Le orazioni collette del nuovo Messale tendono a separare grazia e condizione umana di peccato. La grazia, pur nominalmente richiamata, diventa un di più in fin dei conti superfluo. Così la preghiera, da mendicanza e stupore di fronte all’azione presente di Dio («Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei Tu che agisci»), diventa spunto di impegno futuro dell’uomo. I brani di Péguy indicano poeticamente la radice di questo moderno passaggio. Il povero domanda il necessario per vivere. L’intellettuale borghese parla
di Lorenzo Bianchi
Una traduzione nella quale «si percepisce chiaramente il tributo versato ad un certo clima culturale dell’epoca, e l’illusoria pretesa di volersi adattare a presunti criteri di modernità. Secondo quell’illusione distruttiva che, cioè, bastasse cambiare parole per attirare gli uomini di oggi al cristianesimo.
Se non è possibile dire se ci sia stata volontaria coscienza di quanto si veniva operando, certamente è evidente che la mancanza di quella umiltà che [ai traduttori] aveva richiesto e implorato Paolo VI rese non intelligenti di che cosa fosse realmente l’inimmaginabile scristianizzazione moderna» (cfr. 30Giorni n. 7/8, luglio/agosto 1996, pp. 86-87).
Quanto constatato per la traduzione italiana non è poi troppo diverso per altre traduzioni in lingua nazionale. Ma non è solo qui, nella traduzione, il punto. Certe trasformazioni terminologiche (e semantiche) dei testi hanno la loro prima origine nella transizione dal Messale stabilito dopo il Concilio di Trento più di quattrocento anni fa (Messale di san Pio V) a quello riformato dopo il Concilio Vaticano II: in misura minore con interventi di correzione di singole frasi o vocaboli; in misura molto maggiore con la scelta di orazioni diverse o con lo spostamento di molte di esse in altri luoghi del calendario liturgico.
La ristrutturazione dell’azione liturgica, infatti, ha portato alla scomparsa (o al confinamento in occasioni secondarie nel corso dell’anno) di numerosi testi del Messale di san Pio V; mentre la scelta di nuovi testi, anche se tratti dalla genuina tradizione liturgica della Chiesa (quasi tutti provengono da antichi sacramentari in uso prima del Messale di san Pio V), sembra talvolta essere stata compiuta con una attenzione particolare all’omissione di precisi termini o espressioni.
È un dato di fatto, riscontrabile con sufficiente chiarezza ad una puntuale analisi critica, il passaggio (avvenuto contrariamente a quanto intendeva il Concilio Vaticano II stesso) da una ricchezza (anche estetica) dei testi delle orazioni ad un loro sostanziale impoverimento (riscontrabile in certa verbosità), ed anche ad una certa generica banalizzazione.
Sono infatti numerosi i casi in cui la struttura della preghiera si è trasformata da domanda a didascalia, come se essa non nascesse né dalla reale e concreta condizione umana, né dall’esperienza della grazia che purifica dai peccati e ricrea la vita dell’uomo, ma nascesse invece a tavolino, da come una certa cultura ecclesiastica si immagina ottimisticamente l’uomo e il mondo d’oggi.
Non si tratta di un fatto accidentale, se anche viene dichiarato esplicitamente che gli interventi di correzione sono stati dettati dalla attenzione a non «porre in difficoltà la psicologia dell’uomo d’oggi, che sente altri problemi, ha un diverso modo di pensare, vive anche in una situazione materiale e disciplinare diversa» (C. Braga, Il nuovo Messale Romano, in Ephemerides liturgicae 84, 1970, p. 272).
Naturalmente si potrà, nel caso specifico considerato in queste pagine (le orazioni collette dei giorni festivi), difendere comodamente la ortodossia e la bellezza di ogni singola orazione del Messale riformato da Paolo VI, tanto più che rarissime sono quelle di nuova composizione che non provengono dalla tradizione eucologica (anche se non mancano esempi di trasposizione di orazioni degli antichi sacramentari con varianti ingiustificate); ma ciò che colpisce nell’analisi dei testi sono i fenomeni che si constatano nel complesso delle orazioni.
Lungi però dal voler qui pretendere di avviare discussioni sul piano degli esperti di liturgia. Si vogliono semplicemente evidenziare le differenze di testo e significato tra alcune parti del Messale di san Pio V e di quello riformato da Paolo VI che, nella pratica, risaltano all’orecchio del comune fedele.
Proprio per questo motivo si è deciso di considerare nell’analisi comparativa, tralasciando quelle dei giorni feriali, solamente le orazioni delle domeniche e feste di precetto, perché sono quelle ascoltate, di regola, dalla maggioranza dei fedeli (almeno quelli che compiono il minimo gesto di appartenenza richiesto dalla Chiesa, cioè l’adempimento del precetto festivo), e quindi hanno evidentemente più valore e significato per comprendere, nei cambiamenti terminologici subiti dai testi, che cosa viene oggi proposto e trasmesso al popolo cristiano.
La riforma del Messale Romano e le orazioni
«La tradizione deve inserirsi nel contesto storico di ogni tempo, tnendo fede ai principi dottrinali, ma adattandosi sul piano pratico delle attuazioni. […] In questa linea si inserisce pure l’utilizzazione con gli opportuni adattamenti del tesoro eucologico del passato. Alcune affermazioni sono state cambiate per adeguare la teologia al linguaggio del Vaticano II
Allora, come ora, è lo Spirito Santo che assiste la sua Chiesa; non cambia la sostanza, ma si adegua la forma. […] Il nuovo Messale contiene 81 prefazi e 1600 orazioni, più del doppio del precedente, i cui testi sono stati quasi tutti utilizzati, opportunamente ritoccati quando se ne è ravvisata la necessità perché fossero in armonia con la riforma e la dottrina del Concilio Vaticano II.
