Culturainpillole.com 13 Dicembre 2020
Trascrizione a cura di Rassegna Stampa dell’intervento in video dell’autore di
Alfredo Mantovano
Per parlare di diritto e giustizia partiamo da “Pinocchio”, il libro per adulti che è in grado di dirci molto più in tema di codici e di trattati. Sfogliamo il libro e arriviamo al capitolo 19 in cui si narra che Pinocchio si rende conto che il Gatto e la Volpe gli hanno rubato gli zecchini d’oro e per questo «andò di filato in tribunale per denunciare i due malandrini che lo avevano derubato».
Il magistrato è descritto in lodo non particolarmente lusinghiero: «Il giudice», scrive Collodi, «era uno scimmione della razza dei gorilla; un vecchio scimmione rispettabile per la sua età, per la barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro senza vetro».
A lui Pinocchio chiede giustizia dopo aver riferito nel dettaglio quanto accaduto.
Prosegue il testo: «Il giudice lo ascoltò con molta benevolenza e benignità, prese vivissima parte al racconto, si intenerì, si commosse. Quando il burattino non ebbe più nulla da dire allungò la mano, suonò il campanello e accennando Pinocchio ai gendarmi disse loro: “Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro, pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione”».
Ogni qualvolta lo rileggo la crudeltà di quel “dunque” continua a farmi rabbrividire. Quel “dunque” è una sorta di equivalente del P.Q.M., Per Questi Motivi, le tre parole che segnano il passaggio dalla motivazione al dispositivo di una sentenza. Quel “dunque” è una parola inquietante ma vera, come osservava l’indimenticato cardinale Biffi autore di un mirabile commento sulle avventure di Pinocchio, perché noi possiamo rassegnarci a tutto ma non al diniego della giustizia. Possiamo sopportare ogni malvagità ma riteniamo insopportabile l’ingiustizia, perché la giustizia è la nostra Patria; nostra di uomini e di donne prima ancora che di giudici e di avvocati. Per questo così frequentemente ci sentiamo in esilio.
Dov’è il cortocircuito tra la motivazione del dispositivo di questa sentenza del giudice scimmione? Quale salto logico fa si che da un ragionamento che descrive il burattino come persona offesa – quel povero diavolo è stato derubato di quattro zecchini d’oro – si passi ad un dispositivo di condanna: «Pigliatelo dunque e mettetelo in prigione»?
Forse qualche chiave per la spiegazione ci viene dalla descrizione che Collodi fa del giudice, un personaggio benevolo, attento financo pronto a commuoversi; peccato che i suoi occhiali eppur d’oro siano senza vetri e quindi gli impediscano di vedere e gli precludano quella decisione giusta che sarebbe stata coerente con la consapevolezza del proprio ruolo.
Quello che gli manca non è il profilo esteriore della responsabilità. Questo c’è tutto, anche se resta uno «scimmione della razza dei gorilla». Quel che gli manca è l’umiltà di cogliere la realtà che gli si presenta davanti e l’onestà intellettuale di mantenersi stretto tra il vincolo della legge e la ricostruzione obbiettiva del fatto. E’ quel che manca oggi in non poche aule di tribunale ed è quello che va recuperato