Relazione di mons. Josè Noriega, professore di Teologia Morale Speciale (Sessuale) all’Istituto Pontificio Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia, alle tre giornate di spiritualità e formazione promosse ad Assisi, dal 14 al 16 gennaio, dal Forum nazionale delle associazioni familiari sul tema: “Testimoniare la buona novella della famiglia nel Terzo Millennio”
Prof. José Noriega
1. Perché cittadinanza della famiglia?
“Non è buono che l’uomo sia solo” (Gn 2, 18), ecco la grande luce di Dio sul mistero dell’uomo. Con questa intuizione si vuole spiegare in che modo esso sia stato creato per qualcosa di più grande di sé, cioè per una comunione di persone in cui raggiungere la propria pienezza, il proprio vero essere. Nessuna persona umana è stata creata per la solitudine, ma per la comunione
Tuttavia, la grande intuizione divina è letta dalla modernità in maniera decisamente diversa. Che non sia buono per l’uomo vivere da solo è derivato da una terribile condizione che lo caratterizza. Hobbes l’ha espressa sinteticamente: homo homini lupus. Nel suo De civite chiarisce in che modo l’uomo, da solo, diventi preda dell’uomo: ci sono troppi interessi particolari, tante volte contrapposti. Ognuno cerca il proprio, rendendo impossibile la vita degli altri. In un mondo limitato nelle sue risorse e nelle sue possibilità, avere pretese illimitate e contrapposte rende, infine, impossibile la vita stessa.
Meglio mettersi insieme, costituire società, costruire città e dare ad ognuno una cittadinanza che assicuri protezione e diritti. Ma per entrare nelle mura di una simile città è necessario rinunciare alla smisurata pretesa di onnipotenza e onnivolenza. Tutti dobbiamo cedere qualcosa per non calpestarci a vicenda. La soluzione globale al problema si configura, allora, in tal modo: mettere un limite alla libertà, perché “la mia libertà finisce dove comincia la tua”.
Di rinuncia si tratta; tuttavia, tale rinuncia, a parte della propria libertà, è vista come un grande passo in avanti, in quanto assicura la vita sociale. L’essenziale è protetto. E le altre cose, quelle che cadono fuori del contratto che si stabilisce, dei diritti che si concedono, della cittadinanza che si acquista, sono rimarginate nel mondo del privato, dove ognuno fa ció che vuole.
Colui che vuole essere riconosciuto come cittadino dovrà, quindi, fare un patto. Accettare le regole sociali, le procedure che garantiscono la pace. La cittadinanza nella modernità è vista, dunque, come l’attribuzione che lo stato fa dei diritti e dei doveri a qualcuno. Il cittadino avrà, pertanto, uno spazio delimitato in cui muoversi, senza essere minacciato dai lupi, perché protetto dalla società.
Si risolve, in tal modo, il problema del rovinarsi reciproco, ma si lascia intatta la domanda sul senso del vivere in comune. Un esempio ci aiuterà a capire: quando guidiamo una macchina e troviamo una zona molto affollata e caotica, è importante che ognuno rispetti le regole del traffico, perchè altrimenti rischia avere un incidente. Essere attenti agli altri e a se stessi diviene, in quel contesto, decisivo per uscirne senza problemi. Ma la questione fondamentale, in quell’ingorgo, non è semplicemente come evitare che gli altri mi investano o io investa loro, ma, in realtà, dove voglio andare.
Proprio questa dimensione essenziale della vita è quanto viene nascosto nel tentativo di risolvere contrattualmente e proceduralmente il problema della convivenza: questa sarebbe frutto di un insieme di interessi all’interno dello spazio di una legge superiore che tutti devono accettare, senza chiedersi, però, quale sia il suo senso e la sua bontà.
E’, tuttavia, sufficiente che appaiano nuovi e potenti interessi, perché i vecchi contratti non valgano più e occorra stabilire nuovi patti con i quali dare cittadinanza alle nuove pretese. Non è, forse, questa la difficoltà con le cosiddette nuove forme di famiglia? Ma anche, davanti a tale pretese, non si vede oggi la pretesa di riconoscimento dell’originalità della famiglia come un nuovo ristaurazionismo? Nasce, in tal modo, una lotta per l’acquisizione di nuove cittadinanze, il cui arbitro diventa il grande leviatan, lo Stato. E quanto prima si era lasciato al di fuori del patto, adesso lo si vuole inserire al suo interno, affinché sia protetto.
