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Intervista al direttore del Centro di Studi sulle Nuove Religioni
Introvigne è coautore insieme a Lawrence R. Iannaccone del libro “Il Mercato dei Martiri. L’industria del terrorismo suicida” pubblicato dalla casa editrice Lindau (Torino 2004, pp. 160, Euro 14,00).
Fondatore e direttore del Centro di Studi sulle Nuove Religioni (CENSUR) di Torino, nonché collaboratore della rivista Terrorism and Political Violence, la più autorevole fra le riviste accademiche che si occupano di terrorismo internazionale, Introvigne ha tenuto lezioni e coordinato corsi di formazione per il Critical Incidents Response Group dell’FBI e per esperti di sicurezza medio-orientali.
Diciamolo chiaramente: un terrorista non è un martire…
Martyres non facit poena sed causa, dicevano i Padri della Chiesa: si è martiri non per il modo di morire ma per la causa per cui si muore. Dal momento che, come insegna il magistero della Chiesa cattolica – e come confermano anche solenni dichiarazioni delle Nazioni Unite sottoscritte da (quasi) tutti i paesi del mondo – il terrorismo è un mezzo sempre illecito a prescindere dal fine al cui servizio dichiara di porsi, quella terrorista è una cattiva causa e chi la serve non è un martire.
Anche dal punto di vista islamico è in realtà molto dubbio che il terrorista suicida abbia diritto al titolo di “shahid”, martire. Abbiamo pubblicato in appendice a “Il mercato dei martiri” una fatwa di ambienti sauditi vicini a Osama bin Laden che cerca di sostenere che si tratta di martirio, ma abbiamo anche messo in luce nel libro come per arrivare a questa conclusione le fonti tratte dal Corano e dalla Sunna devono essere veramente tirate per i capelli.
Perché si suicidano?
Anche se oggettivamente, per le ragioni che ho appena esposto, il terrorismo suicida non è un martirio, soggettivamente per il terrorista lo è.
Anzi, intervistando anni fa esponenti di Hamas in Cisgiordania, ho notato che la loro principale preoccupazione è quella di voler essere veramente sicuri che quello che si propongono di fare non sia un suicidio, che sarebbe un gesto proibito dall’islam e li manderebbe all’inferno. E i loro dirigenti li rassicurano con argomentazioni teologiche che, per quanto dubbie (e derivate da fonti originariamente sciite, trasferite non senza difficoltà nel diverso ambiente dottrinale sunnita), li convincono. Dunque il “martire”, che non è tale per noi, pensa veramente di stare compiendo un atto meritorio dal punto di vista religioso.
Se non è la povertà né la disperazione che li induce ad autoimmolarsi, che cosa è allora?
Abbiamo mostrato nel libro che le spiegazioni fondate sulla povertà e sulla disperazione socio-economica non tengono: molti dei terroristi suicidi sono benestanti.
Certo, si può parlare di “disperazione culturale” ma è una categoria talmente vaga che spiega tutto (dunque rischia di non spiegare nulla). Altri parlano di “lavaggio del cervello” o manipolazione mentale, categorie che in genere io non condivido (cfr. Massimo Introvigne, “Il lavaggio del cervello, realtà o mito?”, Elledici, Leumann [Torino] 2002) e che è difficile applicare a un Mohammed Atta, il capo del commando dell’11 settembre 2001, studente universitario laureato a pieni voti ad Amburgo che non ha mai vissuto in un campo di addestramento o in un ambiente fondamentalista islamico: gli avranno lavato il cervello solo con i sermoni del venerdì in moschea?
Iannaccone ed io siamo convinti che tutte queste “spiegazioni” siano frutto di un pregiudizio anti-religioso e di un riduzionismo politico o psicologico per cui i fenomeni che si presentano come religiosi “non possono” avere cause religiose. La religione, come diceva Marx, è solo “sovrastruttura” della vera struttura, che per lo stesso Marx è economica e per Freud è psicologica.
Certo, nessun fenomeno va ridotto a una sola causa, e pretendere che le motivazioni del terrorista suicida siano soltanto religiose sarebbe ugualmente caricaturale. Ma la religione vi gioca una grossa parte.
