Pubblichiamo di seguito, per la rubrica di Bioetica, la risposta alla domanda di un lettore da parte del dottor Renzo Puccetti, Specialista in Medicina Interna e Segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.
Grazie
Enrico Masini Rimini
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La richiesta del signor Enrico implica una risposta assai articolata.
Tutti i metodi contraccettivi possiedono una fallibilità che può essere intrinseca al metodo, oppure legata ad un uso non corretto di esso. Si suole distinguere in proposito la percentuale di fallimenti in condizioni di uso perfetto (fallimenti legati al metodo) da quella che si verifica nell’uso comune.
Entrambi i valori mostrano una certa variabilità sulla base dei risultati dei diversi studi.
Abitualmente il tasso di fallimenti di un metodo contraccettivo viene indicato come il numero di gravidanze per 100 donne che si affidano al metodo per un anno, avendo rapporti regolari. Ad esempio il Guttmacher Institute, un istituto di ricerca assai vicino alla Planned Parenthood (una delle maggiori organizzazioni abortiste a livello mondiale), assolutamente non annoverabile tra i simpatizzanti pro-life, indica per la pillola estroprogestinica un tasso di fallimenti dello 0,3% in caso di uso perfetto e dell’8% in riferimento all’uso tipico.
Tale divergenza si realizza per tutta una serie di comportamenti che determinano una riduzione di efficacia del metodo contraccettivo; per quanto attiene alla pillola anticoncezionale i più comuni sono la dimenticanza di una o più assunzioni, l’insorgenza di vomito, l’uso di altri farmaci o di preparati fitoterapici in grado d’interferire con l’assorbimento dei componenti del farmaco.
Un’idea di quanto possa essere ampia la variabilità dell’efficacia di un metodo in relazione al contesto geografico è offerta da un’analisi dei dati di 21 Paesi in merito alle gravidanze verificatesi nel primo anno di assunzione della pillola estroprogestinica: dall’1,7% del Bangladesh al 10,5% della Bolivia (Population Reports).
Il tasso di fallimenti non tiene conto poi della percentuale di donne che abbandonano il metodo: in tal caso l’eventuale gravidanza indesiderata viene annoverata tra quelle occorse in donne che non usano alcun metodo contraccettivo.
Questo modo di procedere non descrive compiutamente la realtà. In effetti molte donne compiono una serie di interruzioni nell’uso della contraccezione, talora per brevi intervalli, per poi ricominciare; vi sono inoltre donne che passano da un metodo all’altro (Trussell, 1999). In realtà se il comportamento sessuale condiziona la scelta del metodo contraccettivo, è altresì vero che talora lo stesso metodo contraccettivo ha influenza sul comportamento sessuale; anche per questa ragione i momenti di passaggio sono momenti di “vulnerabilità” non solo contraccettiva, ma anche sessuale, in quanto permane una traccia, una memoria, del comportamento contraccettivo precedente nel comportamento sessuale.
La donna che ha rapporti sessuali mentre assume la pillola, modifica solo parzialmente, o talora non modifica affatto, i propri comportamenti sessuali allorquando decide di sospendere (per un tempo più o meno prolungato) l’assunzione della pillola. La cosa può essere riferita non solamente alla donna, ma alla coppia nel suo insieme. Quindi gravidanze non desiderate e spesso abortite riferite a rapporti avvenuti in assenza di protezione contraccettiva sono spesso il risultato di queste dinamiche.
Volendo inserire dei numeri, è noto che già dopo sei mesi il 20% delle donne sospende l’assunzione della pillola, tale cifra sale al 30% ad un anno, per raggiungere il 50% dopo soli due anni (Trussell, 1999). I nuovi metodi di somministrazione ormonale, quali il cerotto o l’anello vaginale, non hanno fornito significativi miglioramenti a riguardo (Bakhru, 2006; Bjarnadottir, 2002). Nella evocata ed ipotizzata società contraccettiva perfetta tali comportamenti rappresentano una deviazione, altamente stigmatizzata, che comunque mostra “de facto” l’impossibilità di sconfiggere l’aborto attraverso il ricorso alla contraccezione. È ormai ammesso a tutti i livelli, anche dagli esperti su posizioni cosiddette “pro-choice”, che contraccezione e aborto non si elidono vicendevolmente, ma costituiscono elementi che si integrano per la programmazione e regolazione della fertilità.