Cosa si è perso in tutto questo percorso? Proprio l’idea di cosa sia la famiglia e quale il suo rapporto intrinseco con la società. Alasdair MacIntyre ha messo in evidenza il processo con il quale la modernità ha portato ad un naufragio l’idea di uomo e della possibilità di eccellenza della sua vita. Oggi non sappiamo più chi siamo. Dopo tale naufragio è sorto il tentativo di ricostruire quell’idea con frammenti, senza avere, tuttavia, un’idea dell’insieme e del contesto globale di senso.
Solo con pezzi e frammenti, belli e grandi, però, un simile sforzo appare ardito. Con pezzi e frammenti di famiglia è ardito cercare di ricostruire l’eccellenza che la famiglia fa possibile e del suo rapporto intrinseco con società.
In questo contesto, Giovanni Paolo II ci ha offerto un’ampia luce con la sua esortazione Familiaris consortio. In essa troviamo una profonda intuizione: “famiglia, diventa ciò che sei!” (FC 17). C’é un essere della famiglia che è originario alla libertà dell’uomo, a qualsiasi patto e che si radica proprio nella volontà divina. Un essere dinamico che, come un seme, spinge verso la propria realizzazione: non tutto è già risolto dal principio.
Il papa beato vuole avvicinarsi al dramma della famiglia non offrendo nuove regole, ma ancorando il suo essere nel disegno di Dio e del Suo accompagnare il cammino verso la pienezza. E, in tal modo, ci permette di rintracciare la posizione della famiglia nella società e nella Chiesa [1] Il nostro interesse si situa, dunque, nel comprendere la dinamicità dell’essere della famiglia, la quale dipende integralmente dall’amore che sta alla sua origine.
2. Cosa troviamo all’origine? I due amori che fondano due città.
L’intuizione di Sant’Agostino è che la città sia frutto dell’amore. Anzi, che la qualità della città dipenda della qualità dell’amore. Infatti, “due amori hanno fatto due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e l’amore di Dio fino al disprezzo di sé”[2]. Come possiamo distinguerli?
a. L’amore svuotato di veritàù
Qual è l’amore situato all’origine della concezione moderna del rapporto tra famiglia e società? Hobbes rimanda all’amore di sé: un amore per il proprio interesse. L’uomo, se vuole veramente continuare ad esistere, deve organizzarsi con gli altri. Si tratta, dunque, dell’amor proprio, in virtù del quale l’individuo deve rinunciare a tante delle sue pretese per riuscire a salvare l’essenziale. In breve, ci si mette d’accordo per non ammazzarsi. Da questo punto di vista, nell’uomo, in fin dei conti, non si trova alcuna vocazione innata ad un amore più grande e comune, ad una vita insieme.
Il salto alla considerazione della natura come pura plasticità diventa, in quest’ottica, quasi spontaneo. Di fatto, è proprio la trasformazione verso una concezione plastica del corpo e della sessualità, ad essersi imposta nella modernità, fino ad arrivare all’idea di una relazione pura [3].
Pura, staccata da cosa? Da ogni preconcezione naturalistica o culturale: il rapporto tra uomo e donna diventa puro, slegato, in mano alla volontà del singolo. Che ognuno metta ciò che voglia, sempre che non calpesti l’altro. È questo il punto in cui si radica il presupposto antropologico ultimo riguardo alla pretesa di riconoscimento di determinate forme con le quali viene vissuto il rapporto sessuale.
A questa rappresentazione, che svuota di senso il corpo umano, si aggiunge una concezione liquida dell’amore. L’amore in sé avrebbe la qualità del liquido, è adattabile ad ogni recipiente, cioè, ad ogni persona e forma [4]. Non avrebbe, fondamentalmente, in sé, una verità che lo sorregga. Se è vero che da una parte il romanticismo è morto, in quanto non sussiste più l’ideale dell’amore in senso affettivo e si tenti, oggi, di vivere, piuttosto, della soddisfazione che essocomporta, tuttavia, il criterio dell’intensità, come principio di verifica, è rimasto intatto.