Inoltre, tutto il ricchissimo e splendido tesoro eucologico della Chiesa, contenuto nei sacramentari, nelle collezioni manoscritte, nelle liturgie occidentali e orientali, nei riti particolari è stato ampiamente utilizzato. Dove per le nuove necessità non c’erano modelli precedenti […] gli esperti hanno posto in opera i loro talenti e la loro grazia» (A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1983, pp. 390. 392).
Le parole di Bugnini sintetizzano il lavoro svolto, all’interno del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia (organo istituito il 13 gennaio 1964 da Paolo VI per l’attuazione pratica della costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium), dal gruppo di studio 18 bis, diretto dal padre Placido Bruylants, benedettino di Mont-César (Lovanio), con segretario Giovanni Lucchesi; i membri erano André Rose, Walter Dùrig, Henry Ashworth, Juan A. Gracias, Antoine Dumas.
Le orazioni del Temporale furono tutte revisionate in una adunanza tenuta a Lovanio dal 5 ali’11 aprile 1965, quando il Consilium non si era ancora pronunciato sui criteri da adottare.
Lo fece solo nella sua settima adunanza generale (6-14 ottobre 1966), stabilendo i seguenti principi: «La revisione sarà fatta in base al criterio di aumentare il numero dei testi, in modo da evitare le numerose e non necessarie ripetizioni che si riscontrano oggi; di rivedere i testi sugli originali, restituendo la pienezza di significato, anche teologico, qualche volta alterato; di sostituire opportunamente espressioni che oggi hanno perso gran parte del loro significato (ad es. il solo accenno al digiuno corporale nelle orazioni della Quaresima) con altre più consentanee alle condizioni di oggi.
Il numero delle orazioni potrà essere aumentato non soltanto riprendendo testi dei sacramentari ma anche componendone di nuovi attraverso una oculata centonizzazione, che utilizzi e congiunga opportunamente tra loro elementi di orazioni diverse, esistenti negli stessi sacramentari» (Bugnini, p. 393).
Delle orazioni si trattò in particolare il giorno 14 ottobre; ma quattro giorni dopo, il 18, il relatore padre Placido Bruylants morì improvvisamente, lasciando il lavoro di revisione incompiuto. Come relatore del gruppo di studio presso il Consilium gli successe il padre Antoine Dumas.
Il gruppo di studio lavorò con ampia autonomia per altri due anni, tanto che il Consilium ritornò ad esaminare le ultime questioni relative ai testi delle orazioni 1’8 ottobre 1968, nella sua undicesima adunanza, quando ormai i libri liturgici erano praticamente pronti e già cominciavano ad essere approntate le prime traduzioni.
Un’ultima e definitiva revisione del lavoro relativo alle orazioni della messa fu compiuta al momento della composizione del Messale con la collaborazione del padre Carlo Braga (già membro, dal 1960, della Commissione per la riforma liturgica e in seguito consultore, dal 1969, della Congregazione per il culto divino) e in collegamento con la Congregazione per la dottrina della fede (cfr. Bugnini, p. 394). Il 3 aprile 1969 fu promulgato, come già detto sopra, il nuovo Messale.
I testi comparati
Ai 66 testi presenti nel Messale riformato da Paolo VI per le orazioni collette festive corrispondono 68 testi nel Messale di san Pio V (la diversità del numero è dovuta allo spostamento, nel nuovo calendario liturgico, di alcune feste alla domenica).
Una prima comparazione può essere fatta in merito alla scelta dei testi e alla loro collocazione. Se si prende come base l’attuale Messale, si constata che solamente 22 orazioni presentano una corrispondenza assolutamente letterale con le collette festive presenti nel Messale di san Pio V, anche se non nello stesso luogo; in un altro caso, la corrispondenza è con una orazione feriale.
Altre 4 orazioni presentano poi leggere varianti non significative per il senso. Escluse queste 27 orazioni, di tutte le 39 rimanenti ben 30 (cioè quasi la metà delle 66 totali) non hanno alcuna corrispondenza con il Messale di san Pio V; le altre 9 hanno sì una corrispondenza, ma con varianti che più o meno ne diversificano il significato: per fare solo un esempio della portata di tali varianti, si può citare l’orazione dell’attuale ultima domenica del tempo ordinario, festa di nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, dove la frase originaria, indubbiamente più realistica, concreta ed espressiva, ut cunctae familiae gentium, peccati vulnere disgregatele, eius suauissimo subdantur imperio (“perché tutte le nazioni del mondo, disgregate dalla ferita del peccato, si sottomettano al suo dolcissimo regno”), è sostituita dalla nuova composizione, certo più didascalicamente generica, ut tota creatura, a servitute liberata, tuae maiestati deserviat ac te sine fine collaudet (“perché tutta la creazione, liberata dalla schiavitù, serva alla tua maestà e ti lodi senza fine”).
Se si prende invece come base il Messale di san Pio V, si nota che sono ben 33 (cioè quasi la metà del totale, che è 68) le collette festive che non compaiono più tra le festive del Messale di Paolo VI: 11 sono state spostate in posizione secondaria, in giorni feriali; mentre 22 (cioè praticamente un terzo del totale) sono del tutto scomparse.
Dunque, solo per circa la metà delle orazioni collette festive il nuovo Messale recupera i testi di quello precedente; ed è anche significativo che quasi tutte le corrispondenze siano raggruppate nelle domeniche del tempo ordinario, mentre in altri specifici periodi del tempo liturgico, quali ad esempio l’Avvento, il tempo di Natale e la Quaresima (cfr. tabella 2 e tabella 3, delle quali si discuterà più oltre), si è sostituita la quasi totalità delle orazioni.
