Tempi, 08 febbraio 2007
Dale O’Leary, L’autrice di “Maschi o femmine?” racconta come i reduci del ’68 hanno conquistato il Palazzo di vetro e ne ha fatto un formidabile strumento di propaganda. Contro la vita e la famiglia
di Roberto Persico
Cambia l’oggetto, ma il metodo (di successo) rimane invariato. L’aveva smascherato Augustin Cochin in un memorabile saggio sugli inizi della Rivoluzione francese, dove mostrava tutti i meccanismi attraverso cui una minoranza determinata e combattiva riesce a imporre la sua volontà ad assemblee incerte e divise, in modo tale che alla fine il risultato, in realtà previsto e astutamente pilotato, appaia come una spontanea decisione collettiva.
L’hanno riutilizzato a iosa i sessantottini, che sono così riusciti a far passare come “movimento degli studenti” le velleità di gruppuscoli scapestrati.
Ma chi pensasse che, passata la sbornia rivoluzionaria, le manovre per manipolare assemblee e opinioni pubbliche fossero andate in pensione, deve ricredersi: sono semplicemente emigrate dai campus universitari ai felpati saloni dell’Onu.
«I profughi dell’ideologia degli anni Sessanta hanno trovato un paradiso all’interno delle Nazioni Unite, dove continuano a promuovere cause stantie con la solita retorica della marea conservatrice che dilaga negli Stati Uniti e nelle altre nazioni.
Marciatori per la pace degli anni Sessanta, promotori di una nuova religione, difensori del governo del mondo e ambientalisti radicali.
A loro si sono aggiunte le femministe la cui ideologia postmoderna è stata coltivata nei campus accademici dalle attiviste lesbiche militanti».
Al Forum è stata data pochissima pubblicità. Gli incontri, i luoghi, i tempi dei lavori e i temi che dovevano essere trattati non venivano annunciati in tempo utile. Sono state negate le credenziali a un gran numero di donne che non facevano parte del gruppo delle femministe.
Coloro che erano riuscite a presenziare al Forum si sono accorte che i loro contributi alla discussione venivano ignorati e le loro dichiarazioni di dissenso non venivano inserite nel rapporto della segreteria, nonostante fosse stato loro assicurato il contrario».
Tuttavia, la variegata banda dei rappresentanti pro-family (cattolici, protestanti, musulmani, indù, più scampoli vari, arrivati al Cairo senza un piano e spesso senza conoscersi l’un l’altro) riuscì a mettere in piedi un’opposizione che fermò almeno le tesi più estremiste.
Tutta quella storia, con i suoi oscuri retroscena, è raccontata dalla O’Leary in un libro da poco tradotto in italiano, Maschi o femmine? (Rubbettino). Tempi ha colto l’occasione per contattarla e chiederle un aggiornamento sulla situazione.
Dottoressa O’Leary, perché è tanto importante la questione del “genere”? Perché tanta enfasi negativa sul fatto che il termine “genere” rimpiazzi la parola “sesso”?
Perché è la chiave intorno a cui, da vent’anni, gira tutto il tentativo di buttare all’aria l’ordine naturale del mondo, senza darlo a vedere.
Adottare una prospettiva di genere, spiega un documento dell’Instraw, un istituto che fa parte dell’Onu, significa «distinguere tra ciò che è naturale e biologico e ciò che è costruito socialmente e culturalmente, e rinegoziare i confini tra il naturale e la sua inflessibilità, e il sociale».
In parole povere, rifiutare l’idea che l’identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, e affermare che ciascuno si costruisce il proprio “genere” fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie.
Le parole non sono innocenti. La strategia delle femministe radicali (o della “sinistra sessuale”, come la chiamo io, che comprende anche attivisti gay e professionisti dell’educazione sessuale) fa passare sotto termini apparentemente generici contenuti ben definiti.
Ad esempio uno degli organismi più attivi in questa battaglia contro la famiglia e per l’omogeneizzazione dei sessi, il Comitato permanente per l’attuazione del Cedaw (Convention on the Elimination of all Discriminations Against Woman, una sorta di carta dei diritti delle donne, adottata dall’Onu nel 1979, ndr), si dichiara neutrale rispetto all’aborto, termine che non compare mai nei suoi documenti; però quando parlano di “salute delle donne” intendono principalmente la lotta alla maternità, e i fondi per la “salute delle donne” vanno pressoché interamente a programmi per la diffusione della contraccezione e dell’aborto.
Una delle attività più impegnative delle organizzazioni pro-life è monitorare costantemente i documenti dell’Onu, sempre ispirati dai gruppi della sinistra sessuale, per snidare i termini a prima vista innocenti che nascondono invece precise strategie.
Restiamo sulla questione dei finanziamenti. Nel suo libro cita un operatore sanitario del Kenya: «I nostri scaffali sono pieni di pillole anticoncezionali, preservativi e spirali, ma non c’è una medicina». È ancora così?
