Dalle conversazioni intercettate tra una banda di spacciatori tunisini e una cellula jihadista emerge un mondo parallelo che vive per la guerra santa e sa come ottenere quel che vuole
di Luigi Amicone
Martedì 20 maggio è stato raggiunto da un’ennesima ordinanza di custodia cautelare. In carcere. Dove lui e sui fratello Hammadi stanno già scontando sei anni di reclusione per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo e immigrazione illegale aggravata dalla finalità di terrorismo.
Tra il 2006 e il 2007, avevano entrambi approfittato delle maglie larghe della giustizia italiana. E per una ragione o per l’altra (attesa di sentenza definitiva o indulto) erano riusciti a sottrarsi al carcere. Poi, agli inizi di quest’anno, erano finiti dietro le sbarre per associazione terroristica.
Ora sono anche accusati di traffico e spaccio di stupefacenti (eroina, cocaina, hashish, marijuana). L’indagine è stata coordinata dal pm Maurizio Romanelli e dal dirigente Digos Bruno Megale. Mentre l’ordinanza che, oltre ai Bouyahia già detenuti, il 20 maggio ha portato all’arresto di diciannove persone (altre quattro sono ricercate), per la maggior parte tunisini, è stata firmata dal gip Giuseppe Gennari.
E dire che l’indagine è nata per caso. Grazie all’“attenzione” che la Digos non ha mai smesso di riservare ai Bouyahia e a un altro paio di loro soci che puntualmente entravano e uscivano dalle patrie galere. Così, come si legge nell’ordinanza del gip, è stata scoperta «l’esistenza di una parallela associazione criminale, finalizzata al traffico di stupefacenti, alla quale partecipano i fratelli Bouyahia e Hamraoui Kamal, con il dichiarato intento di recuperare capitali da investire, verosimilmente, nella “missione” di fede».
Per il momento i magistrati hanno raccolto riscontri schiaccianti per il reato di traffico di droga. Ma non la pistola fumante dello spaccio finalizzato al jihad, la prova definitiva che le ingenti somme (uno degli arrestati aveva in casa 20 mila euro liquidi) servissero per finanziare le cellule internazionali del terrore islamico.
«Tuttavia il peculiare fenomeno del saldarsi di criminalità tradizionale con criminalità di matrice estremistica islamica – scrive il gip – rappresenta un risultato di assoluto rilievo e denota la capacità (e volontà) di soggetti come i Bouyahia e Hamraoui Kamal di contaminare la loro azione, mescolandosi a delinquenti comuni, pur di raccogliere rilevanti fondi da utilizzare e investire».
Sono ragazzi tosti questi tunisini. Fanno proselitismo e si abbeverano dei sermoni di imam come Yusuf al Qaradawi. Sono informati di come vanno le cose ai “fratelli” in Iraq e propagandano ai compagni di prigionia che «tutti i nostri fratelli che hanno abbracciato il jihad stanno vincendo».
Li consolano insegnando che «se il carcere serve per imparare a memoria il Corano, ben venga». E se mantengono dritta la barra della religione, il cuore della loro devozione sta nell’ideologia dell’odio e della guerra. Specie se l’infedele è il magistrato noto per le indagini antiterrorismo. «Dambruoso, Ramondini… sono proprio figli di cane… Dambruoso è un nemico di Dio… sarebbe più bello se uno gli tira di qua… Tak Tak». Ovvero una pistolettata.
Conoscono molto bene le leggi italiane e sanno sfruttare “per il bene della causa” tanto i rapporti di Amnesty International sul nostro paese quanto le procedure europee che consentono di bloccare le espulsioni dai paesi dell’Unione. «Noi non abbiamo nulla da perdere – si dicono senza sapere di essere intercettati – dobbiamo solo presentare una richiesta alla Corte europea».
Altrove Maher tranquillizza suo fratello sia per quanto riguarda l’assistenza sanitaria italiana («Perché non vai dal nostro fratello egiziano?». «No no, io vado all’ospedale gratuitamente»), sia per i buoni uffici dell’avvocatessa («Gliela blocca subito la sua espulsione… Mi ha detto che lei gli ha preparato tutto il suo fascicolo per il Tribunale della comunità europea, ma bisogna che prima lo arrestino, così lei può intervenire e mandare tutto alla Corte europea»).
E i Bouyahia possono contare su una efficiente rete europea alla quale rivolgersi per promuovere azioni presso la Corte e ottenere consulenza legale. Male che vada, per restare tranquilli in Italia ci si può sempre comprare una moglie. Magari pure con figlio a carico. «E Lotfi?», chiede l’intercettato Maher ad Hammadi riferendo di un “fratello” che ha difficoltà a rimanere legalmente nel nostro paese.
«È confuso, depresso – risponde Hammadi – tu non puoi trovargli una donna, magari con un figlio, che lui riconosce anche a pagamento? Anche se italiana va benissimo». «Posso vedere con una marocchina – dice Maher – ma anche a pagamento?». «Sì, sì, paga», conclude il fratello.
È sulla droga che ogni tanto cade anche l’islamista fervente. Interessante, ad esempio, che in un’intercettazione del 27 marzo 2007, quella in cui comincia a emergere lo strano connubio tra “guerra santa” e spaccio di eroina, uno dei fratelli, Hammadi, cerchi di convincere l’altro a non schifare la compagnia dei delinquenti comuni: «E non cominciare a dirmi che è peccato, che non va bene, che Dio punisce… non fare il filosofo con me… e non fare il moralista… questa è la regola, se c’è un progetto si fa con tutti ma ognuno ha il suo compito. Purtroppo è un momento così. Per favore, non dirmi né no no no, né sì sì sì, mi basta solo un sì… sì e basta!».
«Ci conoscono perfettamente»
Si capisce che il brodo di coltura in cui queste cellule prolificano è la strada, il carcere, la città della notte. Si muovono a loro agio nelle pieghe di una società di cui conoscono molto bene civiltà e garanzie giuridiche, ma che è stato loro insegnato a vivere con senso di frustrazione, separatezza, sguardo d’odio.
Dissimulano e si esercitano a rimanere freddi e tranquilli anche se presi come il gatto col topo in bocca. «Non immaginiamoci chissà quali organizzazioni», dice a Tempi il capo della Digos milanese Bruno Megale, uno dei numeri uno dell’antiterrorismo italiano. «Si tratta piuttosto di piccole cellule, organizzate artigianalmente, che vivono magari con quattro soldi, facendo non pochi sacrifici, quasi come asceti».
Il problema sono gli imam estremisti. Quelli che lavano il cervello ai giovani. «La pericolosità di questi piccoli nuclei sta nel fatto che hanno comunque reti e referenti in ogni parte del mondo. E si muovono con estrema facilità in Europa. Oggi in Italia, domani in Belgio, dopodomani a Parigi e poi di nuovo in Italia, tra Milano, Brescia, Pisa, come nel caso di questa banda, dimostrando un’ottima conoscenza del territorio e, soprattutto, essendo molto avvertiti non solo rispetto alle forze dell’ordine, ma anche sulle leggi, le abitudini e la mentalità degli italiani».
A proposito, cos’è l’Italia agli occhi dei tunisini della banda Bouyahia? Lo dicono loro stessi in una delle conversazioni intercettate: «L’Italia è il paese dei balocchi».
(A.C. Valdera)