Perché questa grande differenza tra i due messali? I riformatori del dopo Concilio Vaticano II hanno lavorato alla rielaborazione del corpus delle orazioni rifacendosi direttamente ad una serie di antichi sacramentari attribuibili ad un’epoca tra il V e il IX secolo, ai quali peraltro aveva già abbondantemente attinto anche lo stesso Messale di san Pio V, ma senza tenere in considerazione di assoluta preminenza, come si evidenzia dalle scelte fatte, il Messale di san Pio V, con una operazione forse dettata anche, almeno in parte, da un non necessario archeologismo.
Anche rispetto agli antichi testi utilizzati sono state comunque introdotte delle varianti. In quasi due terzi dei casi (40) la fonte viene seguita con fedeltà assoluta; per il terzo rimanente, si tratta di più o meno ampie rielaborazioni, ottenute unendo fra di loro due o anche tre testi (24 casi, dei quali 3 sono parziali nuove composizioni), e, sporadicamente, di totalmente nuove composizioni (per esempio nella festa del Battesimo del Signore).
Queste rielaborazioni, se nella maggioranza dei casi si limitano solamente a correzioni o miglioramenti sintattici o terminologici, talvolta presentano trasformazioni semantiche significative, all’apparenza ingiustificate: ad esempio nelle orazioni della IV e della V domenica di Pasqua (quest’ultima replicata nella XXIII domenica del tempo ordinario) vengono cancellate senza motivo due frasi che contengono il participio renati (domenica IV di Pasqua: Omnipotens sempiterne Deus, deduc nos ad societatem caelestium gaudiorum, ut eo perveniat humilitas gregis, quo processa fortitudo pastoris [“Dio onnipotente ed eterno, guidaci alla comunione dei gaudi celesti, perché l’umiltà del gregge pervenga là dove è giunta la forza del pastore”]; mentre la fonte [Sacramentario Gelasiano, 524] riporta Omnipotens sempiterne Deus, deduc nos ad societatem caelestium gaudiorum, ut Spiritu sancto renatos regnum tuum tribuas introire, atque in ea perveniat humilitas gregis quo processit fortitudo pastoris [“…perché tu conceda ai rinati per mezzo dello Spirito santo di entrare nel tuo regno…”].
Domenica V di Pasqua: Deus, per quem nobis et redemptio uenit et praestatur adoptio, filios dilectionis tuae benignus intende, ut in Christo credentibus et vera tribuatur libertas et hereditas aeterna [“Dio, dal quale ci è venuta la redenzione e ci è donata l’adozione, guarda benigno ai figli del tuo amore, perché ai credenti in Cristo sia concessa la vera libertà e l’eredità eterna”]; mentre la fonte [Sacramentario Gelasiano, 522] riporta Deus, per quem nòbis et redemptio uenit et praestatur adoptio, respice in opera misericordiae tuae, ut in Christo renatis et aeterna tribuatur hereditas et vera libertas [“…guarda all’opera della tua misericordia, perché ai rinati in Cristo…”]).
Un altro esempio simile è nella messa del giorno della domenica di Pasqua. La fonte (Sacramentario Gelasiano, 463) ha: Deus, qui hodierna die, per Unigenitum tuum, aeternitatis nobis aditum, devicta morte, re-serasti, da nobis, quaesumus, ut, qui resurrectionis dominicele sollemnia colimus, per innouationem tui Spiritus a morte animae resurgamus; il testo del Messale di Paolo VI sostituisce invece l’espressione a morte animae resurgamus (“risorgiamo dalla morte dell’anima“) con in lumine vitae resurgamus (“risorgiamo nella luce della vita“).
Quanto finora detto può far dunque comprendere di quale notevole portata sia stata, nella scelta e nella disposizione dei testi, la riforma del Messale Romano operata dopo il Concilio Vaticano II. Ma un altro aspetto di enorme importanza, di cui non può non tenersi conto, riguarda le specifiche e sostanziali trasformazioni nel lessico (e dunque nei concetti); su queste una maggior luce la fornisce l’analisi della comparazione di alcuni termini essenziali e significativi utilizzati, sempre per ciò che riguarda le orazioni collette, dai due diversi messali.
Si esamini la tabella 1, dove è messa a confronto la quantità delle ricorrenze di questi termini significativi, raggruppati per affinità di significato o ambito. Si noterà innanzitutto che quelli che indicano condizione umana di peccato, pericoli che provengano dal mondo esterno e azioni compassionevoli di Dio verso l’uomo sono, nel Messale di san Pio V, più del doppio che nel Messale di Paolo VI.
Nello stesso tempo, non diminuisce in quest’ultimo, anzi si incrementa quasi del doppio, la presenza dei termini gratia, donum, dilectio (“grazia“, “dono“, “predilezione“).
Che cosa fanno intuire, nella sostanza, i dati di questi raffronti terminologici? Sintetizzano e rendono palese, nel complesso, un fenomeno che si riscontra puntualmente nel particolare delle singole orazioni: le orazioni del Messale di Paolo VI tendono a separare grazia e condizione umana di peccato, a non esplicitarne l’imprescindibile rapporto.
Se viene dimenticata, o meglio evacuata, cioè resa non significante, la realtà della condizione umana, segnata dal peccato originale, anche la grazia pur nominalmente richiamata diventa un di più in fin dei conti superfluo, non necessario alla vita, che potrebbe ugualmente e comunque svolgersi senza di essa. In questo si evidenzia una concezione pelagiana: che non si esplicita affatto nel non parlare della grazia, ma nel separarla dalla considerazione realistica della condizione dell’uomo, nel rendere la grazia di Gesù Cristo una aggiunta non necessaria.
Un soprammobile, appunto.
La conseguenza formale (e sostanziale) di questa separazione, nei testi, è la frequente trasformazione delle collette in didascalia: l’orazione non è domanda reale piena di drammaticità, non è implorazione dell’aiuto di Dio in una questione letteralmente di vita o di morte, ma una semplice presa di coscienza di una condizione già automaticamente data.