Sì, nell’Africa subsahariana la sinistra sessuale continua a sostenere il preservativo come strategia per risolvere il problema dell’Aids, e si continuano a sperperare milioni in preservativi. Mentre le campagne a favore della fedeltà coniugale sono molto più efficaci, come dimostra il caso dell’Uganda.
Si è anche scoperto che gli affetti da malaria sono molto più esposti al rischio di contrarre il virus Hiv, perciò le campagne antimalaria sponsorizzate dal presidente Bush, che nei paesi in cui sono state applicate hanno ridotto i casi a meno del 10 per cento, sono al tempo stesso un mezzo di lotta all’Aids molto più efficace dei preservativi. Ma gli interessi economici si sposano con quelli ideologici.
Vuole spiegare quali sarebbero gli interessi economici e ideologici che si intrecciano nella “sinistra sessuale”?
Le faccio un esempio. Nell’aprile scorso il New York Times pubblicò un articolo in cui si raccontava di una donna di El Salvador condannata a trent’anni per aver abortito. El Salvador è uno dei pochi paesi in cui l’aborto non è legale, e il fatto scatenò una violenta campagna contro il paese. Un gruppo pro-aborto, Ipas, lanciò una raccolta di fondi per sostenere una campagna di opinione in Salvador e per appoggiare le istanze di scarcerazione della donna.
Poi rimbalzò la notizia che la donna non era stata affatto condannata per aver abortito, ma per aver strangolato la figlia, nata a termine viva e vegeta.
Ma il quotidiano ha resistito fino ai primi di gennaio prima di pubblicare, con mille distinguo, la verità. Nel frattempo è venuto fuori che il traduttore che aveva passato la notizia al giornalista del New York Times era legato a Ipas, e che Ipas, tra le sue svariate attività, annovera anche la vendita per telefono di una pompa a vuoto per l’aborto fai-da-te. È abbastanza chiaro?
Nel suo libro paventa che queste lobby arrivino addirittura a fare pressioni su interi paesi, facendo in modo che la concessione di aiuti internazionali sia legata all’accettazione di programmi che includano contraccezione e aborto. Funziona davvero così?
Esattamente. Si è appena conclusa la trentasettesima sessione di quel Comitato permanente per l’attuazione del Cedaw di cui abbiamo detto. Ebbene, il suo lavoro è consistito principalmente nel mettere sotto accusa i pochi paesi che ancora fanno politiche pro-family, come la Polonia, biasimata perché promuove la diffusione dei metodi naturali piuttosto che la contraccezione chimica, difende l’obiezione di coscienza dei medici antiabortisti, non rimborsa il costo dei contraccettivi.
Il rappresentante polacco ha risposto che, date le ristrettezze del budget per la sanità, il suo governo considera che i medicinali salvavita siano più importanti dei contraccettivi per la salute delle donne. Del resto, ormai nei documenti Onu si scrive salute ma si legge sessualità senza frontiere.
Pensi che perfino nel rapporto 2007 dell’Unicef sullo stato dell’infanzia nel mondo, appena pubblicato, si dice che il problema maggiore per la crescita dei bambini è il benessere della madri, che può essere garantito solo dalla diffusione di programmi per l’uguaglianza di genere.
Sulle azioni per combattere le malattie che si portano via ogni anno decine di milioni di bambini solo poche righe. L’ideologia del genere si è ormai infilata ovunque. Questo vuol dire milioni di dollari che vanno di qui piuttosto che di là.
Quello che è successo a Pechino – scrive lei – è importante perché ciò che è stato pianificato in quella sede raggiungerà ogni città, ogni scuola e anche ogni settore degli affari, a meno che tutto ciò non venga divulgato e non ci sia qualcuno che si alzi in piedi per dire il suo no». La ritiene una profezia che si è avverata?
Ahimé sì. Nelle università americane l’identità di genere è ormai un luogo comune. E contribuisce ad avvelenare i nostri ragazzi. Nei nostri campus, negli ultimi anni, il numero degli studenti depressi è raddoppiato e quello dei suicidi triplicato. In un libro appena pubblicato, Unprotected, una dottoressa del servizio sanitario dell’Università della California rivela come nei centri di salute e di orientamento universitari il buon senso ormai è stato rimpiazzato dalla politica radicale.
La sua professione, scrive, è stata sequestrata dagli “attivisti radicali” e gli studenti sono le vittime delle loro teorie: nessuno più ha il coraggio di dire ai giovani quali siano le inevitabili conseguenze di comportamenti sessualmente ambigui o senza freni. Tuttaltro: vengono incoraggiati ad adottare comportamenti che finiscono per distruggerli.
Dunque non c’è scampo alla pervasività della “sinistra sessuale”. O c’è?
Nella contea di Mongomery, nel Maryland, recentemente c’è stato un tentativo di introdurre un programma di educazione sessuale esplicita nelle scuole di tutti i livelli. I genitori hanno portato il distretto scolastico in tribunale e sono riusciti a fermare l’operazione. Evidentemente c’è ancora qualcuno che si alza in piedi a dire il suo “no”. La battaglia continua.