15 maggio 2021
di Barbara Santambrogio
Le parole contano e la ratio in base alla quale si scelgono pure. Asilo «obbligatorio», congedo di paternità «obbligatorio», «carico» delle cure domestiche e familiari, «equilibrismi» per tenere insieme famiglia e lavoro: tutto parla della fatica sfiancante delle donne in relazione alla maternità e ai figli, se incrociati alla necessità o al desiderio di avere una vita professionale soddisfacente.
È questa la sensazione che si prova leggendo il 6° Rapporto “Le Equilibriste: la maternità in Italia 2021”, commissionato all’ISTAT da Save the Children e diffuso in occasione della Festa della mamma, una settimana fa. La medesima sensazione che ricorre scorrendo un’altra ricerca, questa volta statunitense, cioè il rapporto 2020 Women in the Workplace realizzato dal McKinsey Global Institute e reso noto nei primi giorni di maggio.
Entrambi gli studi si occupano di valutare nello specifico la situazione delle madri lavoratrici, anche e soprattutto in relazione alle enormi difficoltà generate a livello globale dalla crisi pandemica attuale. E la situazione è tutto fuorché rosea.
«Le mamme con figli minorenni in Italia sono poco più di 6 milioni e nell’anno della pandemia molte di loro sono state significativamente penalizzate nel mercato del lavoro, a causa del carico di lavoro domestico e di cura che hanno dovuto sostenere durante i periodi di chiusura dei servizi per l’infanzia e delle scuole.
Su 249 mila donne che nel corso del 2020 hanno perso il lavoro, ben 96 mila sono mamme con figli minori. Tra di loro, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono quelle mamme che a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli, hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse.
D’altronde la quasi totalità – 90 mila su 96 mila – erano già occupate part-time prima della pandemia». Così dice il rapporto italiano. Laddove il rapporto McKinsey afferma che una lavoratrice su quattro negli Stati Uniti d’America sta pensando di cambiare lavoro o di abbandonarlo del tutto, di “restare a casa”, a causa delle difficoltà eccessive e del diffuso malessere generati dalla fatica di armonizzare i due ruoli, quello di madre e quello di professionista. In smart working, poi, quasi un’impresa titanica.
Tutto dannatamente vero. Dal canto proprio Linkedin, famoso social network dedicato in modo precipuo ai contatti e alle relazioni professionali, apre un altro file e da qualche tempo registra fra le varie possibilità per descriversi nel profilo anche quello di madre «at home», cioè che al momento è “a casa”. Che “non lavora” nel senso abituale e tradizionale del termine, che so, in negozio, in ufficio, a scuola, in fabbrica, in campagna, percependo perciò un compenso, ma che si occupa dei figli, spesso della casa. Gratuitamente.
Epperò quel che potrebbe sembrare una conquista di civiltà (vi sono casalinghe, con famiglia numerosa, che gestiscono in termini di risorse umane l’analogo di una PMI, alias piccola-media impresa) rivela un volto in verità un poco ipocrita: sì al riconoscimento della donna e madre che sta a casa e che si occupa dei figli, ma solo in relazione alla competenza emotiva, o soft skill a voler essere cool, che nel frattempo sviluppa.
Nell’ottica di non essere esclusa dal mondo del lavoro e per non essere penalizzata nel momento in cui si presentasse a un futuro colloquio per un’assunzione. Colloquio che farà. Soprattutto, che vorrà fare. Perché nessuna donna desidera veramente “stare a casa”.
Uno dei punti è questo. Non è così, vi sono donne che desiderano farlo. Che desidererebbero farlo, quantomeno finché i figli sono piccoli e vorrebbero dedicarsi a loro. Esattamente come vi sono donne che non lo desiderano. Solo che il femminismo in questi casi interviene in modo un po’ schizofrenico, e le prime sarebbero retrograde frustrate e le seconde invece moderne e realizzate. Il dubbio, in proposito, è ancora concesso?
Vi è poi un passo ulteriore, e cioè le risposte che la politica e un certo tipo di cultura vorrebbero dare. La soluzione infatti non sarebbe permettere alle donne di diventare madri, di essere madri e di occuparsi dei figli per un tempo congruo con la serenità necessaria. No, certo che no. La soluzione sarebbe sostituirle.
Fuori gioco i nonni, causa CoViD-19, ma sempre in campo il congedo di paternità obbligatorio e l’asilo nido, pur con altro nome appellato. E si torna allora al peso delle parole e a quanto espresso inizialmente. «Sono necessarie scelte politiche che mirino alla costruzione senza più ritardi di un sistema di protezione, di garanzie e stimoli per superare una situazione che relega le madri unicamente alla cura dei figli e della casa. Il primo passo dovrebbe essere quello di introdurre un congedo di paternità obbligatorio, per tutti i lavoratori, di almeno 3 mesi e di creare un sistema integrato da zero a sei anni, che offra un servizio di qualità e gratuito in cui i bambini abbiano la possibilità di apprendere e di vivere contesti educativi necessari al loro sviluppo», afferma Antonella Inverno, responsabile delle Politiche per l’infanzia di Save the Children.
Intanto però l’assegno unico e il necessario sostegno economico in relazione ai figli, tutti i figli, ondeggia e slitta, tra affermazioni roboanti, parole buone e giuste e i conti della serva, che evidenziano come forse non sarebbe a favore dei cittadini ma di altro.
Come dire che la famiglia, come al solito, sta a zero.