E quindi la predilezione di Dio, sia pure molto presente nelle collette del Messale di Paolo VI, non ha più un contenuto specifico particolare: tutte le particolarità tendono invece ad essere svuotate in un generico universalismo, come dimostra anche la progressiva rimozione di qualunque accenno ai nemici interni ed esterni della condizione cristiana.
La dinamica di rapporto tra l’uomo e Dio muta quindi inevitabilmente da domanda concreta, anche materiale nel senso più comune del termine, ad impegno. Proprio perché è diversa la concezione della condizione umana, si domanda l’aiuto per un impegno, ed è l’esito di questo impegno il risultato ritenuto significante, anzi salvifico.
Illustrano bene questa trasformazione gli esempi delle orazioni collette di due specifici periodi del tempo liturgico, l’Avvento con il tempo di Natale, e la Quaresima, per i quali la riforma voluta dal Concilio ecumenico Vaticano II ha completamente modificato il Messale di san Pio V.
In un recente commento, la trasformazione delle orazioni dell’Avvento è stata portata quale positivo esempio della buona riuscita della riforma: «II criterio che ha guidato l’emigrazione o la sostituzione di queste o di altre formule è certo dovuto alla ricerca di una loro maggiore corrispondenza al disegno -semplificato ed essenzializzato, ed insieme più esigente – con cui si è voluto che dalla celebrazione liturgica nel corso dell’anno risaltasse con maggiore incisività e rigore lo svolgersi dell’unico mistero salvifico che investe la creazione, l’uomo e la storia, e coinvolge Dio nell’incarnazione, morte e resurrezione del suo Figlio, e nel suo glorioso ritorno. Così […] un confronto fra le attuali collette delle domeniche d’Avvento con quelle del Messale precedente fa risaltare facilmente il disegno con cui si è voluto dare rilievo al duplice aspetto dell’attesa della Chiesa, volta alla duplice venuta del Signore.
Si vedrà infatti che le collette delle prime due domeniche fanno esplicito riferimento alla seconda venuta, ripreso anche in molte delle ferie seguenti con chiari rimandi evangelici al discorso escatologico e alle parabole della vigilanza; mentre le collette delle altre due domeniche e delle ferie precedenti il Natale contemplano dichiaratamente il mistero della “nuova” nascita dell’Unigenito Dio e del parto verginale. In particolare, la colletta della IV domenica è una mirabile sintesi che racchiude, nella preghiera di esserne partecipi, tutto il mistero di Cristo dall’incarnazione alla risurrezione» (M.F.T. Levato, Messale Romano. Le orazioni proprie del tempo, Reggio Emilia 1991, pp. 11-12).
Andando però ad esaminare più concretamente, nelle forme e nei termini, le quattro collette dell’Avvento, alle quali aggiungiamo le tre della festa di Natale, la comparazione tra i due messali (tabella 2) propone anche un altro genere di considerazioni.
Non si può non notare, in primo luogo, il singolare fatto che quello di Paolo VI ha mantenuto unicamente le due (messa della notte e messa dell’aurora di Natale) in cui non vi era il termine peccato o comunque espressioni a questo concetto esplicitamente collegate (ad esempio purificatis mentibus, liberei, vetusta servitus, mentis nostrae te-nebras, indulgentia), al contrario, queste espressioni hanno per corrispondente, nelle nuove orazioni (in particolare le prime tre dell’Avvento), frasi che, sottacendo la fragilità della condizione umana, tendono a evidenziare (in particolare se si tiene presente come certi termini vengono comunemente recepiti) l’aspetto di impegno dell’uomo: iustis operibus occurrentes (“andando incontro con opere giuste”, domenica I di Avvento); in tui occursum Filli festinantes nulla opera terreni actus impediant (“affrettandoci incontro al tuo Figlio non ci trattenga alcuna opera dell’agire terreno”, domenica II di Avvento).
In secondo luogo, mentre la parola grazia nel Messale di san Pio V è sempre in rapporto con termini descrittivi della condizione umana di peccato (domenica III di Avvento: mentis nostrae tenebras… gratia tuae visitationis; domenica IV di Avvento: per auxilium gratiae tuae… nostra peccata), nel Messale di Paolo VI, dove essa appare, questo rapporto manca (domenica IV di Avvento: gratiam tuam, Domine, mentibus nostris infunde [“infondi, Signore, la tua grazia nelle nostre menti”]).
In terzo luogo, tende a cambiare la struttura delle frasi: nel Messale di san Pio V si ritrova un uso assolutamente più continuo e pressante dell’imperativo: excita (“suscita”), veni (“vieni”), aurem tuam precibus nostris accommoda (“rivolgi il tuo orecchio alle nostre preghiere”), illustra mentis nostrae tenebras (“rischiara le tenebre della nostra mente”), da (“da’”), concede (“concedi”), succurre (“soccorri”); nel Messale di Paolo VI prevale invece il congiuntivo finale/consecutivo. Si passa cioè anche sintatticamente dal grido che domanda, da una dinamica di pura domanda, ad una frase sostanzialmente descrittiva.
Al contrario delle orazioni dell’Avvento, spostate nella maggior parte nei giorni feriali, quelle delle cinque domeniche della Quaresima sono del tutto scomparse nel passaggio dal Messale di san Pio V a quello di Paolo VI. Anche per queste orazioni (cfr. tabella 3) valgono le stesse considerazioni fatte per quelle dell’Avvento.
Nel Messale di Paolo VI, solo nella colletta della III domenica di Quaresima si trova, nello stesso testo, la menzione della realtà di peccato dell’uomo e della misericordia di Dio; nelle altre questo riferimento manca, come non si trovano più tutti i termini “negativi” che si leggevano nei testi del Messale di san Pio V (peccatum. adversitates, pravae cogitationes, humiles, affligi).
