La Madonna di Guadalupe: un caso di ”inculturazione” miracolosa

Madonna_GuadalupeArticolo pubblicato su Cristianità n. 205-206 (1992)

Le calunnie riguardo la conquista e la successiva evangelizzazione delle americhe da parte degli spagnoli si sprecano. Purtroppo non di uguale attenzione sono stati oggetto altri avvenimenti,  per esempio, quello con il quale Gesù Cristo stesso, attraverso la sua Santissima Madre, volle rivelarsi agli indigeni del Nuovo Mondo, cioè l’apparizione della Madonna all’indio Juan Diego Cuauhtlatóhuac nel dicembre del 1531

di Giulio Dante Guerra

La ricorrenza del quinto centenario dello sbarco di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo, il 12 ottobre 1492 (1), invita almeno i cattolici a considerare tale avvenimento nel suo autentico significato, più volte richiamato da Papa Giovanni Paolo II: quello dell’inizio dell’evangelizzazione dei popoli indigeni del continente americano, i cosiddetti indios o “indiani” (2).

Sul fatto si è venuto elevando nel corso dei secoli un cumulo di calunnie — la celebre leyenda negra — che tanti storici anticattolici — spesso anglo-americani, e quindi connazionali dei responsabili del genocidio degli “indiani” del Nordamerica — hanno gettato su tale evangelizzazione (3), ingigantendo gli inevitabili errori che i primi missionari spagnoli — avvezzi da secoli a trattare con “infedeli” che conoscevano benissimo il cristianesimo, come i musulmani di Spagna — possono aver commesso nell’annunciare Gesù Cristo a popoli totalmente pagani e culturalmente lontanissimi dalla mentalità europea e mediterranea (4).

Purtroppo non di uguale attenzione sono stati oggetto altri avvenimenti, strettamente legati alla scoperta e all’evangelizzazione, come, per esempio, quello con il quale Gesù Cristo stesso, attraverso la sua Santissima Madre, volle rivelarsi agli indigeni del Nuovo Mondo, cioè l’apparizione della Madonna all’indio Juan Diego Cuauhtlatóhuac nel dicembre del 1531 — appena dieci anni dopo la conquista — sulla collina di Tepeyac, presso Città di Messico, dove oggi sorge il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe.

L’apparizione all’”indio” Juan Diego

Cuauhtlatóhuac (5), nato a Cuauhtitlán, piccolo villaggio pochi chilometri a nord di Tenochtitlán, l’odierna Città di Messico, nel 1474, è un macehual, un uomo del popolo, piccolo coltivatore diretto in un modesto villaggio: poco più di niente, nella società azteca complessa e fortemente gerarchizzata. Nel 1524, all’età di cinquant’anni, viene battezzato con il nome di Juan Diego, insieme con la moglie Malintzin, che prende a sua volta il nome di María Lucía.

Rimasto vedovo quattro anni più tardi, divide il suo tempo fra il lavoro dei campi e le pratiche della religione cristiana, fra cui l’ascolto della catechesi impartita agli indigeni neoconvertiti dai missionari spagnoli a Tlatelolco, un sobborgo di Città di Messico. Quindi la sua vita è apparentemente la stessa di tanti altri suoi conterranei quando, all’alba del 9 dicembre 1531, avviene l’incontro che cambierà totalmente la sua vita e che lascerà sul suo mantello, o tilma, un segno visibile della benedizione data da Dio all’opera — allora appena iniziata — dell’evangelizzazione dei popoli del Nuovo Mondo (6).

Quel giorno è un sabato e, come ogni sabato mattina, Juan Diego si sta recando a Tlatelolco, alla chiesa francescana di Santiago, per la preghiera e la catechesi. Giunto all’altezza del colle chiamato Tepeyac, ode un canto melodioso, come di uccelli rari. Si ferma stupito, domandandosi se non sia per caso giunto nel paradiso terrestre, quando il canto tace e dalla cima del colle una dolce voce lo chiama: “Juantzin, Juan Diegotzin” (7).

