Stato nel settore dell’economia. Certamente l’economia di mercato non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Il principale compito dello Stato, infatti, è quello di garantire la sicurezza, di modo che chi lavora e produce possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà.
Di conseguenza viene il compito di sorveglianza e di guida nell’esercizio dei diritti nel settore economico; tuttavia la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società. Fermo restando che lo Stato può intervenire qualora situazioni particolari di monopolio creino ostacoli allo sviluppo, nel documento si sottolinea che allo stesso competono vere e proprie funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito.
Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile.
La propensione all’ampliamento della sfera d’influenza dello Stato, che si pone alle origini del cosiddetto Stato del benessere, non sempre si è rivelata opportuna e rispettosa dei singoli e delle comunità, né adeguatamente efficiente.
La Dottrina sociale della Chiesa ribadisce, pertanto, l’importanza del principio di sussidiarietà, secondo cui una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese» [27].
Molti anni prima, nel 1948, Pio XII, ricevendo in udienza i partecipanti al Congresso dell’International Fiscal Association, aveva già rilevato che l’aumento dei bisogni finanziari delle nazioni non risiedeva solo nelle tensioni interne ed internazionali ma anche e, per certi aspetti, soprattutto, nella crescita incontrollata delle funzioni statali «dettata troppo spesso da ideologie false o malsane» [28], totalmente distanti dal servizio del bene della comunità. Il Pontefice indicava, già allora, nella mancanza di principi fondamentali chiari, semplici e solidi, la causa della caduta della scienza e della politica delle finanze al piano di una tecnica e di una manipolazione puramente formali.
Anche nell’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, nei paragrafi dedicati alla revisione delle politiche di assistenza e di solidarietà sociale, si richiama il principio di sussidiarietà e si suggerisce l’attivazione di sistemi previdenziali integrati dalla partecipazione dei privati [29].
L’ultimo requisito della giusta imposizione riguarda la trasparenza amministrativa e il diritto di contestare le tasse ingiuste. Con l’espressione “diritto di contestare le tasse ingiuste” s’intende il diritto dei contribuenti alla difesa giurisdizionale e amministrativa rispetto alla pretesa impositiva, nonché la libertà di pensiero nell’esternare le ragioni culturali e politiche del proprio dissenso verso una determinata imposizione tributaria.
Sul fronte delle entrate la trasparenza esige la semplicità nella normazione, la conoscenza dei criteri selettivi di controllo, l’adeguata motivazione dei provvedimenti, il rispetto del contraddittorio e dell’onere della prova, l’uso corretto delle presunzioni. La trasparenza della fiscalità interessa anche le decisioni di spesa, per garantire che, in virtù di un’oculata amministrazione, si evitino sperperi dannosi e si persegua il bene comune. La trasparenza, come facilmente si comprende, è aspetto strettamente connesso alla moralità dell’imposizione.
Una luce di speranza
In relazione all’attuale depressione è stata spesso richiamata alla memoria collettiva la tragedia del Titanic. Quelle immagini aiutano a comprendere anche i sacrifici oggi richiesti. Nelle circostanze disperate di un naufragio, i diritti dei proprietari possono essere infatti legittimamente compressi, financo all’espropriazione. Deve, però, trattarsi di una misura eccezionale e temporanea. Cessata l’emergenza, i diritti preistituzionali della persona, come la proprietà privata, devono potersi di nuovo espandere. La depressione non deve dunque essere una via al socialismo.
La tragedia del 1912, che ha in un certo senso inaugurato Il secolo del male [30], aiuta a comprendere che la crisi della finanza pubblica e privata e l’oppressione fiscale sono la punta di un iceberg, la parte visibile di una crisi unica e universale, propria di un disegno antropologico prometeico e di un modello di “Stato Leviatano”.
Ma quella tragedia ha anche un valore profetico di speranza, a condizione che i governanti dell’Europa non si ostinino a procedere sulle rotte del relativismo e dell’utopia e ritornino sulla via della legge naturale, guidati dalla Stella Maris.
(*) A richiesta dell’Autore si precisa che il contenuto dell’articolo rappresenta le riflessioni dello stesso e non impegna l’Agenzia delle Entrate.[1] C. Fotina, È la crisi peggiore della storia, «Il Sole 24 Ore», 13 aprile 2013.