A questa trasmutazione del concetto di amore, si associa, infine, nell’immaginario collettivo, una giustificazione pseudo-teologica. Se all’origine del cristianesimo, di fronte ad una concezione legalista della vita, si era riusciti ad affermare che non era la legge che giustificava, ma la fede, oggi la questione è posta termini contrari. La fede, infatti, con la sua pretesa di contenuto veritativo e di luce, non giustifica più la persona, chi giustifica è l’amore, in quanto sentimento che essa sperimenta dentro di sé. Seppure inverificabile, se non per l’intensità che comporta.
L’amore cui oggi si fa riferimento è pur sempre amore. Ma non basta che sia amore: ci sono amori che fanno della nostra vita un inferno. Ecco il dramma, l’uomo moderno, poiché non vuole entrare nella verità dell’amore e accetta acriticamente di essere centrato su se stesso, non riuscirà mai a formare una vera città, in cui le persone siano unite da qualcosa di più grande di loro. Così afferma G. Marcel: “gli essere solo possono capirsi nella verità: ma questa veritá non puó staccarsi della riconoscenza del grande mistero nel quale siamo”. [5]
Questo mistero è ciò che, propriamente, il tentativo moderno ha fatto sparire: la verità dell’amore e della famiglia. In tal modo la vita sociale è ridotta ad un gioco di interessi, all’interno dei quali si fatica a far comprendere l’importanza della famiglia.
b. L’amore pieno di verità
Tutt’altra è la strada percorsa da Giovanni Paolo II. Già da giovane sacerdote aveva affermato con forza che “l’amore, prima di manifestarlo, bisogna verificarlo” [6]. Ma come possiamo verificare l’amore? Come possiamo capire la sua verità? Come entrare nel suo mistero?
Familiaris consortio, seguendo la linea già aperta dal pontefice nelle sue catechesi sull’amore umano, indovina il punto di partenza: si tratta di lasciar parlare l’ esperienza amorosa, di situarsi nel suo principio e imparare che in quel momento si manifesta qualcosa di nuovo, di originario riguardo alla propria libertà, in quanto non sarà mai la libertà a crearlo: nello svelarsi dell’amore si dà una promessa, cioè la promessa di una comunione reciproca.
Quello di cui gli innamorati si rendono subito conto è il sentimento che li riempie. Ma il sentimento, come diceva Benedetto XVI, è una scintilla che illumina e dopo si spegne (DCE 17). Come interpretarlo? Proprio della scintilla è illuminare. Il sentimento non è mai chiuso in se stesso, ci apre alla realtà e, soprattutto, a una realtà che ancora non c’è, perché ancora dobbiamo crearla e, in tal modo, ci dischiude possibilità nuove nella vita.
“Ma anche tu? Anche io cosa? Anche tu hai visto la stessa verità che ho visto io?” [7]. Con queste parole C.S. Lewis esprime quel momento carico di luce col quale comincia un’amicizia. L’amicizia tra uomo e donna comporta il rivelarsi di qualcosa di nuovo, di una verità nuova ed esistenziale, perché realizza un nuovo modo di amarsi, di vivere non solo uno insieme all’altro, ma uno per l’altro in una reciprocità dove trovare pienezza nuova. Affermare che l’amore sia una rivelazione significa sostenere che esso riveli proprio ciò che c’è di più importante per noi: cioè, quale sia il nostro destino [8].
Si tratta del destino nel quale poter compiere una vita, di quel vero destino capace di svelare ciò che rende la vita grande e bella. Sono questioni alle quali, solo interpretando le esperienze della vita, possiamo rispondere e che proprio l’ esperienza d’amore ci rivela in forma nuova.