Sale, e vede una giovane Signora, dal vestito risplendente come il sole, in piedi sulla sommità, davanti alla quale cade in ginocchio. Allora la Signora si rivolge a lui dichiarando di essere “la Perfetta Sempre Vergine Maria, la Madre del verissimo ed unico Dio” e gli ordina di recarsi dal vescovo a riferirgli che desidera le si eriga un tempio ai piedi del colle. Juan Diego corre a Città di Messico e si reca dal vescovo; ricevuto dopo lunga attesa, gli parla dell’apparizione e gli riferisce le parole della Vergine, ma non viene creduto.

Tornando a casa la sera, incontra nuovamente sul Tepeyac la Vergine Maria, a cui riferisce il suo insuccesso e chiede di essere esonerato dal compito affidatogli, dichiarandosene indegno. La Vergine gli risponde ordinandogli di tornare dal vescovo a rinnovare la richiesta.

La mattina dopo, domenica, Juan Diego, dopo la Messa e la catechesi, torna dal vescovo e, inginocchiatosi, gli ripete con le lacrime agli occhi la richiesta della Regina del Cielo. Il vescovo, dopo avergli fatto parecchie domande sul luogo e sulle circostanze dell’apparizione, gli chiede un segno; poi, non appena è uscito, gli manda dietro dei servitori a spiarlo, ma essi lo perdono di vista non appena si avvicina al Tepeyac.

Mentre costoro tornano dal vescovo tacciando Juan Diego di mentitore e di visionario, l’indio incontra di nuovo la Vergine che gli promette di dargli il segno l’indomani mattina. Ma la mattina seguente Juan Diego non può tornare: un suo zio, Juan Bernardino, è gravemente ammalato. Egli cerca in tutti i modi di soccorrere lo zio, chiama un medico, ma non vi è niente da fare: in tutta la giornata del lunedì il malato si aggrava sempre di più, e alla sera prega il nipote di recarsi a Tlatelolco la mattina seguente a cercare un sacerdote che lo confessi, essendo ormai sicuro di morire presto.

Così, il martedì mattina, Juan Diego esce di casa mentre è ancora buio e si dirige di corsa verso Tlatelolco; giunto in vista del Tepeyac decide di cambiare strada e di aggirare il colle sul lato orientale, per evitare l’incontro con la Signora, ritenendo più importante la salvezza eterna dello zio moribondo.

Ma la Signora è lì, davanti a lui, e gli chiede il perché di tanta fretta. Juan Diego si prostra ai suoi piedi e le chiede perdono per non poter compiere l’incarico affidatogli presso il vescovo, a causa della malattia mortale dello zio. Ma la Signora lo rassicura, gli dice che lo zio è già guarito, e lo invita a salire sulla sommità del colle per cogliere e portarle i fiori che troverà lassù. Juan Diego sale e si meraviglia di trovare la cima del colle coperta di bellissimi “fiori di Castiglia”: infatti è il 12 dicembre, il solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano allora vigente, e oltre alla stagione neppure il luogo, una desolata pietraia, è adatto alla crescita di fiori simili. Juan Diego li coglie, li ripone nella tilma, e li porta alla Vergine, la quale li prende e poi li rimette nel mantello dell’indio, dicendogli di portarli al vescovo come prova della verità delle apparizioni.

Juan Diego si reca a Città di Messico, badando bene di non far cadere i fiori raccolti nel mantello, e chiede nuovamente di essere ricevuto dal vescovo, ma i servitori non gli danno retta e lo fanno aspettare a lungo; poi si mettono a sbirciare nella sua tilma e, vedendo i fiori, tentano per ben tre volte di prenderglieli, ma inutilmente, perché i fiori diventano come aderenti al tessuto.

Stupiti di ciò, i servitori si decidono finalmente a introdurre Juan Diego dal vescovo, davanti al quale l’indio riferisce quanto ha visto e apre il mantello per offrirgli i fiori. Non appena questi cadono a terra, “subito sul mantello si disegnò e si manifestò alla vista di tutti l’amata Immagine della perfetta Vergine Santa Maria, Madre di Dio, nella forma e figura in cui la vediamo oggi, “così come è conservata nella sua amata casa, nel tempio eretto ai piedi del Tepeyac e che invochiamo con il titolo di Guadalupe” (8).

