Osservatorio Internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa
Newsletter n.946 del 14 dicembre 2018
di Silvio Brachetta
L’uomo religioso, per i medievali, è innanzi tutto homo viator, il peregrinus, cioè colui che va per agros, per le campagne al di fuori della città. È colui che percorre la strada della conversione e della penitenza. È colui che esce dalla città degli uomini per andare verso la città santa di Dio. E proprio Sant’Agostino nella sua opera De Civitate Dei, descrive le caratteristiche delle due città, la terrena e la celeste.
I pellegrinaggi, propriamente detti, nascono proprio nel Medioevo e sono di tipo religioso, da parte di coloro che si sentono “cittadini” del Regno dei Cieli, della santa città della Gerusalemme celeste. L’homo viator è sì interessato alla salvezza personale e ad un rapporto con il Dio della preghiera in segreto, ma questo non gl’impedisce di sentirsi inserito in una sorta di cittadinanza celeste, in un ambito sociale che non si esaurisce nella polis del mondo.
L’uomo medievale sa di essere parte nobile in un mondo ordinato, a modello dell’ordine che vi è tra le gerarchie angeliche, ad esempio. L’uomo è un microcosmo a modello del macrocosmo, dove però per macrocosmo non s’intende il mero universo fisico, ma l’universo retto dalle potenze angeliche. C’è una gerarchia tra le cose e le persone, che è retta dalla provvidenza divina.
Anche gli stati moderni sono, in un certo senso ordinati, ma nella società medievale (nella Cristianità) l’ordine era assicurato dall’apice, dal capo, che era Dio. Non era necessario ricordare al medievale che vi è una regalità sociale di Gesù Cristo (uno dei capisaldi della dottrina sociale della Chiesa), oltre che spirituale sul singolo, perché era del tutto spontaneo rivolgere gli occhi al cielo.
Il peccato originale
Come nella struttura delle grandi opere teologiche di Tommaso d’Aquino, di Alberto Magno, di Alessandro di Hales o di Bonaventura da Bagnoregio, la convinzione dell’uomo medievale era fondata su di un semplice assunto: tutto proveniva da Dio (fonte) e tutto tornava a Dio (fine). Vi erano sì differenze di mezzi, di vocazioni, di capacità – esattamente come oggi – ma non vi era differenza di fini. Questo permetteva di contenere il male, di circoscriverlo. Oggi c’è un caos: alla differenza dei mezzi segue la differenza dei fini. Ognuno fa quel che vuole per andare dove vuole, senza conoscere o valutare un qualsiasi approdo.
Del tutto diverse le suggestioni della teologia dei Dottori medievali che, fino alla scolastica, respirava con due grandi polmoni: exitus e reditus – tutto esce da Dio e tutto torna a Dio. Al centro dell’antropologia vi era il dogma relativo al peccato originale. L’homo viator non viaggia solo dalla città terrena alla città di Dio, ma passa dalla natura ferita dal peccato alla natura riparata dalla penitenza e dalla grazia. Questo è un punto importante della teologia di san Bonaventura.
La verità circa il peccato originale va a toccare non solo l’aspetto individuale della persona, ma soprattutto quello comunitario. Il peccato, infatti, è l’infrazione dei Comandamenti, del Decalogo. È il male fatto agli altri. Se dunque il Decalogo è l’espressione privilegiata della legge naturale umana, la dottrina sociale naturale e cristiana è «riproposizione e commento del Decalogo», scrive Giovanni Cantoni in un suo studio [1]. Non solo, ma Cantoni cita san Bonaventura e il suo Commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo: «benché accessibili alla sola ragione, i precetti del Decalogo sono stati rivelati perché “una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese necessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata”» [2].
Beni, ricchezze e bene comune
Con l’incremento della navigazione in tutto il Mediterraneo, la società medievale si fa più opulenta, soprattutto durante il XIII secolo. A parte le situazioni d’indigenza, non è inconsueto che, accanto ai beni necessari, si metta da parte anche il superfluo. Come osserva Oreste Bazzichi, accanto quindi all’antico vizio della superbia, come radice di tutti i mali, si affianca il vizio altrettanto riprovevole dell’avarizia (cupiditas)[3]. Non viene affatto negato il diritto alla proprietà privata, ma si stigmatizza la schiavitù mondana del possesso. Tutto questo polarizzarsi sull’avarizia avrà risvolti sociali: non solo queste analisi teologiche faranno da base alla storia del pensiero economico, ma saranno affrontati anche i rischi dell’usura, del prestito ad interesse, del profitto, ecc…[4]
E da qui altre riflessioni: qual è la misura del necessario? Qual è il confine tra bisogni individualistici e bene comune? È da qua, dalla dimensione teologica, che nascono i grandi temi della Dottrina sociale della Chiesa: proprietà privata, economia, lavoro, bene comune
In particolare, riassumendo il pensiero bonaventuriano nel merito, scrive Bazzichi: «La società bonaventuriana [ma medievale in generale, ndr] è una società teocratica o monarchico-teocratica, gerarchizzata, con significativo spazio alla partecipazione del popolo soprattutto mediante le forme associative. È una società alla cui base c’è un concetto di «uomo virtuoso» che, prima di costruire le strutture sociali efficienti, si fa «rettore» di se stesso (Hex., coll. VI, nr. 29, p. 364).
