Avvenire 16 febbraio 1993
Prosegue il dibattito a 200 anni dall’inizio dei moti controrivoluzionari
«Fu la prima guerra di popolo al totalitarismo»
di Franco Cardini
Quando, nel 1989, si avviarono le «celebrazioni» per il bicentenario della Rivoluzione francese, le voci polemiche non furono poche: e non si riuscì — nonostante i reiterati tentativi in tal senso — a metterle a tacere gabellandole riduttivamente come «reazionarie» o accusandole di essere espresse da quella storiografia «revisionistica» che molti preferiscono demonizzare in blocco anziché affrontare con gli argomenti della critica
Si discuteva sul significato dell’Ottantanove, sul suo valore come data iniziale di una sola, grande Rivoluzione oppure di una catena di eventi in parte eversivi dalla quale si sarebbe usciti solo con l’avvento dell’impero napoleonico o addirittura con la Restaurazione. Naturalmente, per molti studiosi e soprattutto per molti politici e intellettuali abituati a radicare nella Rivoluzione le loro pretese etico-ideologiche, esiste uno stretto legame tra avvio di un movimento riformatore e costituzionale che condusse alla convocazione degli «stati generali» e alla monarchia costituzionale, tra ’89 e ’92, e la tragica sequenza di intimidazioni e di violenze che snaturarono il movimento costituzionale e instaurarono quella caratteristica «illegalità rivoluzionaria» che avrebbe dovuto essere a sua volta la base di una legalità nuova, quella repubblicana e democratica auspicata dai giacobini.
Quando terminò, allora, la Rivoluzione? Nel ’92, con l’avvento della Repubblica? Nel ‘94 con la fine del «Terrore» e l’inizio del regime affaristico e corrotto del Termidoro, protagonisti della quale erano pur tanti robespierriani convertiti? O più tardi col generale Bonaparte divenuto poi Napoleone imperatore dei francesi? Ma questi esiti «borghesi» e addirittura neomonarchici della Rivoluzione, iniziata coi regicidio del gennaio del ’93 e approdata alla consacrazione imperiale del dicembre 1804, costituiscono davvero tradimento e rinnegamento degli ideali rivoluzionari o ne sono invece un’evoluzione non naturale, beninteso (in storia parlare di evoluzione naturale non ha senso), bensì logica?
In fondo, la costituzione napoleonica parlava — sul modello augusteo — di un «imperatore della repubblica»: ma aveva davvero senso la formulazione giuridica repubblicana a specchio di una realtà storica concreta che mostrava con chiarezza l’impiantarsi di un nuovo modello regale, sia pure a garanzia contro la possibilità di una restaurazione borbonica e con l’alibi del pericolo di essa? E come giudicare pertanto la sovrana ambiguità dell’esperienza imperiale, che dopo la decapitazione di una regina asburgica. Maria Antonietta, approda a un nuovo patto di famiglia con il primo casato d’Europa e a un’altra Asburgo, Maria Luisa, imperatrice dei francesi?
Impero espressione della «repubblica in armi» o primo passo verso la Restaurazione che si sarebbe tuttavia perfezionata un decennio più tardi con il ritorno dei Borboni? Resta comunque il fatto che fu Napoleone, e non altri, a imprimere un senso storico a quel caos di errori e orrori che era stata la politica francese tra ’89 e 9 novembre 1799, cioè il fatale 18 brumaio del colpo di stato autoritario e militare dell’allora trentenne generale corso?
Ma v’è chi si ostina a scorgere nel 1789 l’avvio di un’epoca nuova e felice, nonostante quel che si sa ormai bene esser allora accaduto. Allora, è giocoforza che questi qualcuno accettino di celebrare anche il 1793: e il bicentenario di questa nuova scadenza è ormai giunto. Non sembri provocatorio ricordare allora che cosa accadde due secoli fa, a partire dal marzo del ’93 un po’ dappertutto in Francia ma in modo speciale nelle regioni del centro e dell’ovest, nell’area tra Vandea e Bretagna.
E chi ama gridare alla provocazione non se la prenda con noi se la prenda con il «padre rivoluzionario» Gracco Babeuf, che denunziò indignato alla Convenzione i massacri perpetrati dalle truppe giacobine; se la prenda con Balzac, che nel romanzo Les chouans dipinse a possenti colori l’epopea della resistenza dei contadini cattolici contro le «colonne infernali» repubblicane, se la prenda con Hugo, che pure amava la Rivoluzione ma che nel Novantatré non potè esimersi dal rendere omaggio all’esercito popolare che per lungo tempo tenne testa alle feroci truppe dei bleus.