Anche testi con espressioni immediatamente significanti e concrete (quale per esempio, nella III domenica di Quaresima, ad defensionem nostram dexteram tuae maiestatis extende [“stendi, a nostra difesa, la destra della tua maestà”]) sono scomparsi, evidentemente considerati tra quelli bisognosi di essere allontanati o corretti perché «troppo negativi, moraleggianti o polemici» (per usare le parole di M. Auge, Le collette del Proprio del Tempo nel nuovo Messale, in Ephemerides liturgicae 84,1970,p.298).
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«La Chiesa nel mondo moderno, socialmente, non è più che una religione da borghesi. Una miseranda specie di religione distinta per persone notoriamente distinte»
Grazie a questo modernismo, la Chiesa nel mondo moderno, la cristianità, nel mondo moderno, non è più plebea, com’era, non lo è assolutamente più; non è più così socialmente un popolo, un immenso popolo, una razza, immensa; il cristianesimo non è più socialmente la religione delle profondità, una religione plebea, la religione di tutto un popolo, temporale, eterno, una religione radicata nelle più grandi profondità temporali, la religione di una razza, di tutta una razza temporale, di tutta una razza eterna; al contrario, socialmente, non è più che una religione da borghesi, una religione da ricchi, una specie di religione superiore per classi superiori della società, della nazione, una miseranda specie di religione distinta per persone notoriamente distinte; di conseguenza, quanto c’è di più superficiale, in un certo senso di più ufficiale, di meno profondo, di più inesistente; quanto c’è di più squallidamente, di più miseramente formale; e d’altro canto, soprattutto, quanto c’è di più contrario alla sua istituzione; alla santità, alla povertà, anche all’aspetto più formale della sua istituzione.
Alla virtù, alla lettera e allo spirito della sua istituzione. Della sua propria istituzione. Basta fare riferimento a un qualunque testo dei Vangeli.
Basta fare riferimento a quell’insieme che nella sua interezza è bene chiamare il Vangelo. […]
Per questo, quando si fa veder loro la vecchia cristianità, quando sono posti di fronte a quello che era in realtà una parrocchia francese dell’inizio del quindicesimo secolo, al tempo in cui esistevano le parrocchie francesi, quando vengono mostrate loro, quando si fa veder loro che cos’era realmente la cristianità, al tempo in cui esisteva una cristianità, che cos’era una grande santa, forse la più grande di tutte, al tempo in cui esisteva la santità, al tempo in cui esisteva la carità, al tempo in cui esistevano delle sante e dei santi, tutto un popolo cristiano, tutto un mondo cristiano, tutto un popolo, tutto un mondo di santi e di peccatori, subito alcuni dei nostri cattolici moderni, moderni senza saperlo, ma profondamente moderni, fino nel midollo, intellettuali senza saperlo e che si vantano di non esserlo, ma sempre intellettuali, profondamente intellettuali, intellettuali fino al midollo, borghesi e figli di borghesi, gente che vive di rendita e figli di gente che vive di rendita, pensionati del governo, pensionati dello Stato, funzionari, pensionati degli altri, degli altri cittadini, degli altri elettori, degli altri contribuenti, i quali, con molta accortezza hanno fatto iscrivere sul Gran Libro del Debito Pubblico l’assicurazione, modesta d’altronde, del loro pane quotidiano, così armati, alcuni di questi contemporanei cattolici, di fronte ad una improvvisa rivelazione dell’antica, della vecchia, dell’antica grande cristianità, si mettono subito a gridare, come per un’offesa al pudore. Se fosse necessario, rinnegherebbero Joinville perché troppo rozzo, perché troppo plebeo. Il sire di Joinville. Forse rinnegherebbero anche san Luigi. Perché troppo re di Francia.
(C. Péguy, NotreJeunesse)
«Il peccato e insieme la grazia sono le due operazioni della salvezza, ermeticamente articolate Cuna sull’altra» Se volessi usare un linguaggio cristiano, direi che anche per il peccato non tutti sono buoni. C’è una scelta ed una elezione dello stesso peccato. Le nature che sono buone per il peccato sono della stessa natura, dello stesso regno di quelle che sono buone per la grazia. E la grazia e il peccato sono due operazioni proprie dello stesso regno.
Molti sono chiamati, pochi sono eletti. E all’esterno c’è un’immensa turba che nello stesso tempo non è buona né per il peccato né per la grazia. Perché il peccato e insieme la grazia sono le due operazioni della salvezza, ermeticamente articolate l’una sull’altra. E all’esterno c’è l’immensa turba di coloro che non sono neanche capaci di peccare, e che chiamerei gli intellettuali e gli intellettualisti nell’ordine del peccato; della grazia; della salvezza.
Sono convinto che lo stesso avviene in tutti gli ordini e che vi sono pochissimi esseri che siano buoni per la felicità, come vi sono pochissimi esseri che siano buoni per l’infelicità. E all’esterno vi è l’immensa turba degli esseri che nello stesso tempo e con lo stesso movimento, per la stessa incapacità, per la stessa sterilità, per la stessa infecondità, non sono buoni né per la felicità né per l’infelicità. E che chiamerò gli intellettuali nell’ordine della felicità. Pochissimi sono gli esseri toccati, per coloro che conoscono veramente la natura della propria cristianità. E all’esterno c’è l’immenso regno della mancanza di grazia che consiste nel non saper neanche di che cosa si parla.
(C. Péguy, Note sur M. Bergsonetla philosophie bergsonienne)
«Perdono continuamente di vista quella precarietà che è per il cristiano la condizione più profonda dell’uomo» Non sono cristiani, voglio dire che non lo sono fin nel midollo. Perdono continuamente di vista quella precarietà che è per il cristiano la condizione più profonda dell’uomo; perdono di vista quella profonda miseria: e non tengono presente che bisogna sempre ricominciare.