Uno degli aspetti più originali di questa esperienza è il lasciar comprendere non solo il proprio destino, ma il proprio destino in quanto legato al destino dell’altro. É il momento nel quale appare il “noi”, cioè, il destino comune. È l’ attimo in cui viene per prima volta alle nostre labbra quel “nostro bene” e si può, finalmente, capire cosa sia il proprio bene [9]. Solo in tal modo siamo in grado di cogliere che la nostra felicità, in quanto pienezza di vita, è legata alla felicità dell’altro, cioè, alla pienezza dell’altro. Si dischiude, così, ciò che si chiama la bellezza complessiva della persona [10].
Non ci si riferisce qui semplicemente all’armonia del suo corpo e delle sue qualità, ma proprio di una bellezza promessa, in quanto questa persona che ho davanti, tanto bella e cara, può diventare ancora più bella, in una vita vissuta veramente l’uno per l’altro in reciprocità. Per questo l’uno sente la spinta a voler promuovere l’altro, la sua perfezione, la sua pienezza, la sua felicità, e facendo ciò scopre anche la propria perfezione e felicità [11]. È l’amore che ci apre una speranza nuova.
Ma anche tu? Anche tu hai visto la stessa felicità? Anche per te il destino è un destino comune nella mutua consegna? Verificare l’amore vuol dire, in primo luogo, verificare la promessa che è stata fatta, se coincidente o no, se capace di riempire una vita o meno. Se prende un frammento o la riempie tutta.
Nel momento dello svegliarsi dell’amore, Adamo, l’Adamo di tutti i tempi, ha una possibilità nuova per capire il perchè del proprio corpo: quel corpo che lo unisce al creato, ma che, al contempo, lo distanzia in quanto non trova in esso un aiuto simile. Adesso, davanti ad Eva, nell’ esperienza dell’attrazione che questa esercita su di lui, può finalmente comprendere il significato della sua carne e delle sue ossa: penetra la sua struttura antropologica, come struttura ontologicamente aperta, vulnerabile all’altro.
La passività che ogni esperienza d’amore comporta rivela una dimensione relazionale originaria nell’uomo e nella donna [12]. L’uomo è stato creato in relazione alla donna e la donna all’uomo, in un’unità duale, direbbe Giovanni Paolo II. Da allora in poi, ossia dal primo momento della creazione, la differenza sessuale ci rimanda qualcosa di decisivo su noi stessi.
Per questo non si può affermare semplicemente che la sessualità sia qualcosa di plastico, di indifferente, di plasmabile a piacimento. Il corpo sessuato indica una mancanza strutturale e una pienezza da raggiungere. Ecco il suo dramma. Il corpo è stato creato per qualcosa di più grande di sé: una comunione di persone che si attualizza proprio nel corpo e grazie al corpo. La carne, ossia la sessualità, diventa un canale di comunicazione, di costruzione reciproca, un linguaggio col quale trasmettere un amore [13]
c. L’amore che genera la libertà
Se l’amore è la rivelazione di una promessa e la promessa svela un orizzonte di pienezza nel mutuo dono di se stessi, allora la libertà umana si sente pro-vocata, chiamata a rispondere, cioè, ad acconsentire a quanto è stato promesso [14].
E’ questo il momento meraviglioso della sintesi che comporta l’autentica esperienza amorosa umana. Sintesi, perché sono diversi gli elementi che si unificano per renderla possibile: identità e differenza, unione e alterità, pulsione e affetto, natura e libertà. Allo stesso modo in cui l’intuizione dell’artista implica una sintesi di differenti elementi, irriducibili tra loro, ma concorrenti tutti a qualcosa di più grande, così l’esperienza amorosa racchiude una sintesi che apre un inizio nuovo alla libertà, perché le offre l’àncora sulla quale appoggiarsi: il bene della comunione con la persona amata.
In un universo dove tutto si ripete in un ciclo eterno, dove non c’è niente di nuovo sotto il sole, “Dio ha creato l’uomo perché ci fosse un nuovo inizio” [15]; così Agostino concepisce l’originalità dell’uomo nella creazione, come una partecipazione unica all’inizio, che implica la libertà divina. Ma dove si radica questo inizio? Forse la nostra libertà è una libertà capricciosa? Il nuovo inizio viene offerto all’uomo proprio nell’esperienza amorosa, aprendo una strada che si rivolge ad una pienezza di comunione che riempie il cuore.
