29 agosto 2015
di Anna Bono
I viaggi dall’Africa alla volta dell’Europa tramite le reti dei trafficanti possono durare anni, passando da uno stato all’altro, con lunghe soste, prima di raggiungere le coste del Mediterraneo. Sono viaggi molto costosi che richiedono somme di denaro ben superiori a quelle necessarie per percorrere le stesse distanze in autobus e con voli di linea, sufficienti in patria ad avviare o a migliorare delle imprese artigianali, agricole o commerciali. Inoltre sono viaggi pericolosi: la traversata del Mediterraneo non è che l’ultima incognita; prima, lungo le rotte via terra, molti emigranti corrono il rischio continuo di essere rapiti e uccisi, di soccombere alla fatica e ai disagi.
Chi affronta tutto questo e perchè? Sappiamo che in gran parte la motivazione non è un pericolo di vita incombente né la miseria estrema. Gli emigranti dall’Africa per lo più non stavano morendo di fame, non vivevano sotto le bombe o nel terrore di un regime spietato. Difatti pochi ottengono lo status di rifugiato.
Le riprese degli sbarchi, i filmati nei centri d’accoglienza e i reportage dai luoghi di provenienza evidenziano una netta prevalenza di giovani, maschi, istruiti, partiti da centri urbani dove avrebbero potuto continuare a vivere, così come fanno i loro coetanei rimasti a casa: in situazioni – condizioni abitative malsane, mancanza di spazio, di igiene, di infrastrutture e servizi… – che ai nostri occhi possono apparire invivibili, tanto si discostano dai nostri standard, ma che in Africa rappresentano già un traguardo rispetto alle centinaia di milioni di persone cronicamente denutrite e malnutrite, che vestono di stracci e abitano in ripari fatti di cartone e lamiere raccattati nelle discariche: stremate, giorno dopo giorno, dall’assillo di schivare il dolore e sopravvivere.
Forse una spinta fondamentale, per indurre a partire, è proprio data dalla paura di scendere prima o poi uno o più gradini nella scala sociale e ritrovarsi in quella situazione o ripiombarci dopo esserne usciti. Bastano una malattia, un incidente che rende invalidi, un maliteso con un vicino di casa vendicativo, la perdita di un familiare ben inserito, in grado di elargire favori, la distrazione di un funzionario che dimentica un documento e si finisce a vivere di espedienti, elemosina e rifiuti.
In realtà, basta la vecchiaia a far cadere nella povertà estrema chi, come la maggior parte degli africani, non può contare su forme di previdenza e assistenza sociale. La società africana infatti è cambiata. La vita tribale era basata su un progetto comunitario fondato a sua volta su un forte senso di appartenenza che teneva insieme tutti i membri viventi di un lignaggio e univa ogni generazione a tutte le altre, sia passate che future. I suoi principi fondanti ormai si incrinano e con essi la coesione famigliare, la dedizione dei giovani agli anziani e gli inscindibili vincoli di solidarietà tra classi di coetanei. Nuovi principi stentano ad affermarsi. Intanto della società tribale restano, benchè indebolite, le istituzioni intese a limitare le libertà personali, a sottomettere i giovani agli anziani, le donne agli uomini. Così milioni di africani si sentono, e di fatto sono, soli, privi di sostegno, ma al tempo stesso non indipendenti.
Negli ultimi decenni inoltre le opportunità di entrare nel pubblico impiego – la meta più ambita – sono molto diminuite. Nel frattempo i settori economici moderni non sono cresciuti abbastanza e con essi l’offerta di lavoro. Il destino di milioni di giovani inurbati è di accettare occupazioni al di sotto delle aspettative, restare disoccupati per anni, rimediare qualche lavoro nel settore informale, ricorrere a un parente più fortunato: un fenomeno che si aggrava man mano che sempre nuove ondate di emigranti si riversano dalle aree rurali nelle città.
Tutt’attorno corruzione e malgoverno, il merito che non paga, persone prive di qualità premiate dal successo, i ricchi, potenti e privi di scrupoli, che scialano ostentando sprechi sfrenati, pubblici e privati, i privilegi e la prepotenza di chi si avvale di reti clientelari vincenti: cause prime, queste, del mancato sviluppo, radici di un malessere economico, sociale e morale diffuso.
Ozio forzato e cattivi pensieri demoralizzano una generazione dopo l’altra. Quasi 25 anni fa la studiosa camerunese Axelle Kabou, autrice di E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?, scriveva a proposito di se stessa e dei suoi coetanei, a conclusione del suo eccellente saggio sulle cause del mancato sviluppo del suo continente: “Noi siamo una generazione oggettivamente privata del futuro”; era quella stessa generazione descritta pochi anni dopo nel capolavoro della letteratura africana di Ahmadou Kourouma, Aspettando il voto delle bestie selvagge.
Forse proprio nella frase di Kabou è contenuta la chiave per capire una delle motivazioni che spingono tanti africani, soprattutto giovani, a lasciare i loro paesi, le loro famiglie, a costo di morire: non una vita insopportabile di chi patisce fame e violenze, ma la prospettiva di una vita “oggettivamente privata del futuro”