Dal blog di Danilo Breschi 20 Giugno 2020
di Carlo Marsonet
Tra i molteplici pregi che hanno i classici della letteratura vi è anche quello di non essere semplicemente opere di narrativa. Essi racchiudono riflessioni che possono abbracciare molteplici campi del sapere e, in tal modo, fornire insegnamenti stratificati.
Del resto, a ben guardare, siamo noi contemporanei che tendiamo a separare rigidamente i settori disciplinari, come se la conoscenza si lasciasse imbrigliare in ottusi schemi e non fosse qualcosa che, al contrario, travalica i confini ad essa posti dall’uomo. Il Grande Inquisitore di Fëdor Dostoevskij (1821-1881) rispetta plasticamente quanto sopra detto. E l’edizione curata e introdotta da Danilo Breschi per le Edizioni Feeria – Comunità di San Leolino (2020, pp. 94, € 10) lo dimostra con profondità e acume.
Infatti, si tratta di un testo che, pur nella sua brevità – si noti che esso costituisce il capitolo V del V libro de I fratelli Karamazov (1880): l’edizione introdotta e curata dallo storico delle dottrine politiche toscano è, inoltre, arricchita dalla conclusione del capitolo II (Smerdjakov suona la chitarra), dal capitolo III (I fratelli fanno conoscenza) nonché dal capitolo IV (Ribellione) al fine di immergere pienamente dentro la vicenda il lettore – è impregnato di un’impressionante quantità di onerosi problemi per l’uomo: il fulcro è rappresentato dal tema della libertà nei suoi ramificati (e complicati) rapporti con la fede, la servitù, il potere, la felicità, la sicurezza (fisica e materiale).
Si spazia, in altre parole, dalla filosofia morale alla teoria politica, dall’antropologia alla sociologia, fino ad arrivare, com’è evidente, al tema della teodicea: un vero e proprio – seppur modesto nelle dimensioni – trattato sulla natura umana. La densa e precisa introduzione di Breschi costituisce, in tal senso, un imprescindibile strumento orientativo per l’interpretazione e la comprensione del testo.
Il capitolo qui in esame de I fratelli Karamazov – ultimo romanzo dello scrittore russo, pubblicato a puntate, dal gennaio 1879 al novembre 1880, sulla rivista «Il messaggero russo» – vede come protagonisti due dei fratelli (della famiglia da cui l’opera trae il nome): il ventitreenne Ivan e il diciannovenne Alioscia.
Il primo è ateo e in radicale ostilità col mondo creato da Dio: la libertà che è stata fatta dono alle creature terrene è un peso insopportabilmente gravoso per «un animale selvaggio e cattivo come l’uomo» (sono parole dello stesso Ivan). Ovunque vi sono ingiustizie e bruttezze, meschinità e sofferenze, tali per cui il giovane e tormentato ateo si ribella a quello che il Signore ha riservato ai suoi figli sulla terra.
Come può Dio consentire, si chiede ad esempio Ivan, che vi siano così tanti bambini che soffrono? Essi rappresentano la primigenia e assoluta purezza ed Egli, il Misericordioso, lascia che soffrano per colpe di cui i padri soli possono essere imputati. Se così stanno le cose, allora, Ivan rifiuta categoricamente il biglietto per l’aldilà: non ne vale il prezzo richiesto in terra.
Alioscia, monaco novizio, ha trovato invece la pace interiore: ha fede e sa che le sofferenze terrene – che sono tanto il frutto delle scelte dell’uomo e della sua libertà, quanto di qualcosa al di fuori del suo controllo: Robert Spaemann direbbe che «l’agire responsabile presuppone sempre una ben definita, limitata responsabilità, perciò una certa misura di irresponsabilità» – troveranno armonia e serenità una volta giunta la redenzione finale.
Vi sono disegni che l’uomo può non comprendere: l’imperscrutabilità degli schemi divini non può essere dissipata. Comincia così il poema che il più grande dei due racconta all’altro: Il Grande Inquisitore. Si svolge nel sedicesimo secolo, a Siviglia, il giorno dopo che sono stati arsi un centinaio di eretici per ordine del tribunale della Santa Inquisizione. Gesù Cristo – sebbene mai venga esplicitato si tratti di Lui – torna sulla terra.
Immediatamente la folla accorre rivolgendo richieste, anzi, miracoli: ne compie due. Non appena, però, il Grande Inquisitore giunge nella piazza la massa si prostra ai suoi piedi: da esso e dalla Chiesa il popolo trae il pane. Portato in prigione, il cardinale gesuita lo interroga, senza tuttavia avere mai risposta: è un monologo, non un dialogo.
Come nota Breschi, «abbiamo qui raffigurati il silenzio del Bene e il rumore del Male. Il Bene tace perché “è”, “sta”, è l’Essere in sé compiuto. Il Bene non ha bisogno di difendersi, perché ha in se stesso tutta la sua forza. È concentrazione, non dissipazione. Invece il Male è rumoroso, si agita, perché è non-essere, è parvenza di essere. Prova a prendere consistenza agitandosi, facendo rumore. Il silenzio è anche segno».