È desolante leggere (ad esempio nelle trascrizioni delle sedute della commissione d’indagine parlamentare sullo stato di applicazione della legge 194, della scorsa legislatura) vari interventi completamente obnubilati dall’assioma “più contraccezione, meno aborti”; una posizione ideologica, per niente scientifica. La stessa fonte del Guttmacher Institute indica i tassi di fallimento del condom al 2 e 15% rispettivamente per l’uso perfetto e tipico. Anche in questo caso vi sono numerose variabili che influiscono sull’efficacia, ma è comunque un fatto che nessuno studio ha dimostrato che la diffusione del condom riduce il numero di gravidanze indesiderate o degli aborti.
Vi sono piuttosto indicazioni contrarie, come testimoniato dall’analisi dei dati forniti dal Centre for Disease Control (CDC) di Atlanta, da cui risulta che negli stati USA dove più è diffuso il ricorso al preservativo come metodo di contraccezione, lì si verificano più aborti. Questi fatti sono peraltro coerenti con l’assenza di studi che abbiano dimostrato la capacità di ridurre la diffusione dell’infezione da HIV attraverso la promozione della diffusione dei profilattici a livello di popolazione generale (non di particolari gruppi a rischio quali le prostitute, dove invece l’incremento dell’uso del profilattico si è associato ad una riduzione dei nuovi casi d’infezione).
Vi sono infatti evidenze di come le vendite di profilattici e l’infezione da HIV siano cresciute parallelamente in alcuni paesi africani (Kenya, Cameroon, Botswana) e come, fra l’altro, la protezione conferita dal preservativo in relazione ad un singolo rapporto sessuale sia contro-bilanciata negativamente dall’incremento della promiscuità sessuale che fa seguito ad interventi miranti unicamente alla promozione dell’uso del condom. I dati americani mostrano che la diffusione del preservativo non previene le gravidanze indesiderate e l’aborto allo stesso modo di come non previene la diffusione dell’HIV in vaste zone dell’africa sub-sahariana.
La domanda del lettore circa la possibilità di determinare degli aborti dovuti all’assunzione della pillola contraccettiva ha enormi implicazioni morali. Ovviamente il contenuto morale di un’azione non può prescindere dalla realtà dell’atto stesso, dalla conoscenza puntuale di quello che avviene quando ci comportiamo in un certo modo.
Purtroppo la questione di fondo, cioè se la pillola contraccettiva sia solo un contraccettivo o possa essere anche un abortivo, si scontra contro un limite: l’indisponibilità di studi che abbiano valutato attraverso una metodologia di studio accurata, affidabile e diretta, la mortalità precoce embrionale in donne che assumono la pillola estro-progestinica confrontandola con quella che si verifica in donne che non l’assumono.
Il marker più promettente, l’Early Pregnancy Factor, non è stato indagato, al meglio delle mie conoscenze, in questo senso. Gli studi condotti fino ad oggi per cercare di chiarire la questione hanno quindi cercato di dare delle risposte esplorandola indirettamente. I meccanismi d’azione della pillola che l’hanno sempre fatta definire un contraccettivo, sono il blocco dell’ovulazione e la modificazione della composizione del muco cervicale in modo da renderlo inadatto ad essere attraversato e superato dagli spermatozoi.
Alcuni dati sono acclarati. Più specificamente è stato dimostrato che le donne che assumono la pillola contraccettiva, particolarmente le pillole attuali a basso contenuto estrogenico, hanno comunque talora delle ovulazioni. Le percentuali di un tale evento riportate nei vari studi sono quanto mai ampie (dallo 0% fino al 28,6%), ma comunque si tratta di percentuali assolutamente significative. Deve essere altresì messo in evidenza che segni di attività ovarica, nella veste dello sviluppo di follicoli ovarici, non significa che l’ovulazione abbia avuto luogo.
Esiste inoltre il problema che né il dosaggio ormonale, né la valutazione ecografia sono metodiche che hanno un’accuratezza assoluta nell’evidenziare l’eventuale avvenuta ovulazione. Pochissimo si sa sull’efficacia delle moderne pillole a basso dosaggio nell’arrestare la risalita degli spermatozoi in cavità uterina attraverso la modificazione del muco cervicale, ma le poche evidenze indicano che tale meccanismo non ha un’efficacia assoluta. La pillola è inoltre in grado di determinare modificazioni morfologiche e funzionali sulla mucosa endometriale in modo da renderla inospitale per l’embrione e non consentirne l’impianto.
Questi dati di derivazione medica hanno fatto sì che alcuni ginecologi e medici attribuissero alla pillola estro-progestinica la capacità d’interferire col processo di annidamento dell’embrione, un effetto post-fertilizzativo, in ultima istanza un meccanismo abortivo, nei confronti del quale la pur bassa percentuale di probabilità di realizzazione non avrebbe alcuna rilevanza attenuante dal punto di vista morale.