Sono nella tranquillità, nella contentezza: nel moderno.
Anch’essi sono nel risparmio: nel cuore del moderno. Versano alla cassa di risparmio dei sistemi come altri vi versano delle economie, altre economie. E credono di essere a posto. E che non c’è altro da fare che attendere e riscuotere le rendite.
Ciò che chiamano cristiano è un sistema del cristiano concepito da moderno, un sistema preso in prestito dal cristiano e riportato, ricalcato, immobilizzato nel reticolato del mondo moderno.
Confondono sempre la storia con l’avvenimento, la carta geografica con il terreno, la geografia con la terra. […]»
L’idea di una acquisizione eterna, l’idea di una acquisizione definitiva e che non sarà più contestata è ciò che c’è di più contrario al pensiero cristiano. L’idea di un dominio eterno e definitivo e che non sarà più messo in discussione è ciò che c’è di più contrario al destino dell’uomo, nel sistema del pensiero cri stiano.
Una disputa e una battaglia eterna. E una precarietà eterna. Niente di acquisito è acquisito per sempre. Ed è la condizione stessa dell’uomo. Ed è la condizione più profonda del cristiano.
(C. Péguy, Note conjointesur M. Descartes et la philosophie cartésienne)
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Quando la secolarizzazione toccò il popolo
II passaggio dal Messale di san Pio Va quello attuale evidenzia il degrado della mistica (che è sempre domanda dell’intervento di Dio) a impegno etico
di Gianni Baget Bozzo
E’ significativo che si riapra un dibattito sulla riforma liturgica. Ai suoi giorni, vi fu un dibattito nella Chiesa, soffocato quasi con violenza. Penso a La tunica inconsutile di Tito Casini. Penso alle opposizioni dei cardinali Ottaviani e Bacci alla introduzione del Messale Romano riformato. La riforma liturgica non era una richiesta del popolo cristiano, il popolo credente non ha mai amato i mutamenti nel volto esteriore e simbolico della sua religione.
Nel dopo Concilio avvenne una rapida secolarizzazione della teologia: il momento in cui la secolarizzazione toccò il popolo fu quello della riforma liturgica. Ci fu la riduzione della preghiera cristiana al culto pubblico, ponendo da lato il tema della religione personale, come la chiamava il padre De Grandmaison, che è la vita mistica «nascosta con Cristo in Dio» del credente.
L’azione pubblica ha reso marginale la vita interiore, la preghiera silenziosa. Ha diminuito l’adorazione, che, centrata attorno al tabernacolo, era il cuore del cattolicesimo. Senza il momento dell’adorazione, in cui l’uomo si pone innanzi alla gloria divina, riconosce la sua debolezza e si affida alla divina Potenza, la religione non ha realtà. L’islam ha conservato la sua natura sociale di comunità perché ha mantenuto l’adorazione.
Esiste ancora l’adorazione nella vita comune dei cattolici, il sentimento della dipendenza? E il timore di Dio, il timore del giudizio divino, che è l’inizio della sapienza? Dire che Dio è amore non significa che Dio sia bonarietà, indifferenza. È un’antica tesi gnostica la separazione del creatore dall’Abba di Gesù. Oggi la troviamo diffusa in forma criptica. Il Dio che piace ai teologi del nostro tempo deve essere “un Dio affidabile”.
Il Dio amore domanda l’amore, che è un’esigenza più radicale e profonda del timore, ma nasce soltanto da esso. Non perché Dio ami essere temuto, egli ama essere amato, ma il timore di Dio è il modo in cui l’uomo si apre a Dio, ne sente la mancanza. Il modello di preghiera cristiano (i salmi) ha molti temi, ma uno è centrale: la mancanza di Dio.
Il tema del peccato non è nella Bibbia un tema etico: è il sentimento che Dio manca all’uomo. Gli manca interiormente ed esteriormente, il salmista ne chiede la presenza interiore e, al tempo stesso, l’assistenza esteriore. Prega come un tutto: spirito, anima, corpo, persona, popolo di Dio. Ma in tutti i soggetti e in tutte le forme l’uomo dichiara a Dio di sentirsi lontano da lui e di avere bisogno di lui. Il peccato biblico non è la colpa della psicoanalisi, non è una categoria della morale, né una struttura dell’angoscia.
È una dimensione il cui senso sta nel fatto che Dio è presente, il salmista si rivolge a lui, gli domanda di vivere in lui, di abitare nella sua casa, di essere liberato dai suoi nemici, dalla morte. Il peccato è nei salmi la differenza reale e concreta tra Dio e l’uomo e, al tempo stesso, la loro essenziale relazione. Ed è la diversità stessa che esprime la relazione, l’invocazione che chiede l’intervento nella storia e nel cuore del Dio alla cui presenza si rivolge la parola. Il peccato biblico è una dimensione mistica: per questo suppone che Dio sia amore.
Nel momento in cui proclama la lontananza, il salmista sa la presenza e chiede di essere penetrato, investito, trasformato dall’amore di Dio. È ciò che dice splendidamente il Salmo 72: «Che cosa c’è per me in cielo? Se sono con te non mi attira la terra, Dio, roccia del mio cuore e mia parte per l’eternità». Questa premessa vale per intendere le osservazioni acute e incisive fatte da Lorenzo Bianchi sulle collette del Messale Romano. E due mi sembrano le note più significative dell’articolo, che mostrano la decadenza mistica dal Messale di san Pio V a quello attuale.
La sostituzione dell’indicativo all’imperativo è la prima. La preghiera chiede una azione di Dio interiore ed esteriore, attende una azione divina, domanda che la presenza, innanzi a cui sta l’orante, divenga divino intervento. La preghiera è rivolta al Tu divino perché si manifesti nella vita interiore ed esteriore del credente. L’imperativo indica il bisogno e l’attesa, le due forme che costituiscono, per parte umana, il rapporto con Dio.