Esiste, come afferma lei stesso, una “industria del terrorismo suicida”?
Sì. Noi distinguiamo fra le motivazioni dei singoli, di cui ho parlato, e le motivazioni delle organizzazioni. Singoli il cui modo di leggere la religione – in particolare l’islam – li predispone ad atti violenti, fino al terrorismo suicida, ci sono in molte culture. Ma non dovunque ci sono le “aziende”, le “industrie”, che rispondono a questa domanda potenziale offrendo un arruolamento e la possibilità di passare dall’attualità alla potenzialità del terrorismo.
Non c’è un terrorismo islamico in Senegal o in Mali, che sono paesi con molti musulmani ferventi e anche poveri. Ce n’è pochissimo in Turchia, dove a colpire sono più spesso terroristi islamici stranieri o terroristi di matrice comunista o separatista curda, le cui motivazioni non sono religiose.
C’è un terrorismo in Arabia Saudita (un paese ricco), in Egitto, in Indonesia, in Pakistan, nella diaspora italiana, spagnola, francese, tedesca, perché qui ci sono organizzazioni capaci di reclutare i potenziali terroristi. Naturalmente c’è anche un terrorismo in Cecenia, Palestina, Kashmir: ma non c’è solo in questi paesi in guerra, anzi Al Qaida recluta quasi tutti i suoi membri in Arabia Saudita, in Egitto e nell’emigrazione islamica in Europa, dunque non in zone di guerra.
Lei sostiene che è più proficuo intervenire sulla “offerta” di terrorismo che non sulla “domanda”. Ci può spiegare meglio?
Chi pensa che il terrorismo suicida nasca dalla povertà ritiene che “piani Marshall” in grado di eliminare la povertà in Palestina o altrove possano risolvere il problema. Chiarito subito che questi piani sono utilissimi e doverosi – ma per altre ragioni – la nostra ipotesi è che abbiano poco a che fare con la soluzione del problema terrorismo. Come accennato, la maggior parte dei terroristi (non tutti, naturalmente) vengono da famiglie benestanti o anche da paesi ricchi.
In realtà le soluzioni proposte si concentrano spesso sul togliere dalla testa del singolo terrorista l’idea di diventare un “martire” suicida. E’ possibile fare qualcosa su questo piano, ma molto lentamente e con risultati da valutare in tempi lunghissimi.
La nostra ipotesi è che, per molti anni ancora, continueranno a nascere giovani che leggono l’islam in un modo tale da creare nella loro mente e nel loro cuore una domanda di estremismo che può spingersi fino al terrorismo, e questo anche nelle migliori condizioni socio-economiche e in zone non di guerra e dove non ci sono rivendicazioni territoriali o occupazioni occidentali, come l’Arabia Saudita o l’Indonesia (non parlo qui delle isole o aree separatiste dell’arcipelago indonesiano: molti terroristi vengono da Jakarta).
Quello che è possibile ottenere in tempi più rapidi è che questa domanda non incontri un’offerta, cioè è possibile stroncare le organizzazioni che offrono inquadramento e addestramento ai terroristi.
E’ possibile in parte stroncarle sul piano militare, che è un piano che non può essere trascurato come vorrebbero le “anime belle” del pacifismo. E’ obbligatorio stroncarle sul piano finanziario e delle somme di denaro che continuano a ricevere troppo facilmente, in genere attraverso organizzazioni “umanitarie” che fanno da paravento ai terroristi.
Soprattutto, il libro cerca di dimostrare che le organizzazioni terroriste non compiono attentati per il gusto di farli o perché sono mosse da una volontà di distruzione apocalittica. Operano come “industrie del terrorismo” secondo la normale logica aziendale costi-benefici. Si propongono benefici politici e talora li ottengono: Hamas ha fatto fallire più di un piano di pace in Palestina, l’attentato dell’11 marzo ha influito sulle elezioni spagnole, e così via.
Nel momento in cui si accorgono che gli attentati suicidi non sono più “convenienti” e non danno risultati (anzi, sono controproducenti) le organizzazioni terroristiche cambiano strategia. Per questo la risposta al terrorismo suicida sul piano dell’offerta è, ultimamente, un problema politico.
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