di Anna Bono
La Liberia, il primo stato africano a essere guidato da una donna, si chiama così perché nel 1821 l’American Colonization Society l’acquistò destinandola a luogo di rimpatrio – e quindi di ritrovata libertà – degli africani importati come schiavi negli Stati Uniti. Per questo sullo scudo liberiano è scritta la frase: «l’amore per la libertà ci portò fin qui». Il nome della sua capitale, Monrovia, è un omaggio al Presidente degli Stati Uniti d’America James Monroe che sostenne l’iniziativa.
Poi un crescendo di violenza, culminato in 14 anni di guerra civile, ha letteralmente ridotto la Liberia in macerie. Due anni fa l’esilio forzato del presidente Charles Taylor ha messo fine all’ultimo conflitto e finalmente lo scorso autunno – con l’aiuto degli Stati Uniti e di una delle più consistenti missioni delle Nazioni Unite – è stato possibile svolgere le elezioni vinte da Ellen Johnson-Sirleaf, un’economista di 67 anni che ha promesso libertà, pace e sviluppo ai suoi concittadini.
Il 16 gennaio si è svolta la cerimonia del giuramento del nuovo Presidente: necessariamente sobria per non dire povera. Fin dalla prima occhiata chi vi ha partecipato ha potuto misurare l’enormità dei problemi che Johnson-Sirleaf dovrà risolvere. Nella capitale, priva come tutto il resto del Paese di luce, acquedotti e fognature, l’unico edificio abbastanza integro è il municipio, dove per il momento ha sede anche il governo.
Qui sono stati sistemati gli invitati alla cerimonia, tra sedie di plastica e stuoie di paglia, dopo aver attraversato una città sommariamente ripulita e riverniciata grazie al lavoro di migliaia di volontari che hanno cercato di mascherare alla vista, senza molto successo, i peggiori guasti della guerra e dell’incuria.
Ellen Johnson-Sirleaf ha pronunciato la formula del giuramento dopo aver chiesto un minuto di silenzio in memoria delle vittime della guerra. Subito dopo si è messa al lavoro. Ha già nominato nove dei 22 ministri che costituiranno il suo governo e ha lanciato un appello ai 190.000 profughi liberiani perché tornino fiduciosi a ricostruire il Paese.
Se ben governata la Liberia può diventare di nuovo la Svizzera dell’Africa occidentale: è ricca di terre fertili e di preziose materie prime – dal ferro ai diamanti – e ha soltanto tre milioni di abitanti. Ma gli ostacoli da superare sono davvero tanti. Tra questi Ellen Johnson-Sirleaf deve mettere in conto e non sottovalutare anche l’insofferenza che da sempre mostrano nei confronti del suo Paese le leadership occidentali terzomondiste.
Non c’è simpatia per la Liberia in certi ambienti: in fondo non è una vittima del colonialismo europeo perché non è mai stata colonia; è nata da un progetto americano, come ricorda la sua bandiera a strisce bianche e rosse e stella bianca in campo blu; adesso è governata da una persona che ha lavorato alla «famigerata» Banca Mondiale e che sembra intenzionata a collaborare con il Paese più odiato dai no global uniti di tutto il mondo, come suggerisce la presenza alla cerimonia del 16 gennaio del Segretario di stato Usa, Condoleeza Rice, e della moglie del Presidente George W.Bush, Laura.
Di sicuro la «lady di ferro» africana – così è stata soprannominata – non è nel cuore dei nostri politici di sinistra, che piuttosto portano in palmo di mano leader antioccidentali come il Presidente del Venezuela, Chavez, e quello dello Zimbabwe, Mugabe.