Perché amo, quindi? Semplicemente, perché sono stato amato, arricchito, sedotto da un altro che con la sua presenza, con la sua bellezza, con la sua bontà mi ha conquistato. Possiamo, ora, comprendere in che modo la libertà nasca da un amore e si rivolga a una comunione [16].
La libertà cessa di essere la rivendicazione di un’ autonomia che chiude nella solitudine, per trovare la propria origine nel dono dell’altro e il suo fine nella comunione con esso. Abbiamo visto come la concezione moderna proponeva un concetto d’amore inteso come relazione pura, il che comportava una libertà sganciata dal corpo; adesso possiamo, invece, comprendere, in che modo la libertà si radichi proprio nel corpo, tramite gli affetti. Tutto il dinamismo corporale diventa fonte di motivazione per la libertà grazie alla mediazione dell’affetto.
La mia libertà non finisce quando incontra la libertà dell’altro, cioè gli interessi dell’altro, dovendo rinunciare alla sua pretesa. Avviene esattamente il contrario: la mia libertà inizia quando incontra l’altro, perché è questo il momento in cui coglie il suo orientamento, il suo fine. È l’esperienza amorosa che consegna il fine alla libertà, la illumina e la guida dal di dentro. La pretesa moderna, non avendo afferrato la novità che l’amore porta alla vita e la verità che nasconde, ha tentato di proteggere l’uomo con un insieme di procedure, dimenticando proprio che è l’amore a unire gli uomini, perché li rende partecipi di un destino comune grazie al dono dell mutua presenza.
d.Amore e generazione della società.
Occorre soffermarsi e riconoscere come l’amore non solo unisca in un destino comune, ma, al contempo, generi la società. La rivelazione dell’amore svela ai suoi protagonisti in che modo il loro amore non sia rinchiuso in loro stessi, ma li apra ad una comunione più grande di loro. Parimenti, mostra come neanche la comunione sia chiusa in se stessa, in quanto capace di comunicarsi in una forma assolutamente originale: generando il figlio.
In questo modo gli sposi partecipano di una qualità dell’amore di Dio, ossia amare la persona prima che esista, e, amandola, la generano. Ognuno di noi, prima di essere concepito nel cuore delle nostre mamme, è stato concepito nel cuore di Dio [17]. Per questo motivo l’amore tra uomo e donna è un amore procreativo e tale caratteristica dell’amore degli sposi si manifesta come un criterio della verità del loro amore.
Generando le persone la società viene generata. Questa generazione avviene attraverso un amore che si espande e che richiede la comunione con le altre famiglie per poter raggiungere la sua bellezza complessiva.
La famiglia, dunque, precede la società. All’origine c’è l’amore che genera la società. Non si tratta dell’amore interessato, prigioniero di sé, ma dall’amore vero, che, proprio in quanto tale, è aperto e rivolto all’altro, al destino comune, alla pienezza comune, talmente aperto da poter generare la vita e la società. Non è, dunque, possibile che sia la società a concedere il diritto di cittadinanza alla famiglia, a stabilire che la famiglia possa sussistere nella vita sociale: la società senza la famiglia non esisterebbe.
La famiglia che oggi si rivolge alla società chiedendo la cittadinanza non sta pretendendo qualcosa di estemporaneo, come se ci fosse un qualcosa rimasto al di fuori del patto originario, trattenuto nell’ambito del privato, e che ora occorrerebbe introdurre all’interno per essere protetta. Si verifica qualcosa di più profondo: quando la famiglia chiede la cittadinanza, sta chiedendo che la società riconosca il debito che ha con essa, in quanto dipende da essa, non soltanto perché si alimenta del suo frutto, ma perché è proprio l’amore delle famiglie a costituire dall’interno il bene comune che fonda la società e genera il suo capitale sociale basico [18].