Di fronte a questa posizione altri medici e ginecologi, pur partendo da posizioni contrarie all’aborto, eccepiscono che per poter dire che le modificazioni sull’endometrio indotte dalla pillola realizzano un elemento potenzialmente abortivo, devono verificarsi in concomitanza col mancato blocco dell’ovulazione; ma questo e l’eventuale concepimento, grazie alla produzione ormonale da parte del corpo luteo, determinerebbero il ripristino delle condizioni endometriali favorevoli all’impianto, cioè annullerebbero gli effetti sull’endometrio indotti dalla pillola stessa.
Partendo da queste considerazioni l’associazione dei ginecologi pro-life americani ha compiuto una valutazione basata su criteri probabilistici che nega l’effetto abortivo della pillola, che secondo questi autori costituirebbe quindi un mezzo contraccettivo http://www.aaplog.org/decook.htm.
È da aggiungere che, sempre per la mancanza di studi basati su markers precoci e specifici di gravidanza, non sono fornite evidenze dirette che dimostrano il recupero trofico e funzionale dell’endometrio in caso di concepimenti avvenuti in corso di assunzione di pillola contraccettiva, per cui la questione appare attualmente irrisolta.
Quanto il tema sia comunque rilevante per le donne stesse è testimoniato dalle evidenze emerse da uno studio statunitense condotto ottenendo le risposte di 618 donne non oltre i 50 anni di età rivoltesi al servizio ginecologico; la maggioranza delle donne ha identificato l’inizio della vita col concepimento, il 51% di esse ha risposto che non avrebbe usato un metodo che dovesse agire dopo la fecondazione e il 44% ne avrebbe cessato l’assunzione, nel caso lo stesse utilizzando, anche se la probabilità dell’effetto fosse “solamente remota” (Dye, 2005).
È pertanto stupefacente osservare come di un farmaco assunto da milioni di donne non sia ancora stato stabilito l’esatto meccanismo d’azione, avendo tale informazione un’importanza etica rilevantissima proprio per quelle donne che ci si vanta di voler rispettare. Quanto poco rispetto vi sia nei confronti della verità di cui le donne dovrebbero essere destinatarie è testimoniato anche dai tentativi di nascondere gli effetti abortivi conseguenti all’inserimento della spirale (IUD, in inglese).
È davvero sconcertante, sotto il profilo scientifico, leggere sul sito dell’associazione dei professionisti della salute riproduttiva americana (un’associazione di operatori sanitari abortisti) frasi apodittiche di questo tipo: “La spirale di rame non agisce come abortivo”. Eppure in un’ampia revisione della letteratura risalente ormai a dieci anni fa il dottor Spinnato concluse sull’autorevole American Journal of Obstetrics and Gynecology: “Le analisi delle evidenze suggeriscono con forza che l’efficacia contraccettiva delle spirali è raggiunta sia attraverso un’azione pre-fertilizzativa spermicida, sia un’’inibizione post-fecondativa dell’impianto uterino” (Spinnato, 1997).
Anche le voci assolutamente favorevoli alla diffusione della contraccezione in tutte le sue forme e ad accreditare la spirale come una metodica contraccettiva ammettono comunque che il meccanismo d’azione di essa non è completamente chiarito e che i meccanismi d’azione, pur plurimi, comprendono anche la reazione infiammatoria dell’endometrio che ne pregiudica la possibilità di accogliere l’eventuale embrione. Il fatto che le gravidanze che si verificano nonostante il preventivo inserimento della spirale abbiano un rischio dieci volte maggiore di essere ectopiche (extrauterine) dimostra la potenziale interferenza della spirale sul processo di annidamento (Xiong, 1995).
Per concludere, l’idea che la diffusione della contraccezione, anche nell’improbabile ipotesi di un’inabilità di questa a determinare interruzioni precoci della gravidanza, sia il modo migliore, se non l’unico, di contrastare il fenomeno dell’aborto è ormai insostenibile sulla base delle evidenze medico-scientifiche. Anche a livello razionale, una volta dissociata la sessualità dalla procreazione, dissociare procreazione e vita diventa la logica conseguenza.
Lo aveva già intuito un personaggio al di sopra di ogni sospetto di simpatie pro-life come Malcolm Potts, primo direttore medico della International Planned Parenthood Federation, la maggiore organizzazione abortista in america e promotore della tecnica di aborto per isterosuzione manuale, il quale già nel 1973 ebbe a dichiarare: “Quando la gente si volgerà alla contraccezione, ci sarà un aumento, non una riduzione, del tasso di aborto”. Parole tristemente profetiche.