di Massimo Introvigne
Credevate che l’UNAR, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità ce l’avesse solo con gli insegnanti, imponendo loro d’insegnare obbligatoriamente l’ideologia di genere? Sbagliavate. Ora se la prende con i giornalisti, pubblicando il 13 dicembre un documento tecnicamente incredibile, intitolato «Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT» (in fondo all’articolo si può scaricare il documento).
Il modesto titolo «Linee guida» non inganni.Si precisa subito infatti che i giornalisti che non si piegheranno ai diktat dell’UNAR violeranno le norme deontologiche, per cui la denuncia all’Ordine dei Giornalisti è dietro l’angolo. Inoltre il testo – tutto bastone e poca carota – spiega anche che è solo questione di tempo: «l’Italia si sta adeguando» ai Paesi più civili, presto il Parlamento introdurrà una «legislazione specifica» contro l’omofobia e il giornalista che sbaglia rischierà non solo il deferimento all’Ordine ma la galera
E che cosa si deve fare per adeguarsi? Occorre rispettare dieci comandamenti, redatti dagli esperti – quasi tutti di organizzazioni LGBT – che hanno preparato le linee guida. Primo: non confonderai il sesso con il genere. Il sesso è una caratteristica anatomica, ma ognuno sceglie se essere uomo o donna «indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». È davvero il primo comandamento dell’ideologia di genere, ma ora diventa obbligatorio.
Secondo: benedirai il «coming out». Vietato parlare di «gay esibizionisti»: il giornalista porrà invece attenzione a sottolineare gli aspetti positivi della «visibilità» degli omosessuali e il coraggio di chi si rende visibile.
Terzo: riabiliterai la parola «lesbica». «Dare della lesbica» non è un insulto: è un complimento. Ma attenzione a non esagerare, promuovendo il «voyeurismo» dei maschietti. Quarto comandamento: attenzione agli articoli. Se un transessuale si sente donna il giornalista deve scrivere «la trans» e non «il trans». Per Vladimir Luxuria, per esempio – è esplicitamente citato (o citata?) nelle linee guida – vanno sempre usati articoli e aggettivi al femminile. Non importa – al solito – l’anatomia: se qualcuno «sente di essere una donna va trattata come tale». Quinto: non associare transessuali e prostituzione. E comunque mai parlare di prostitute o prostituti. Il giornalista userà invece l’espressione «lavoratrice del sesso trans».
Come è giusto per materie di questo genere, molto si gioca sul sesto comandamento: il giornalista dovrà educare i suoi lettori a considerare cosa buona e giusta il «matrimonio» omosessuale, «o almeno il riconoscimento dei diritti attraverso un istituto ad hoc» . Farà notare che «il matrimonio non esiste in natura, mentre in natura esiste l’omosessualità». Fuggirà come la peste «i tre concetti: tradizione, natura, procreazione», sicuro indizio di omofobia. Ricorderà ai suoi lettori che il «diritto delle persone omosessuali ad avere una famiglia è sancito a livello europeo».
Il sesto comandamento dell’UNAR basta a mettere nei pasticci qualunque giornalista che per avventura fosse d’accordo con il Magistero cattolico. Se qualcuno sfuggisse al sesto, incalza però il settimo comandamento: vietato parlare di «matrimonio tradizionale» e, per converso, di «matrimonio gay», che il giornalista dovrà invece qualificare come «matrimonio fra persone dello stesso sesso» per non rischiare, anche involontariamente, di diffondere la pericolosa idea secondo cui si tratterebbe di «un istituto a parte, diverso da quello tradizionale».
Difficilissimo poi per il giornalista cattolico – o, che so, per il collaboratore di questa testata – evitare di violare l’ottavo comandamento, il quale in tema di adozioni vieta di sostenere che il bambino «ha bisogno di una figura maschile e di una femminile come condizione fondamentale per la completezza dell’equilibrio psicologico». Il giornalista che sostenesse questa tesi si renderebbe responsabile della propagazione di un «luogo comune», smentito dalla «letteratura scientifica». Vietatissimo, poi, parlare di «utero in affitto», espressione «dispregiativa» da sostituire subito con «gestazione di sostegno».