La società, pertanto, senza le famiglie si ridurrebbe ad un insieme di individui uniti in forma eterogenea al solo scopo di proteggersi. Con la famiglia, la società diventa una comunità di persone, unite da un bene comune, al quale tutti aspirano, in quanto, solo in quel bene della vita comune, è possibile raggiungere la vita piena. È la famiglia a fare umana la vita sociale.
3. La Chiesa che genera la famiglia: il mistero della carità coniugale.
Resta ancora da comprendere in che modo Dio abbia ha che fare con l’amore. Si tratta allora di comprendere in che modo l’amore di Dio costituisce una nuova città, quella celeste. Ma anche di capire qual’è il rapporto tra le due città, la terrestre e la celeste e degli amori che stanno alla loro base.
In primo luogo, Dio è presente in maniera molto originale all’interno dell’esperienza amorosa. Se, infatti, tale esperienza apre l’orizzonte della bellezza complessiva, quale pienezza della vita nella comunione reciproca con l’altro, generando una famiglia, a questa esperienza di pienezza appartiene necessariamente anche una dimensione religiosa intrinseca. Volere la pienezza per l’altro, cioè la sua felicità, non è certamente una cosa facile. Aristotele, nella sua Etica a Nicomaco, già spiegava che, in fin dei conti, la felicità rappresenta il grande dono che gli dei possono concedere agli uomini.
Chi ama davvero comprende immediatamente che lui non basta a rendere felice l’altro. E se amare significa volere la felicità dell’altro, vuol dire anche desiderare per l’altro Colui che solo potrà renderlo felice in pienezza. Chi ama desidera Dio per l’altro, cioè la comunione con Dio come fine ultimo del suo amore [19].
Nell’eros umano è, dunque, presente anche il desiderio di Dio. Tale desiderio di Dio è, tuttavia, un desiderio enigmatico. E’ vero che si desidera Dio per l’altro, ma come posso donare Dio all’altro? Non resta, forse, Dio, sempre irraggiungibile? Questa consapevolezza costituisce il momento in cui si comprende in che modo l’eros, aprendo il cuore dell’uomo e la donna a Dio, lo disponga a ricevere un nuovo dono di Dio, il dono del Suo amore. Che dono è mai questo? È il dono dell’amore sponsale di Cristo.
Già san Paolo ha sottolineato in che modo l’amore tra uomo e donna partecipi del grande mistero che è l’amore di Cristo per la Chiesa sua sposa (Ef 5,25). Nel momento della passione, Cristo, in virtù dello Spirito eterno, si consegna in sacrificio per la sua sposa, costituendola pura e immacolata davanti a sé. L’amore presente nel suo cuore è un amore sponsale, carità interamente mossa dallo Spirito Santo.
La qualità sponsale della sua carità è ciò di cui Cristo vuole fare partecipi gli sposi cristiani. Ogni sacramento è uno soffio del Signore che ci configura in una delle sue dimensioni: la sua figliolanza nel battessimo, la sua testimonianza nella confermazione, il suo sacerdozio nell’ordinazione, e così via. Ed anche il suo amore sponsale nel matrimonio. Nel momento del matrimonio ha, infatti, luogo un nuovo soffio di Cristo con il quale egli dona agli sposi quello Spirito che ha spinto lui stesso a consegnarsi per la Chiesa sua sposa.
Lo Spirito Santo entra in una forma nuova nel corpo degli sposi, facendo sì che il loro amore coniugale si trasformi in carità coniugale. Ecco, dunque, la grande intuizione di Giovanni Paolo II in Familiaris consortio 13:“Questa rivelazione raggiunge la sua pienezza definitiva nel dono d’amore che il Verbo di Dio fa all’umanità assumendo la natura umana, e nel sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla Croce per la sua Sposa, la Chiesa.