L’indicativo indica una realtà già data, non una realtà attesa: la mistica è sempre, da parte dell’uomo, domanda dell’intervento divino. Anche la mistica del distacco dal mondo, come la renano-fiamminga, sa bene che il distacco è un dono di Dio, l’essere penetrato dalla sua gloriosa essenza.
Il secondo elemento che qui si nota è l’accento messo non sul soccorso divino, ma sull’opera umana che ne è il risultato. La dimensione mistica degrada in categoria etica.
Lex orandi, lex credendi: preghi come credi. Ciò significa che la differenza tra le due liturgie incide sulla realtà della vita ecclesiale e tende a costruire un modello di Chiesa in cui la dimensione comunitaria prevale su quella personale, il fascino immediato delle opere sociali diviene una diminuzione della interiorità e della profondità della fede. È dalla dimensione spirituale che,si misura l’autenticità ecclesiale. È dunque giusto affrontare in modo aperto il tema della Lex orandi perché essa incida nel profondo della realtà ecclesiale.
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La legge della fede deve stabilire la legge della preghiera
(Mediator Dei n.40)
Concilio di Cartagine (418) Canone 5
Così pure è piaciuto [ai vescovi stabilire che] chiunque dica che la grazia della giustificazione ci è data a questo fine, affinchè mediante la grazia possiamo più facilmente compiere quanto ci è comandato di fare con il libero arbitrio, come a dire che, se la grazia non ci fosse data, certamente non con facilità, ma tuttavia potremmo anche senza di essa compiere i divini precetti, sia scomunicato. Il Signore infatti, riferendosi proprio al frutto dei precetti, non disse: «Senza di me più difficilmente potete fare», ma disse: «Senza di me non potete far nulla» [Gv 15, 5]. (Denzinger-Schonmetzer 227)
Indiculus (430 circa) Capitolo 3
Nessuno, anche se rinnovato dalla grazia del battesimo, è capace di superare le insidie del diavolo e di vincere le concupiscenze della carne, se non riceve attraverso il quotidiano aiuto di Dio la perseveranza nel conservare il bene. Lo conferma, nelle stesse pagine, l’insegnamento del medesimo pontefice Innocenzo: «Infatti Dio, benché abbia redento l’uomo dai peccati passati, sapendo tuttavia che poteva peccare ancora, si riservò molti modi con i quali poterlo nuovamente risollevare – anche una volta caduto nel peccato -, concedendogli aiuti quotidiani; se su questi aiuti non ci appoggiamo con forza e fiducia, non potremo in alcun modo vincere gli errori umani. È infatti inevitabile che, come vinciamo con il Suo aiuto, così d’altra parte senza il Suo aiuto siamo vinti». (Denzinger-Schonmetzer 241 )
Concilio di Trento Sessione VI (13 gennaio 1547)
Decreto sulla giustificazione
Capitolo XIII Del dono della perseveranza
Similmente, per quanto riguarda il dono della perseveranza [can. 16], di cui sta scritto: «Chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo» [Mt 10, 22; 24, 13] (dono che non si può avere se non da Colui che ha tanta potenza da mantenere in piedi colui che già vi è [cf Rm 14, 4], perché perseveri, e da rialzare colui che cade), nessuno si riprometta qualche cosa con assoluta certezza, quantunque tutti debbano nutrire e riporre fiducia fermissima nell’aiuto di Dio. Dio, infatti, se essi non vengono meno alla sua grazia, come ha cominciato un’opera buona, così la porterà a compimento [cfr. Fil 1,6], suscitando il volere e l’operare [cfr. Fil 2,13; can. 22].
Tuttavia quelli che credono di esser in piedi, guardino di non cadere [cfr. 1 Cor 10, 12], e lavorino per la propria salvezza con timore e tremore [cfr. Fil 2,12], nelle fatiche, nelle veglie, nelle elemosine, nelle preghiere, nei digiuni e nella castità [cfr. 2 Cor 6 3ss]. Proprio perché sanno di essere rinati alla speranza della gloria [cfr. 1 Pt 1, 3] e non ancora alla gloria, devono temere per la battaglia che ancora rimane contro la carne, contro il mondo, contro il diavolo, nella quale non possono riuscire vincitori, se non ubbidiranno con la grazia di Dio all’Apostolo! che dice: «Noi siamo debitori, ma non verso la carne, così da vivere secondo la carne. Se vivrete secondo la carne, morrete; se invece per mezzo dello Spirito farete morire le opere della carne, vivrete» [Rm 8, 12-13]. (Denzinger-Schonmetzer 1541 )
Canone16
Se qualcuno afferma, con infallibile ed assoluta certezza, che egli avrà certamente il grande dono della perseveranza finale (a meno che non abbia appreso ciò per una speciale rivelazione): sia anatema.
Canone 22
Se qualcuno afferma che l’uomo giustificato può perseverare nella giustizia ricevuta senza uno speciale aiuto di Dio, o che non lo possa con esso: sia anatema. (Denzinger-Schonmetzer 1566.1572
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TABELLA 2 COMPARAZIONE DELLE COLLETTE DELL’AVVENTO E DEL NATALE
II grassetto nelle tabelle è usato per parole o espressioni commentate nell’articolo di Lorenzo Bianchi, pp.66-74.
