A imitazione del suo Signore, il cristiano deve usare misericordia con il suo prossimo. Lì passa la via della sua salvezza
Card. Giacomo Biffi
L’ uomo rinnovato e redento dal sacrificio di Cristo deve mantenersi ben consapevole che la sua “vita battesimale” implica nel proprio comportamento una “giustizia” nuova e diversa da quella “mondana” e semplicemente “naturale”. Gesù parla perfino di una giustizia che eccede su quella della “antica alleanza” come si manifesta negli ebrei più rigorosi: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).
Tale giustizia nuova si caratterizza anche per il “dovere della misericordia” che assimila il cristiano al Padre celeste del Signore Gesù: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (Le 6,36).
Il Dio rivelatoci dall’annuncio evangelico è un “Dio della misericordia” che ha fatto della misericordia il senso ultimo e addirittura lo scopo della sua azione creatrice: ha plasmato l’uomo come ultima opera e capolavoro finale proprio perché in lui «ha trovato uno cui poter perdonare i peccati (habens cui peccata dimitteret)», secondo la stupefacente sentenza di sant’Ambrogio (Exameron IX, 76).
Una misericordia senza equivoci
La misericordia del Padre è atteggiamento instancabile di amore per gli uomini tutti, nonostante l’indegnità della loro condotta; ma non è affatto connivenza con nessuna delle loro colpe e dei loro errori. Alla misericordia del Padre non sono mai di ostacolo i peccati commessi, anche i più gravi; ma è di ostacolo insormontabile la volontà di continuare a commetterli, di restare in una condizione peccaminosa, di non cambiare vita.
L’annuncio della misericordia evangelica inizia con la parola: «Convertitevi!» (cf Me 1,15). Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo – che è anche nostro Padre, nostro ispiratore e nostro supremo modello – davanti alle aberrazioni umane non è uno che “lascia correre”, perché il lasciar correre non significa salvare; significa dichiararsi estraneo ed essere disinteressato. Il nostro è un Dio che si dà da fare per la nostra salvezza, fino ad arrivare al dramma del Calvario perché le aberrazioni finiscano e gli sbandati ritornino sulla retta via.
La misericordia della verità
Tutto in Gesù – ogni sua parola e ogni sua azione – manifesta la misericordia divina verso l’intera nostra miseria, che è grande e molteplice. E anche il battezzato, alla scuola del suo Maestro, dovrà dilatare il suo cuore perché nessun guaio dei figli di Adamo lo trovi impassibile e indifferente.
Ma la prima e la più pungente delle sventure umane – e quasi la fonte precipua dei loro mali – è la notte incombente dell’enigma, dell’errore e della menzogna nella quale il demonio è riuscito ad avvolgerli; è il loro non saper dove andare, essendo essi sbandati «come pecore senza pastore» (cf Mt 9,36); è l’aver perso il senso dell’agire, del penare, dello stesso vivere.
Perciò la prima e più benefica misericordia verso gli uomini – la sintesi (per così dire) di tutta la pietà e l’incoraggiamento più efficace che possiamo offrire agli altri – è la notizia della mèta di gioia senza fine che è stata assegnata a tutti senza eccezioni. È ridare ai nostri fratelli la conoscenza dei “perché” essenziali del nostro esistere, è ravvivare in loro l’attenzione cordiale alla “verità”.
Il «comandamento nuovo»
«Un dottore della legge lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, qual è nella Legge il più grande comandamento?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile al primo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”» (Mt 22,35-39).
Come si vede, Gesù non richiama dei precetti presi dall’elenco del Decalogo: per lui l’amore è piuttosto il fondamento, l’ispirazione, la somma non solo di tutti i comandamenti ma anche di tutta la divina Rivelazione: «Da questi due comandamenti -soggiunge – dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mi 22,40).
Egli qui non fa che citare e integrare genialmente tra loro due testi della Bibbia antica (il Deuteronomio e il Levitico). Eppure nella catechesi giovannea non esiterà a definire questo suo asserto un «comandamento nuovo»: «Vi do un comandamento nuovo» (Gv 13,34). Ed è davvero “nuovo” per la sua centralità nel Vangelo e per l’intensità e la forza della sua presentazione nella predicazione apostolica (basterà ricordare la prima lettera di Giovanni).