Bonaventura intende, infatti, la vita sociale dell’uomo come un esercizio della perfezione cristiana. Insiste, quindi, sulla pratica delle virtù sia teologali sia cardinali, considerandole come virtù sociali perché perfezionano l’uomo anche nel sociale.
Richiamandosi all’ordine esistente nel mondo sensibile, egli parla di una società come di un organismo «ordinato» nel quale tutti i membri vivono e agiscono in armonia e perfetta intesa, e collaborano alla realizzazione di un disegno comune, dove convivono tre gerarchie diverse (tre classi sociali, si direbbe oggi): la gerarchia monastica, la gerarchia clericale e la gerarchia laicale (coll. XXII, nn. 16-17, p. 440)» [5].
E conclude: «Appartiene alla gerarchia laicale anche lo Stato che, nella sua struttura gerarchico-organizzativa, deve soddisfare le necessità dell’uomo. Lo scopo fondamentale dello Stato è il bene comune; ed è suo dovere promuovere ciò che è utile ai cittadini, assicurando armonia, benessere e pace (coll. V, nn. 14-20, pp. 356 e segg.; coll. XXIII, nr. 18, p. 440).
Il pensiero sociale bonaventuriano svela, dunque, un assunto fondamentale: il francescanesimo non è solo prassi ascetico-mistica, né solo una filosofia e una teologia, ma è anche una progressiva metodologia etico-economica che ha contribuito a dare una forte accelerazione al sistema sociale e allo sviluppo economico e civile, i cui fondamentali principi conservano ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, tutta la loro attualità» [6].
Da qua si comprende più a fondo quale sia la vera essenza della Dottrina sociale della Chiesa: essa è una teologia morale ed è un sapere che si traduce in prassi.
La ricchezza come bene sociale
È soprattutto san Tommaso (non Bonaventura) a codificare sistematicamente una dottrina economica e politica, che rispecchia però le grandi linee della concezione sociale dei medievali e, più in generale, della dottrina sociale della Chiesa. Secondo un breve saggio di Attilio Jozzelli [7], i fondamenti economici nel XIII secolo traevano linfa dal principio secondo il quale i beni e le ricchezze non sono un male, ma «debbono servire per aiutare l’uomo nel raggiungimento di quello che è il suo vero fine: la felicità eterna in Dio» [8].
Da questo principio derivano tre conseguenze, scrive Jozzelli: che «le ricchezze sono per l’uomo degli strumenti»; che esse ricchezze «non hanno, né debbono avere per l’uomo valore individualistico, bensì sociale»; e che «ogni qualvolta l’uomo viene in contatto con i beni […] il fatto economico da lui messo in essere e il modo con cui egli lo compie, non abbia a pregiudicare il suo fine ultimo, ma anzi lo aiuti ad avvicinarsi ad esso» [9].
Certamente non è facile all’uomo trovare una sintesi tra il legittimo possesso dei beni e l’abbandono dell’avarizia e dell’individualismo egoista, a causa appunto del peccato originale, che ha ferito la natura umana. E, tuttavia, san Tommaso e gli scolastici «pongono a fianco dell’uomo, proprio al fine di aiutarlo» nella costruzione dell’ordine sociale ideale, «quattro istituzioni» ben note: «la Chiesa, lo Stato, la famiglia e l’organizzazione professionale» [10]. Quest’ultima è rappresentata dalle formazioni medievali delle corporazioni di arti e mestieri
La via delle virtù
La Società medievale aveva nel proprio orizzonte lo sviluppo di un’etica delle virtù. C’è una grande parte, ad esempio, della Summa Theologiae di san Tommaso che tratta delle virtù. Nella dottrina sociale della Chiesa le virtù hanno una grande importanza: specialmente le virtù della carità, della solidarietà e della giustizia, che sono anche virtù sociali, oltre che individuali. Nella sola Rerum novarum – l’Enciclica di papa Leone XIII (1891) – il termine virtù compare quattordici volte.
A questo proposito, scrive Leone XIII: «Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine» [11].
Con la morte però di san Tommaso e di san Bonaventura (1274) e la fine della Scolastica, tramonta gradualmente anche l’interesse per la virtù. L’etica o la morale delle virtù si oppone all’etica moderna, dalla quale scaturiscono invece l’etica dell’indifferenza, che porterà al liberalismo e all’anarchismo e l’ etica del dovere, anticamera dell’«imperativo categorico»
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[1] Giovanni Cantoni, “La dottrina sociale della Chiesa: natura e storia”: http://alleanzacattolica.org/la-dottrina-sociale-della-chiesa-natura-e-storia/.
[2] Ivi.
[3] Cf. Oreste Bazzichi, voce: “Bonaventura da Bagnoregio”, paragrafo: “La dottrina sociale di san Bonaventura da Bagnoregio” in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Economia, Treccani, 2012.
[4] Cf. Ivi.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Attilio Jozzelli, “Pensiero economico e politico di San Bonaventura da Bagnoregio”, Doctor Seraphicus, Centro Studi Bonaventuriani, XX (1973) pp. 7-18.
[8] Ivi.
[9] Ivi.
[10] Ivi.
[11] Leone XIII, Lettera enciclica Rerum Novarum, 15/05/1891, n. 20