In questo sacrificio si svela interamente quel disegno che Dio ha impresso nell’umanità dell’uomo e della donna, fin dalla loro creazione (cfr. Ef 5,32s); il matrimonio dei battezzati diviene così il simbolo reale della nuova ed eterna Alleanza, sancita nel sangue di Cristo. Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l’uomo e la donna capaci di amarsi, come Cristo ci ha amati. L’amore coniugale raggiunge, in questo modo, la pienezza alla quale è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo proprio e specifico in cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità di Cristo che si dona sulla croce” [20]
L’amore coniugale è trasformato in carità coniugale. Cosa vuole dire? La coniugalità, quale capacità di comunicare un amore, un’intimità, una presenza e una compagnia diviene carità, cioè luogo dell’amicizia con Dio e per questo canale dell’amore ricevuto da Dio, lo Spirito Santo. La grazia si trasmette, in tal modo, tramite un amore umano, fatto di pulsione e affetto, di volontà e di dono, di storia e di speranza.
I coniugi potranno, così, amarsi non soltanto con l’amore che è stato generato in loro dal mutuo incontro, ma anche con l’amore che Cristo ha regalato loro, rendendo il loro amore coniugale, un amore santificante e, addirittura, deificante: infatti, nell’alleanza degli sposi si attualizza l’alleanza con Dio. La coniugalità diventa nei cristiani un cammino di santificazione mutua [21], un cammino nel quale arricchirsi mutuamente dei doni di Dio che si trasmettono nella coniugalità.
Gli sposi, vivendo nel mutuo dono di se stessi e donando, in questo dono, non soltanto se stessi, ma anche l’amore che Dio ha donato loro, che è lo Spirito Santo, si abituano a dare e ricevere. Nel lungo cammino dell’amore sponsale, il loro cuore si va dilatando e così può prepararsi al momento in cui Dio riempirà dello Spirito tutto il loro essere nella risurrezione dei corpi, nel banchetto nuziale.
Il destino che dischiude, allora, l’amore cristiano è proprio la comunione con Dio, donataci nella Chiesa. E questa prospettiva ci permette di capovolgere lo schema. Se da una parte, quindi, l’amore sponsale genera la società, dall’altra, la Chiesa genera la famiglia, dando vita nella coppia alla carità coniugale. Non è il nostro amore a generare la Chiesa, ma è la Chiesa a generare la carità in noi.
E’ questa la posizione della Familiaris consortio: “E’ anzitutto la Chiesa madre che genera, educa, edifica la famiglia cristiana, mettendo in opera nei suoi riguardi la missione di salvezza che ha ricevuto dal suo Signore” FC 49.
4. Conclusione
Siamo arrivati alla fine del nostro discorso. La luce della rivelazione ci ha guidati fin dal principio: “Non è buono che l’uomo sia solo”. Abbiamo visto come la solitudine non sia la vocazione originaria dell’uomo. Tutto il nostro essere e la nostra esperienza amorosa ci conducono a qualcosa più grande di noi. Quel qualcosa, quel di più, è colto in primo luogo nella comunione umana, capace di generare la vita e, dunque, la società. Ma anche, in virtù del dono ricevuto dallo Spirito, in quella comunione si nasconde un mistero, una verità ultima e piena, perchè in essa si può vivere la comunione con Dio grazie al dono nuovo di Dio.
Perciò, se da una parte l’amore sponsale genera la società, dall’ altro la Chiesa genera la famiglia cristiana. Il perno di questa visione è raccolto nel concetto di “carità coniugale”, così ricco e nuovo, spiegato da Giovanni Paolo II in Familiaris consortio. Possiamo ora capire come il punto di interesse dell’esortazione sia quello di mostrare l’unione organica che esiste tra i due amori, e dunque, tra le due città: la città terrestre e la città celeste. Non si tratta, per il cristiano, di due città distinte, come non si tratta di due amori differenti, quello coniugale e quello della carità
Dove si radica, allora, la cittadinanza della famiglia? Nel fatto che è la famiglia stessa a generare la società, a renderla umana, con una umanità determinata proprio dal dono dell’amore. Solo così è possibile stabilire il quadro di identità della persona nei legami che la costituiscono: perchè noi siamo figli, per diventare sposi ed arrivare così ad essere genitori. Il cristianesimo assume questa relazionalità costitutiva e dona una linfa nuova, quella della carità, che trasforma l’amore coniugale in carità coniugale e la città terrestre in città celeste.