Soprattutto è “nuovo” per l’inedita motivazione che ha acquisito dopo che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Il sacrificio di Cristo è la ragione e la causa esemplare di ogni autentica forma di carità che fiorisce entro la “nazione santa”: «Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
«Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»
«Ogni volta che avete rifiutato un gesto di benevolenza, di pietà, d’amore a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete rifiutato a me», dice il Re dell’universo, della storia, dei cuori (cf Mt 25,31-46). Sono tra le parole più sovversive e rinnovatrici che siano mai risonate nella convivenza umana. Identificandosi con ciascun uomo, e soprattutto con quello più sofferente e sprovveduto, il Signore ci avverte che ormai questa è la vera e definitiva forma della “giustizia”, cui dobbiamo tendere: non è più possibile amare Dio senza amare il fratello; e non è più possibile amare il fratello senza amare Dio.
Senza una carità fattiva e concreta non si dà un’autentica vita religiosa, ma solo un devozionismo illusorio. E una sollecitudine per gli altri che non nasca dalla passione per il nostro Dio e per la sua verità corre sempre il pericolo di ridursi a un’arida e infondata filantropia. Solo riconoscendo affettuosamente il Padre celeste, gli uomini si sentiranno sicuri di essere liberi, uguali e fratelli; e solo vivendo seriamente e cordialmente da fratelli, potranno senza oggettiva ipocrisia adorare Dio come padre.
Il «prossimo»
Il destinatario del nostro amore che ci è evangelicamente proposto è il “prossimo”, cioè il più reale che si possa pensare; non la “umanità”, non i “lontani”, non gli “ultimi” o i “penultimi”, ma il “prossimo”, cioè colui che la Provvidenza ci dà la effettiva occasione d’incontrare; e al tempo stesso colui (ci insegna la parabola del buon Samaritano) che siamo impegnati a rendere “prossimo” anche se in partenza è percepito come socialmente, culturalmente, etnicamente remoto.
L’amore cristiano chiede dunque sì di essere concreto, ma non tollera di rattrappirsi in scelte limitative.
La nostra affettuosa attenzione di battezzati non può escludere nessuno – né il povero né il ricco, né l’acculturato né il semplice, né chi sta da una parte né chi sta dall’altra dello schieramento politico – perché tutti, nella profondità del loro essere sono dei mendicanti di giustizia e di gioia: tutti hanno bisogno della pietà e della gloria di Dio (cf Rm 3,23). Il «più prossimo» («magis proximus») poi -dice Sant’Ambrogio, che per amore di Cristo arriva qui a fare un po’ di violenza alla grammatica – «è colui che guarì le nostre ferite; perciò amiamolo come Signore, ma amiamolo anche come prossimo: nulla è tanto prossimo quanto il Capo alle membra».
Lo stile cristiano tipico
Noi viviamo in una società dove chi decide di aiutare qualche fratello in difficoltà è indotto più che altro a denunciare il problema e a sollecitare l’intervento degli altri. Ci si rivolge agli uomini pubblici, si invocano provvedimenti legislativi, si organizzano manifestazioni perché finalmente qualcuno provveda. Sono iniziative di solito legittime, spesso anche benefiche, talvolta perfino doverose. Lo stile propriamente cristiano però è un altro. Secondo Gesù, l’amore del prossimo va esercitato soprattutto in prima persona: il Samaritano non è andato a interessare l’Azienda Sanitaria locale; si è piegato lui sul malcapitato incappato nei briganti e ha pagato le cure di tasca sua (cf Le 10,30-37).
Soprattutto, chi è rinato «dall’acqua e dallo Spirito» non può accontentarsi di riservare agli uomini e alle loro necessità uno sguardo puramente solidaristico o filantropico. In lui si deve sempre più largamente affermare l’abitudine a cercare e a scorgere negli altri l’arcana immanenza del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il solo che sa davvero ridurre e abolire ogni distanza e ogni separazione, il solo che di ogni “lontano” sa fare un “vicino”, il solo che in ogni essere che ci è o ci pare indifferente e ostile ci aiuta a vedere un “prossimo” da amare con lo stesso amore con cui lo ama lui.
Un «inno alla carità»
Proponiamo per completare questa riflessione il ricordo del grande inno alla “carità”, che prorompe dalle labbra di Paolo (cf 1 Cor 13,1-13). Esso ci testimonia in maniera molto eloquente di quanto fosse viva nella Chiesa apostolica la coscienza della rilevanza del “comandamento dell’amore” entro il disegno salvifico del Padre e il suo carattere primario nella “vita battesimale”. Il capitolo è tutto da leggere e meditare.
Ma in particolare non deve sfuggirci l’aforisma del versetto 3, che ci pone in guardia da possibili malintesi con la mentalità contemporanea: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, niente mi giova». Né una generosità che non nasca da un autentico affetto per Cristo e per la Chiesa sua Sposa, né un eroismo fanatico motivato dal rancore e inquinato dall’odio, provengono dalla Pentecoste, che è invece la sorgente inesauribile della vera carità e del martirio cristiano: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).