Tracce (Litterae Communionis) n.8-2010
Iraq, Arabia Saudita, Iran. Gli sciiti sono una «minoranza sottovalutata». Eppure giocano un ruolo chiave in tutto il mondo arabo: dalla “rivoluzione” di Khomeini fino ai recenti attentati in Pakistan. Un breve percorso nella millenaria divisione con i sunniti. Che non è un problema locale. Ma un conflitto che sfugge alle “categorie occidentali”. E da cui dipende «il futuro di tutta la regione»
di Alessandro Giorgiutti
Lì, secondo la tradizione, il dodicesimo e ultimo Imam sarebbe stato sottratto da Dio agli occhi degli uomini, entrando in un misterioso stato di occultamento. Era il 22 febbraio di quattro anni fa. Quell’attentato segnava un salto di qualità nel conflitto che in Iraq oppone musulmani sunniti a musulmani sciiti. Un conflitto fatto di bombe nei luoghi di culto e nelle piazze affollate, sequestri di persona, linciaggi, ritorsioni.
Tutto ciò è ancora oggi cronaca quotidiana in Iraq. E non solo. Nel Pakistan in ginocchio per le inondazioni, l’inizio di settembre e la fine del Ramadan sono stati segnati da continui attacchi kamikaze: tutti attentati contro musulmani sciiti, come quelli messi a segno tra i fedeli in processione a Lahore e a Quetta. Sono stati rivendicati dai talebani. E hanno fatto centinaia di vittime.
La conta di questi morti non fa quasi mai notizia, ma sarebbe un errore considerare gli scontri settari come un problema locale. Di fatto, nell’intera regione mediorientale non c’è vicenda dove non si possa leggere, in controluce, la millenaria divisione sciiti-sunniti.
Le ambizioni regionali dello sciita Iran, per esempio, non inquietano soltanto Israele, ma anche gli Stati arabi sunniti del Golfo Persico, impensieriti dalle rivendicazioni delle loro minoranze sciite interne. I successi di Hezbollah in Libano si spiegano anche con la riorganizzazione della parte sciita della popolazione, storicamente sottorappresentata nelle istituzioni.
Tra i più preoccupati dell’offensiva dei talebani sunniti in Afghanistan ci sono le tribù sciite, già vittime di sanguinosi pogrom negli anni Novanta. E si potrebbe continuare.
Non si tratta di notazioni erudite: secondo uno dei massimi esperti della regione, Vali Nasr, lo studioso irano-americano autore del saggio La rivincita sciita (edito in Italia dall’Università Bocconi) e attualmente consigliere del Dipartimento di Stato Usa, quello tra islam sciita e islam sunnita è «il conflitto che darà forma al futuro Medio Oriente».
Spesso si applicano al Medio Oriente categorie “occidentali”: autoritarismo contro riformismo, per esempio. O ancora: modernismo contro fondamentalismo religioso. Si continua invece a sottovalutare la portata di quella che, sempre secondo Vali Nasr, è «la divisione più importante che esista all’interno dell’islam».
Gli sciiti sono una piccola minoranza: tra i 130 e i 195 milioni di persone, il 10-15 per cento del totale dei musulmani. Questo fa sì che, quando in Occidente si pensa all’islam, implicitamente ci si riferisca al solo sunnismo. Ma nell’area tra il Libano e il Pakistan la differenza numerica tra sciiti e sunniti si annulla. E nel cuore strategico della regione, l’asse del Golfo Persico, gli sciiti sono l’80 per cento.
LA FAMIGLIA DEL PROFETA. Ma chi sono gli sciiti? «Gli sciiti credono, oltre che in Dio e nella sua rivelazione a Maometto, anche nell’Imamato: ritengono, cioè, legittima soltanto la successione al Profeta di coloro che appartengono alla sua famiglia. Nella professione di fede non dicono quindi soltanto: “Credo in un solo Dio e Maometto è il suo profeta”, ma aggiungono: “E Ali è il suo amico”», spiega a Tracce Farian Sabahi, esperta di islam dell’Università di Torino e autrice di vari saggi, tra cui una Storia dell’Iran edita da Bruno Mondadori.
Gli sciiti venerano il genero di Maometto, Ali (il termine sciita deriva dall’arabo shi’at’Ali, cioè la fazione di Ali), e i suoi undici successori, gli Imam, le guide della comunità: da non confondersi con gli imam sunniti, che sono semplici fedeli incaricati di guidare la preghiera comune.
Insieme con Maometto e sua figlia Fatima (la moglie di Ali), gli Imam sciiti sono “i senza peccato”. I loro santuari sono mete di pellegrinaggio, luoghi dove mendicare una grazia e dove seppellire i propri cari defunti. Un culto sospetto per i sunniti, per i quali ciascun fedele è uguale agli altri e non esistono mediatori tra gli uomini e Dio.
RE, CALIFFI E AYATOLLAH. Nell’Ottocento, alcuni sunniti estremisti, i wahhabiti, si spinsero perfino a devastare la tomba di Maometto a Medina, pur di far cessare i “superstiziosi” pellegrinaggi dei loro correligionari. E nel 1925 un altro guerrigliero wahhabita distrusse, sempre a Medina, il cimitero dove erano sepolti Fatima, la figlia di Maometto, e quattro Imam. Quel guerrigliero si chiamava Abdul-Aziz Ibn Saud, e sarebbe diventato il primo re dell’Arabia Saudita, il cui fondamento religioso è ancora oggi il wahhabismo.