[2] S. Cesaratto, Trecento economisti per salvare l’Europa, «Il Riformista», 19 novembre 2011; R. Festa, Cinque Premi Nobel: “Pareggio di bilancio? Una camicia di forza per l’economia”, «Il Fatto Quotidiano», 14 marzo 2012. [3] Più equità meno Stato, «L’Osservatore Romano», 9 novembre 2011. [4] Prodi: nelle omelie mai una parole sulle tasse, Corriere della Sera, 1° agosto 2007 [5] Paolo VI, Gaudium et spes, 30. [6] B. Forte, Pagare le tasse è un dovere etico, purché siano eque, Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2012. [7] Commissione Diocesana Giustizia e Pace della Diocesi di Milano, Sulla questione fiscale. Contributo alla riflessione, Centro ambrosiano, Milano 2000, p. 5. [8] B. Lapadula, Il cavaliere e le tasse, Ediesse, Roma 2008, p. 11. [9] A. Fernández, Teología moral. Moral social, economica y politica, 3° edizione, vol. III, Facultad de Teología del Norte de España, Sede de Burgos, Madrid 2001, p. 752. [10] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2423. [11] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, op. cit., voce “Politica fiscale”, p. 618. [12] Paolo VI, Gaudium et spes, 26. [13] L. V. Berliri, La giusta imposta. Appunti per un sistema giuridico della pubblica contribuzione. Lineamenti di riforma organica della finanza ordinaria, con Prefazione di Luigi Einaudi, Giuffré, Milano 1975, p.2. Il testo da cui si cita è la ristampa inalterata dell’edizione apparsa nella Collana della Ricostruzione dell’annuario di diritto comparato e di studi legislativi, III serie (Speciale), vol. XIX, fascicolo 3, Edizione dell’Istituto di studi legislativi, 1945. [14] N. Abbagnano (1901- 1990), Dizionario di filosofia, III edizione aggiornata e ampliata da Giovanni Fornero, UTET Libreria, Torino 2001, voce “Etica”, pp. 437-446 (p. 438). [15] Sarebbe proprio da questa impostazione di principio, è stato osservato da Franco Gallo – ordinario di Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli, nonché Presidente della Corte Costituzionale – che si fonderebbe la divergenza tra la scuola tedesca e le coeve teorie d’ispirazione anglosassone (F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, il Mulino, Bologna 2007, pp. 23-24, n. 7). [16] A. D. Giannini, Il rapporto giuridico di imposta, Giuffré, Milano 1937, p. 1 e ss., cit. in F. Gallo, op. cit., p.25, n. 10. [17] G. Higuera Udias S.J., Etica fiscal, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1982, p. 36 [18] J. Ratzinger, Omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice, celebrata presso la Basilica di San Pietro, «L’Osservatore Romano», 19 aprile 2005. [19] In questo senso si è espresso, il Cardinale Julián Herranz, Presidente emerito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi e Presidente della Commissione disciplinare della Curia Romana, in una conferenza in omaggio a Papa Benedetto XVI, che l’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede ha offerto per il suo ottantesimo compleanno e per il secondo anniversario della sua elezione alla sede petrina, Cit. in Tre sfide mostrano la personalità di Joseph Ratzinger come Padre della Chiesa (ZI07060112), «Zenit. org», 1 giugno 2007. [20] G. Marongiu, La crisi del principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte costituzionale dell’ultimo decennio, in Diritto e Pratica Tributaria, parte I, Cedam, Padova 1999, pp. 1757-1775. [21] F. Gallo, op. cit., p.17, ma anche R. Roggeri, Il total tax rate è arrivato al 68,6%, «Italia Oggi», 21 gennaio 2012. [22] G. Marongiu, op. cit., p. 1773. [23] P.-M. Gaudemet, Les Protections constitutionnelles et légales contre les impositions confiscatoires, «Revue internationale de droit comparé» 2 (aprilegiugno 1990) 42, pp. 805-813 (p. 808). [24] Pio XII, Discorso al X Congresso dell’Associazione Fiscale Internazionale, indetto a Roma dal 1° al 5 ottobre 1956, del 2 ottobre 1956, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVIII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1957, pp. 505- 510 (pp. 508-509). [25] F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Cedam, Padova 2001, pp. 67-119. [26] G. Crepaldi – S. Fontana, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa. Uno studio sul Magistero, Cantagalli, Siena 2006, p. 53. [27] Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 48 [28] Pio XII, Ai Congressisti dell’Istituto Internazionale di Finanze Pubbliche, 2 ottobre 1948, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. X, op. cit., pp. 237-241 (p. 240). [29] Benedetto XVI, Caritas in veritate, 60. [30] A. Besançon, Novecento il Secolo del male, Ideazione Editrice, Roma 2000. |