Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
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La prospettiva tratteggiata in Gran Bretagna è doppiamente interessante perché, da un lato, vieta un’eutanasia la cui definizione si mostra già pesantemente rimaneggiata, e opportunamente “ristretta”; dall’altro, perché ritiene che “limitarsi” ad aiutare il paziente nel suicidio sollevi il personale medico (o chiunque) da ogni responsabilità.
L’eutanasia eventualmente proibita, infatti, sarebbe quella che con un termine ormai desueto si chiamerebbe “eutanasia attiva”, praticata attraverso la somministrazione di un farmaco letale. In pratica, è stata rispolverata l’idea secondo cui soltanto il “fare qualcosa” sarebbe associabile all’atto eutanasico, mentre il “non fare” avrebbe una valenza etica differente.
Secondo questa teoria, il “non fare” rientrerebbe normalmente nel legittimo rifiuto di accanimento terapeutico. È chiaro che, da questo punto di vista, risulterebbe perfettamente lecito – su richiesta del paziente – non dare acqua e cibo ad un morente, o anche insulina ad un diabetico. L’argomentazione è la seguente: se una persona desidera morire, cercherà il modo più rapido e indolore per farlo, e chiederà un’eutanasia “vera e propria”, cioè un farmaco letale.
Chiedere di morire attraverso la sospensione di terapie salvavita non è logico, dal momento che spesso produce agonie lente e dolorose. Quando tale richiesta viene avanzata, dunque, si tratterà certamente di casi particolari, in cui il trattamento è inutile e gravoso, e che rientrano pertanto nella categoria dell’accanimento terapeutico.
La richiesta di eutanasia “passiva”, assicurano i difensori di questo approccio vivo soprattutto nel mondo anglosassone, semplicemente non si dà. O non è eutanasia (bensì rifiuto di accanimento terapeutico), o è pura follia (ma allora manca il requisito di “capacità d’intendere”, ovunque necessario per eseguire la volontà del paziente), o non viene avanzata.
Inutile spiegare che tale teoria gioca con il fuoco, elaborando le proprie motivazioni su una base freddamente razionale, come mai avviene nelle richieste di eutanasia. È ormai noto che molte fra tali richieste sono in realtà appelli di aiuto, manifestazioni del desiderio di vicinanza e di affetto dei familiari, timore di essere “di peso” ai propri cari o alla società, sensazione di “non contare più nulla”.
E poi, è fuori di dubbio che ogni azione o omissione, eseguita con l’intento di procurare la “morte dolce” ad un paziente, costituisce un atto morale identico. Il tipo di atto infatti, attivo o omissivo, riguarda la forma esterna dell’atto stesso, e i mezzi adoperati: un’iniezione letale, un antidolorifico volutamente in eccesso, una mancata rianimazione, la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, etc. Ma l’intenzione, ciò che l’atto sottintende, è precisamente la volontà di sopprimere la vita di un uomo.
Di fronte ad un simile abuso, i fini eventualmente buoni o indifferenti non modificano il valore dell’atto. La pietà verso i sofferenti, infatti, porta ad essere solidali con colui che soffre, non ad ucciderlo, come diceva Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae (1995). Dunque, “uccisione pietosa” è un termine eufemistico e ingannevole, “una falsa pietà, anzi una preoccupante ‘perversione’ di essa: la vera ‘compassione’, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza” (n. 66,).
Con la differenza fra vera e falsa pietà si spiega anche l’inconsistenza del secondo punto sollevato dalla proposta britannica, ovvero l’ammissione del “solo” suicidio assistito. Il cavallo di battaglia dell’eutanasia “moderna” è l’autodeterminazione del paziente, il diritto di ciascuno di scegliere autonomamente della propria vita e della propria morte. Si rivendica la totale estraneità di questa visione rispetto a quella sottesa all’eutanasia nazionalsocialista. Quello infatti era un totalitarismo, qui si garantirebbero “semplicemente le libertà individuali”, nonché il pluralismo etico e culturale. Insomma, non si potrebbe dire di “no” a nessuno, almeno fino a che non viene ostacolata la vita sociale o l’incolumità di altri. Il relativismo etico, quindi, non avrebbe più rivali.
E quale migliore vessillo per il relativismo della legittimazione del suicidio? Eppure, esistono anche doveri verso noi stessi, esiste un valore intrinseco e oggettivo della nostra vita che non dipende da noi. È ancora Evangelium Vitae a ripeterlo: “Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l’innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme” (ibidem).