DOMINICA I ADVENTUS
MESSALE DI PAOLO VI
Da, quaesumus, omnipotens Deus, hanc tuis fidelibus voluntatem, ut, Christo tuo venienti iustis operibus occurrentes, eius dexterae sociati, regnum merean-tur possidere celeste
MESSALE DI SAN PIO V
Excita, quaesumus, Domine, potentiam tuam, et veni: ut ab imminentibus peccatorum nostrorum periculis, te mereamur protegente eripi, te liberante salvari
DOMINICA II ADVENTUS
MESSALE DI PAOLO VI
Omnipotens et misericors Deus, in tui occursum Filii festinantes nulla opera terreni actus impediant, sed sapientiae caelestis eruditio nos faciat eius esse consortes
MESSALE DI SAN PIO V
Excita, Domine, corda nostra ad praeparandas Unigeniti tui vias: ut, per eius adventum, purificatis tibi mentibus servire mereamur
DOMINICA III ADVENTUS
MESSALE DI PAOLO VI
Deus, qui conspicis populum tuum nativitatis domini-cae festivitatem fideliter exspectare, praesta, quaesumus, ut valeamus ad tantae salutis gaudia pervenire, et ea votis sollemnibus alacri semper laetitia celebrare
MESSALE DI SAN PIO V
Aurem tuam, quaesumus, Domine, precibus nostris accommoda: et mentis nostrae tenebras gratia tuae visitationis illustra
DOMINICA IV ADVENTUS
MESSALE DI PAOLO VI
Gratiam tuam, quaesumus, Domine, mentibus nostris infunde, ut qui, Angelo nuntiante, Christi Filii tui incarnationem cognovimus, per passionem eius et crucem ad resurrectionis gloriam perducamur
MESSALE DI SAN PIO V
Excita, quaesumus, Domine, potentiam tuam, et veni: et magna nobis virtute succurre; ut per auxilium gratiae tuae, quod nostra peccata praepediunt, indulgentia tuae propitiationis acceleret
DIE 25 DECEMBRIS. IN NATIVITATE DOMINI. AD PRIMAM MISSAM IN NOCTE
MESSALE DI PAOLO VI
Deus, qui hanc sacratissimam noctem veri luminis fecisti illustratione clarescere: da, quaesumus, ut cuius in terra mysteria lucis agnovimus, eius quoque gaudiis perfruamur in caelo
MESSALE DI SAN PIO V
Deus, qui hanc sacratissimam noctem veri luminis fecisti illustratione clarescere: da, quaesumus, ut, cuius lucis mysteria in terra cognovimus, eius quoque gaudiis in caelo perfruamur
DIE 25 DECEMBRIS. IN NATIVITATE DOMINI. AD SECUNDAM MISSAM IN AURORA
MESSALE DI PAOLO VI
Da, quaesumus, omnipotens Deus, ut dum nova incarnati Verbi tui luce perfundimur, hoc in nostro resplendeat opere, quod per fidem fulget in mente
MESSALE DI SAN PIO V
Da nobis, quaesumus, omnipotens Deus: ut, qui nova incarnati Verbi tui luce perfundimur, hoc in nostro re-splendeat opere, quod per fidem fulget in mente
DIE 25 DECEMBRIS. IN NATIVITATE DOMINI. AD TERTIAM MISSAM IN DIE NATIVITATIS DOMINI
MESSALE DI PAOLO VI
Deus, qui humanae substantiae dignitatem et mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti, da, quaesumus, nobis eius divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps
MESSALE DI SAN PIO V
Concede, quaesumus, omnipotens Deus: ut nos Unigeniti tui nova per carnem Nativitas liberet; quos sub peccati iugo vetusta servitus tenet
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TABELLA 2 COMPARAZIONE DELLE COLLETTE DELLA QUARESIMA
DOMINICA I IN QUADRAGESIMA
MESSALE DI PAOLO VI
Concede nobis, omnipotens Deus, ut, per annua quadragesimalis exercitia sacramenti, et ad intellegendum Christi proficiamus arcanum, et effectus eius digna conversatione sectemur
MESSALE DI SAN PIO V
Deus, qui Ecclesiam tuam annua quadragesimali observatione purificas: praesta familiae tuae; ut, quod a te obtinere abstinendo nititur, hoc bonis operibus exsequatur
DOMINICA II IN QUADRAGESIMA
MESSALE DI PAOLO VI
Deus, qui nobis dilectum Filium tuum audire praecepisti, verbo tuo interius nos pascere digneris, ut, spiritali purificato intuitu, gloriae tuae laetemur aspectu
MESSALE DI SAN PIO V
Deus, qui conspicis omni nos virtute destitui: interius exteriusque custodi; ut ab omnibus adversitatibus muniamur in corpore, et a pravis cogitationibus mundemur in mente
DOMINICA III IN QUADRAGESIMA
MESSALE DI PAOLO VI
Deus, omnium misericordiarum et totius bonitatis auctor, qui peccatorum remedia in ieiuniis, orationibus et eleemosynis demonstrasti, hanc humilitatis nostrae confessionem propitius intuere, ut, qui inclinamur conscientia nostra, tua semper misericordia sublevemur
MESSALE DI SAN PIO V
Quaesumus, omnipotens Deus, vota humilium respice: atque ad defensionem nostram, dexteram tuae maiestatis estende
DOMINICA IV IN QUADRAGESIMA
MESSALE DI PAOLO VI
Deus, qui per Verbum tuum humani generis reconciliationem mirabiliter operaris, praesta, quaesumus, ut populus christianus prompta devotione et alacri fide ad ventura sollemnia valeat festinare
MESSALE DI SAN PIO V
Concede, quaesumus, omnipotens Deus: ut, qui ex merito nostrae actionis affligimur. tuae gratiae consolatione respiremus
DOMINICA V IN QUADRAGESIMA
MESSALE DI PAOLO VI
Quaesumus, Domine Deus noster, ut in illa caritate, qua Filius tuus diligens mundum morti se tradidit, inveniamur ipsi, te opitulante, alacriter ambulantes
MESSALE DI SAN PIO V
Quaesumus, omnipotens Deus, familiam tuam propitius respice: ut, te largiente, regatur in corpore; et, te servante, custodiatur in mente