Il nono comandamento sembra scritto apposta per il caso di Giancarlo Cerrelli, il noto vicepresidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani colpevole di rappresentare troppo efficacemente le ragioni di chi ė contrario alla legge sull’omofobia in televisione e quindi dichiarato persona non gradita nei programmi RAI. «Quando si parla di tematiche LGBT – si legge in un passaggio delle linee guida che sarebbe esilarante se non ci fosse la minaccia di gravi sanzioni per chi sgarra – è frequente che giornali e televisioni istituiscano un contraddittorio: se c’è chi difende i diritti delle persone LGBT si dovrà dare voce anche a chi è contrario». Sembrerebbe il minimo sindacale del pluralismo e della democrazia, specie se parliamo della RAI e di servizio pubblico.
Ma le linee guida ci dicono che questo «non è affatto ovvio». Il caso Cerrelli insegna. «Cosa deve accadere affinché il contraddittorio fra favorevoli e contrari ai diritti delle persone gay e lesbiche non sia più necessario?». La risposta corretta sarebbe che deve accadere l’instaurazione di una dittatura, per dirla con Papa Francesco, simile a quella del romanzo «Il padrone del mondo» di Benson. La risposta delle linee guida invece è che basta una «scelta puramente politica» – che l’UNAR si arroga l’autorità di fare – per dire basta a questi dibattiti fastidiosi e pericolosi. Il buon conduttore televisivo avrà cura che sia espressa solo un’opinione, quella corretta.
«Non esiste una soglia di consenso prefissata, oggettiva, oltre la quale diventa imprescindibile il contraddittorio». Quindi su questi temi se ne deve prescindere. Tornatene a casa, avvocato Cerrelli – in attesa magari di sentire anche per televisione il ritornello scandito da certi simpatici attivisti: «e se saltelli muore anche Cerrelli».
Non si salvano, infine, neanche i fotografi. Il decimo comandamento li invita a fare attenzione a che cosa fotografano nei gay pride, evitando immagini di persone «luccicanti e svestite». L’obiezione secondo cui se chi partecipa ai gay pride non si svestisse non correrebbe il rischio di essere fotografato nudo non sembra essere venuta in mente agli esimi redattori del testo.
Che però hanno pensato a una possibile difesa del malcapitato giornalista, il quale potrebbe sostenere che lui la pensa diversamente, ma per dovere di cronaca ha ritenuto di riportare anche le strane idee di chi si oppone al «matrimonio» omosessuale, e che magari ha radunato in una sala centinaia di persone. Difesa debole, sentenzia il documento. Il giornalista che riporta dichiarazioni, anche «di politici e rappresentanti delle istituzioni», contrarie alle linee guida può farlo per «dovere di cronaca» ma deve «attenersi ad alcune regole»: «virgolettare i discorsi», spiegare che sono sbagliati, contrapporre dichiarazioni di rappresentanti delle organizzazioni LGBT, che andranno tempestivamente intervistati, usare «particolare attenzione nella titolazione».
Non sono forniti esempi, ma il bravo giornalista capisce al volo. Se per esempio un vescovo si dichiara contrario al «matrimonio» omosessuale, il titolo dovrà essere «Fedeli scandalizzati dal discorso omofobo del vescovo» e non «Il vescovo ricorda: la Chiesa non accetta il matrimonio omosessuale».
Giornalista avvisato, mezzo salvato. Ma anche italiani e parlamentari avvisati, mezzi salvati. Perché le linee guida per i giornalisti rendono involontariamente un enorme servizio. Spiegano esattamente, nero su bianco, che cosa sarà davvero vietato dalla legge contro l’omofobia. Altro che proteggere le persone omosessuali – com’è giusto che sia, e come già affermano le leggi in vigore – da insulti, minacce e violenze. Qui si tratta della dittatura del relativismo, senza sottigliezze e senza misericordia. Fermiamo questa macchina impazzita prima di ritrovarci tutti in un GULag gestito da militanti LGBT.