Collaborare a questo atto, di conseguenza, significa partecipare a questa radicale ingiustizia. Poiché alla base dei suicidio assistito c’è un’ingiustizia e non un atto d’amore, è comprensibile che il passaggio dall’eutanasia su richiesta (o dal suicidio assistito) all’eutanasia su pazienti non consenzienti sia breve.
Lo dimostra l’Olanda, dove il protocollo di Groningen per eseguire l’eutanasia pediatrica si sta estendendo a molti centri olandesi, e dove recentemente è stata avanzata la proposta di inserire nelle patologie incurabili, quelle che legittimerebbero la richiesta eutanasia, anche la depressione, che notoriamente indebolisce l’intoccabile “libertà di scelta”. Quando poi si entra nel delicato campo dei testamenti biologici la questione diventa ancora più incerta, perché si configura sempre la necessità di interpretare il contenuto e la validità del documento stesso.
Il problema di fondo, infatti, è che la mentalità eutanasica, quali che siano le sue sfumature linguistiche, giuridiche e politiche, parte dall’idea che esistano vite umane “non degne di essere vissute”. Basta questa discriminazione a generare le peggiori violenze e prevaricazioni sociali. Presto o tardi, dal giudizio di “indegnità” sulla propria vita si passa allo stesso giudizio su vite altrui, e si determina un tragico dominio dei forti sui deboli, dei sani sui malati, degli efficienti sugli improduttivi. Non è in fondo quanto già accade ogni giorno nel mondo, 150 mila volta all’anno solo in Italia, con la piaga dell’aborto?
Occorre rendersi conto che il culmine della battaglia culturale sul tema dell’eutanasia è alle porte. Bisogna essere pronti ad una campagna che probabilmente investirà anche l’Italia con casi pietosi, ambiguità, menzogne, forzature. Si cercherà di depenalizzare o legalizzare “alcune forme” di eutanasia per autorizzarle in fondo tutte.
Diranno che “ognuno deve essere libero di decidere”, e magari, come in Olanda, andranno a colpire i bambini. Diranno che la procedura sarà sempre rigorosa, mentre in realtà la spinta a favore dell’eutanasia anche nei casi più “normali” sarà enorme. Diranno che sarà usata solo quando non c’è altra soluzione e invece c’è sempre un’altra soluzione, ovvero accompagnare il morente.
Diranno che ammettere l’eutanasia nei testamenti biologici è il “prezzo da pagare” per difendersi da essa, consentendo a chi non la voglia di avere un’arma per scongiurarla. Sbagliato: mettendo l’opzione “eutanasia sì”, “eutanasia no” sullo stesso piano si promuove l’idea che si tratti di una semplice fatto di opinione. In realtà, c’è di mezzo una vita umana (la nostra) il cui valore supera il nostro pensiero e si salda all’oggettività della natura umana, alla solidarietà delle creature, alla potenza divina.
Ancora, diranno che “tanto l’eutanasia è già un dato di fatto: tanto vale regolamentarla”. È l’inganno usato già tante volte per introdurre leggi profondamente ingiuste. Ma attenzione: occorre valutare due importanti fattori. Occorre in primo luogo considerare se la pratica che si vuole introdurre, pur in assenza di legge specifica, sia vietata dalla legislazione. In questo caso, come in Italia, ogni sua autorizzazione (anche parziale) peggiorerebbe lo stato di cose, legittimando di fatto un reato, in questo caso un omicidio.
Bisogna piuttosto applicare meglio il divieto vigente. Occorre in secondo luogo considerare se la legge possa davvero ridurre il numero delle morti. È verosimile che introdurre l’eutanasia dove questa è vietata, pur in presenza di notevoli abusi e violazioni del divieto, aumenterebbe di molto il numero delle morti, perché indurrebbe un maggior numero di persone a farvi ricorso, protette dal rassicurante beneplacito della legge.
Infine, diranno che “il nazismo non c’entra niente”: lì c’era totalitarismo, qui c’è la democrazia. Lì c’era l’eugenetica di stato, qui c’è la libertà dell’individuo. E invece proprio dal relativismo liberale nasce il peggiore dei totalitarismi, che rinnega i diritti umani fondamentali con un sorriso.
Nel sermone pronunciato il 3 agosto del 1941, il Cardinal Clemens August von Galen, in riferimento al programma di eutanasia nazionalsocialista, diceva: “i numerosi casi di morte improvvisa di malati di mente non sono naturali, ma causati spesso deliberatamente, a causa dell’idea che è legittimo eliminare una vita indegna di essere vissuta”. L’attualità di questo commento non potrebbe essere maggiore.
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