Se l’Arabia Saudita è il baluardo del sunnismo più ortodosso, l’Iran è il tradizionale portavoce delle rivendicazioni dello sciismo. Questo perché nei primi anni, perseguitati dai califfi di Damasco e di Baghdad, alcuni sciiti cercarono un rifugio in Persia. Sempre in Persia, nel XVI secolo, la dinastia dei safavidi, salita al potere, fece dello sciismo la religione di Stato anche per differenziarsi dagli ottomani sunniti.
Ma con Khomeini la tradizione politica sciita conosce una vera e propria “rottura”. «Con la rivoluzione del 1979, Khomeini è riuscito a fondare una repubblica islamica fondata sul velayat-e faqih (governo del giureconsulto) che non ha pari nella storia dello sciismo. Si tratta di un’innovazione che, peraltro, non ha trovato il consenso tra tutto il clero sciita», spiega la Sabahi. Per la prima volta, cioè, gli ulema – i religiosi esperti nel diritto islamico, che fino a quel momento avevano affiancato il sovrano – ora lo sostituiscono. Nasceva quel singolarissimo impasto di democrazia e teocrazia che è la Repubblica islamica dell’Iran.
Probabilmente la riscossa sciita comincia allora. Incitati da Khomeini, gli sciiti dell’Arabia Saudita, da sempre oppressi dal regime dei Saud, provano a ribellarsi. E lo stesso fa la minoranza sciita in Pakistan, contestando le leggi discriminatorie promosse dal generale golpista (sunnita) Zia ul-Haq, che aveva spodestato il primo ministro sciita Bhutto. La reazione del mondo sunnita è stata un fiorire di università, seminari e scuole coraniche finanziati dai petrodollari sauditi e improntati a un fondamentalismo sempre più aggressivo e oltranzista.
Negli anni Ottanta, nei seminari e nei campi d’addestramento pakistani si formano e si addestrano i militanti che affronteranno il nemico interno sciita, ma che oltrepasseranno anche le frontiere, per attaccare gli indiani in Kashmir (la regione contesa da Islamabad e Nuova Dehli) e i sovietici (oggi gli americani) in Afghanistan. Di fatto, il fondamentalismo sunnita che ispira i talebani nasce originariamente come reazione allo sciismo.
IL FUTURO IN IRAQ La divisione settaria continua a condizionare le vicende politiche mediorientali più di quanto si sospetti. In fondo, anche alla retorica fiammeggiante dell’Iran si può applicare questa chiave di lettura: «La maggior parte dei sunniti del Golfo appartengono alla setta wahhabita che ritiene gli sciiti eretici», ricorda Farian Sabahi: «Per farsi accettare come musulmano a pieno titolo, il presidente Ahmadinejad ha fatto una serie di dichiarazioni, per esempio contro Israele e a favore dei palestinesi».
Ma se i due grandi poli d’attrazione rimangono l’Arabia Saudita da un lato e l’Iran dall’altro, la cartina di tornasole è oggi probabilmente l’Iraq. Nel 1991, al termine della prima guerra del Golfo, George Bush senior volle mantenere Saddam al potere dietro consiglio degli alleati sauditi. Che temevano come la peste un Iraq a guida sciita.
Ora quello scenario si è realizzato: il fragile Iraq democratico è il primo Stato arabo dove gli sciiti siano andati al potere. Potrebbe essere la democrazia il nuovo veicolo della riscossa sciita? «Gli sciiti hanno tutto da guadagnare dalla democrazia», scrive Vali Nasr. In effetti, è solo grazie al principio “una testa un voto” che gli sciiti, da sempre in maggioranza ma tradizionalmente sottomessi ai sunniti, hanno ottenuto le leve del comando in Iraq.
Dove l’ayatollah Sistani, uno tra i più autorevoli religiosi sciiti viventi, si è prodigato per gettare acqua sul fuoco delle violenze settarie e ha difeso il principio delle libere elezioni. Anche in Afghanistan gli sciiti, perseguitati ferocemente dai talebani, sono ora rappresentati nel governo Karzai.
Non sarebbe saggio, tuttavia, coltivare facili illusioni. L’Iraq, e soprattutto l’Afghanistan, sono ancora soltanto ipotesi di Stato, e il loro futuro rimane incerto.
A Kabul, a settembre, sono previste le elezioni per il Parlamento. Ma il riacutizzarsi dell’offensiva talebana rende ottimistico confidare nella stabilizzazione; e rubrica alla voce fantapolitica la recente ipotesi di un ritiro delle truppe straniere entro il 2014.
RIVINCITA E STABILITA’ Non necessariamente, inoltre, la riscossa sciita sarà sinonimo di stabilità. Farian Sabahi è pessimista: «Non credo che la “riscossa sciita” possa portare stabilità: gli sciiti e la loro “rivincita”, come la chiama Vali Nasr, spaventano i Paesi arabi, soprattutto quelli del Golfo Persico, dirimpettaI dell’Iran».
Quel che è certo è che, nonostante i tradizionali buoni rapporti tra l’Occidente e le élites politiche arabo-sunnite, un approccio diplomatico che non tenesse nella giusta considerazione le rivendicazioni sciite sarebbe destinato al fallimento