Ecco l’ esperienza dei primi cristiani:“I cristiani infatti non si differenziano dagli altri uomini ne’ per territorio, ne’ per lingua o abiti Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano. La loro dottrina non è frutto di considerazioni ed elucubrazioni di persone curiose, ne si fanno promotori, come alcuni, di una qualche teoria umana. Abitando nelle città greche e barbare, come a ciascuno è toccato, uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l’abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita.
Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri, ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria é straniera. Si sposano come tutti, generano figli, ma non espongono i neonati. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi…. Insomma, per dirla in breve, i cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione dell’anima nel corpo… l’anima immortale abita in una dimora mortale, anche i cristiani vivono come stranieri fra ciò che è corruttibile, mentre aspettano l’incorruttibilità celeste…. Dio ha assegnato loro un posto così sublime, e a essi non è lecito abbandonarlo” [22].
Potremmo aggiungere, anche, che la famiglia cristiana è l’anima della società? Ma, perché mai lo sarebbe? Semplicemente, perchè le offre un amore nuovo che la rende capace di rigenerare l’amore.
Non è buono che la famiglia sia sola. Non semplicemente perché altre forme di famiglia potrebbero minacciarla, rendendola bisognosa di protezione, ma perché sola perde la speranza. Il compito del Forum delle famiglie è qui, nel ricordare la grande vocazione della famiglia cristiana nella società e nel generare degli ambienti di comunione tra famiglie, affinché la famiglia possa diventare ciò che è.
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[1] Per una visione generale del pensiero di Giovanni Paolo II si veda la presentazione di C. Anderson-J.Granados, Chiamati all’amore. La teologia del corpo di Giovanni Paolo II, Piemme, Milano 2010
[2] S. Agostino, De civitate Dei 14, 28.
[3] Cfr. A. Giddens, The Transformation of Intimacy: Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, Stanford University Press, Stanford, CA 1992, Ch. VIII.
[4] Cfr. Z. Bauman, Amore liquido : sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari 2006
[5] G. Marcel, “La fidelidad creadora”, BAC, Madrid,160
[6] Cfr. K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti,Torino 1979, 74-78
[7] Cfr. C.S. Lewis, The Four Loves, Harcourt, Brace, New York 1960, 67-68.
[8] Cfr. J. Noriega, Il destino dell’eros. Prospettive di morale sessuale, EDB, Bologna 2006.
[9] Cfr. A. MacIntyre, Dependent Rational Animals. Why Human Beings Need the Virtues, Duckworh, London 999, cap. 9.
[10] Cfr. D. von Hildebrand, L’essenza dell’amore, Bompiani-RCS, Milano 2003.
[11] Cfr. M. Nedoncelle, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Aubier-Montaigne, Paris 1957
[12] Cfr. P. Ricoeur, “La fragilité affective”, in Philosophie de la volonté. II: Finitude et culpabilité I: L’homme faillible, Aubier, Paris 1960, cap. IV, 97-148.
[13] Cfr. L. Melina, Imparare ad amare. Alla scuola di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Cantagalli, Siena 2009, 49-87.
[14] Cfr. J.J. Pérez Soba, Il mistero della famiglia, Cantagalli, Siena 2010.
[15] Cfr. S. Agostino, La Città di Dio, XII, 20. Vedere l’interessante commento di S. Kampowski, Arendt, Augustine and the New Begining, Eerdmans, Grand Rapids-MI 2007.
[16] Cfr. L. Melina, Sharing in Christ virtues, CUA Press, Washington DC
[17] Cfr. C. Caffarra, “Fondamenti dottrinali della famiglia”, en A. López Trujillo-E. Screccia, Famiglia: cuore della civiltà dell’amore, LEV, Città del Vaticano 1995, 41-51
[18] Cfr. P. Donati, Il capitale sociale. L’approccio relazionale, Bologna 2007.
[19] Cfr. K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti, Torino 1979, 122-127
[20] Cfr. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio 13.
[21] Cfr. D.V. Hildebrand, “Marriage as a Way of Perfection”, en J.T. McHugh, Marriage in the Light of Vatican II, Washington 1968, 121-144.
[22] Lettera a Diogneto V-VI.