La rivolta scoppiò nel marzo 1793 e infiammò soprattutto l’ampia area tra Atlantico e riva sinistra della Loira. Molte cause concorsero a farla esplodere: il fatto che la Repubblica avesse in pochi mesi calpestati gli uni dopo gli altri tutti i diritti e i privilegi cui le comunità locali erano abituate fin dal medioevo per instaurare un’occhiuta, fiscale, pesante tirannia centralizzatrice; la vanificazione di tutte le promesse di terra e di libertà, mentre in cambio i possessi della Chiesa confiscati dalla Repubblica erano andati a ingrassare eserciti di nuovi ricchi composti da borghesi fedeli al nuovo stato mentre la gente si vedevo privato dei suoi naturali riferimenti solidaristici e comunitari, parroci ed enti assistenziali ecclesiastici prima di tutti; la stanchezza per la leva obbligatoria di massa che toglieva braccia alla terra e mandava a morire per una guerra che i giacobini avevano voluta e che appariva tanto lunga quanto assurda; infine la protesta per l’assassinio del re e la persecuzione contro i preti che avevano scelto di restar fedeli al papato (ma dietro il pretesto «lealista-repubblicano» si celava in realtà, ed era ormai chiaro a tutti, un evidente disegno di scristianizzazione).
Fin dal suo inizio, la Vandea non fu sola: i nobili francesi immigrati le fornirono appoggio diplomatico, finanziario e quando poterono anche militare, le flottiglie inglesi la sostennero con energia. Furono senza dubbio i primi successi della rivolta vandeano-angioino-normanna a determinare, come contraccolpo, la fine a Parigi dell’ambigua egemonia girondina, l’avvento al potere della Montagna, la proclamazione il 24 giugno 1793 della prima costituzione repubblicana d’Europa e — in un drammatico incalzare di eventi, dall’imposizione giacobina della dittatura del Comitato di salute pubblica all’uccisione di Marat nel luglio al varo dell’iniqua «legge sui sospetti» — il Terrore robespierriano, primo scopo conclamato del quale fu lo stroncare la resistenza vandeana.
Le gesta delle armate repubblicane in terra di Francia furono un vero «genocidio franco-francese», com’ è stato detto. In casi come questo, altri ama strumentalizzare il sensazionalismo: costume riprovevole, che non condividiamo. Ma a volervi indulgere, le pagine raccapriccianti sarebbero molte: non solo i villaggi incendiati, i bambini massacrati, le donne stuprate, ma perfino casi orrendi come la concia delle pelli degli uccisi per farne stivali E tutte queste gesta non vennero denunziate dai nemici al contrario, i capi delle orde (ripugna definirle armate, termine rispettabile) che se ne erano rese responsabili le narravano in lunghi, retorici prolissi racconti che la Convenzione ascoltava in piedi commossa pervasa da spartanamente inflessibile amor di patria. Questi erano gli uomini che osavano definir «fanatismo» la fede cattolica.
Anche dall’altra parte vi furono episodi orribili tanto più gravi poi perché commessi «nel nome del Cristo Re». Ma commessi anche — e non va dimenticato — da gente impaurita ed esasperata, che si era vista invasa la terra, bruciate le case, confiscati gli averi, sterninati i congiunti, profanate le chiese: e tutto nel nome della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fratellanza.
D’altronde, i nomi dei capi dell’eroica rivolta di Vandea sopravvivono ancora nella memoria collettiva e nel folklore: ancora a Saint-Florent-le-Vieil tra Vandea e Angiò si onora nella diesa del paese la tomba dell’eroico Cathelinau: ancora si canta la canzone del sire di Charrette, l’eroe della brava gente bretone. La rivolta, soffocata nel sangue dal dicembre 1794 con la Vittoria repubblicana di Le Mans seguita dalle rituali esecuzioni in massa, continuò sotto forma di guerriglia e di «banditismo» fino al 1815 nonostante le continue repressioni napoleoniche che sconvolsero la geografia umana di quelle regioni facendo scomparire interi centri nemici e imponendo la logica delle strade rettilinee, rapidi piani di scorrimento per i reparti incaricati delle spedizioni punitive. Fu la guerriglia del bocage, della boscaglia modello — come la coeva resistenza spagnola ai francesi — per molte future guerriglie.
La Vandea fu una guerra di popolo, come quella dei cristeros messicani fra 1926 e 1929: fu una guerra combattuta da un popolo intero per imporre a un gruppo di ideologi che intendevano dominarlo nel nome dei loro principi astratti i valori concreti d’una tradizione religiosa fondata sulla sacralizzazione della vita quotidiana e sull’ossequio alla Chiesa cattolica e d’una tradizione civica fondata sulla solidarietà e sui diritti comunitari.
La si può considerare la prima guerra di popolo dell’età contemporanea contro un regime totalitario. Per i cattolici meditare su questo modello storico significa prima di tutto riappropriarsi di un episodio fondamentale che troppo a lungo una censoria e puritana storiografia di impronta laicista ha negato, nascosto o presentato tendenziosamente.
Il rievocarla oggi, nel suo secondo centenario, non deve servire ad alimentare polemiche o recriminazioni: ma è indispensabile serva — questo si — a dissuadere altri dall’insistere con la tecnica della speculazione pseudostorica. Ed è augurabile contribuisca a rendere i cattolici più seri custodi della loro identità e delle loro memorie: e più fedeli al dovere della carità nei confronti del prossimo, quella forma di carità che si estende anche alle generazioni passate e che si esplica nella restaurazione del vero e nel suo rispetto.