Di fronte a tale prodigio, il vescovo cade in ginocchio, e con lui tutti i presenti; poi, rialzatosi, prega la Madonna chiedendole perdono dell’incredulità da lui mostrata nei confronti di Juan Diego, e infine, sfilata la tilma dal collo dell’indio, la colloca all’interno della sua cappella. La mattina dopo Juan Diego, dopo essere rimasto tutta la giornata ospite del vescovo, accompagna il presule al Tepeyac per indicare il luogo in cui la Vergine ha chiesto di costruirle un tempio; poi, mentre già iniziano i preparativi per la costruzione, chiede il permesso di recarsi a casa per vedere suo zio, che aveva lasciato ammalato il giorno prima.

Parte accompagnato da alcuni membri del seguito del vescovo, e, giunto a casa, trova Juan Bernardino completamente guarito, che si meraviglia di vedere il nipote in compagnia di tanta gente. Quando Juan Diego gli racconta dell’apparizione della Madonna, che gli aveva ordinato di completare la missione presso il vescovo e gli aveva annunciato la guarigione dello zio, quest’ultimo riferisce che nello stesso momento la Signora del Cielo era apparsa anche a lui, lo aveva guarito e gli aveva detto di voler essere invocata con il titolo di “Perfetta Vergine Santa Maria di Guadalupe”.

Allora Juan Bernardino viene condotto a Città di Messico, perché riferisca tutte queste cose al vescovo, il quale trattiene lui e il nipote come suoi ospiti per alcuni giorni, fino al completamento della costruzione, ai piedi del Tepeyac, di una ermita, ossia di una piccola cappella, in cui esporre alla venerazione l’immagine miracolosa. Nel frattempo l’immagine, sempre per disposizione del vescovo, viene collocata provvisoriamente nella cattedrale, dove diventa subito oggetto di una devozione popolare che si è mantenuta ininterrotta fino ai nostri giorni.

La costruzione dell’ermita ai piedi del Tepeyac viene completata con incredibile rapidità e il 26 dicembre 1531 il vescovo, padre Juan de Zumárraga O.F.M., può organizzare la solenne traslazione dell’immagine dalla cattedrale alla cappella eretta sul luogo dell’apparizione. E, proprio in questa occasione, si compie un nuovo miracolo (9). La processione, con la sacra immagine trasportata su una ricchissima portantina adornata di piume e sormontata da un baldacchino, dietro alla quale venivano il vescovo con tutto il clero, la nobiltà spagnola e azteca e un’incredibile folla di fedeli, avanzava lungo una delle dighe, o calzadas, che collegavano l’ancora “lagunare” Città di Messico alla terraferma, diretta verso il Tepeyac.

Il popolo intonava canti, spagnoli e náhuatl, in onore della Vergine (10). Sulle acque del lago ai lati della calzada, a bordo di canoe, gruppi di danzatori indigeni vestiti da guerrieri esternavano la loro gioia mimando scene di battaglia con archi e frecce, senza che — sia detto di passaggio per i denigratori dell’evangelizzazione “colonialistica” spagnola — il vescovo trovasse niente di scandaloso nel fatto che gli indios onorassero la Vergine Maria in un modo così “pagano”.

A un certo momento avviene un tragico incidente: a uno degli arcieri sfugge dall’arco la freccia, che trapassa la gola a uno dei suoi compagni, uccidendolo sul colpo. Il corpo dello sventurato viene immediatamente portato davanti all’immagine della Madonna di Guadalupe, mentre tutti i presenti pregano la Vergine perché lo risusciti. Ed ecco che, appena estratta la freccia, la ferita si rimargina, lasciando solo una profonda cicatrice, e il morto si alza in piedi risuscitato, cantando lodi alla Signora del Cielo (11).

Dopo la costruzione dell’ermita, Juan Diego decide di dedicare tutta la sua esistenza al servizio della Vergine Maria. Lascia la sua casa e il suo campo allo zio Juan Bernardino e si trasferisce, con il permesso del vescovo, in una capanna attigua alla chiesetta della Madonna di Guadalupe. Qui trascorre il suo tempo pregando e compiendo i lavori più umili necessari a far sì che l’ermita sia sempre pulita e presentabile alla moltitudine dei fedeli che l’affolla quotidianamente.

Nel 1544 scoppia in Messico una grave epidemia, che miete numerose vittime, specialmente fra la popolazione indigena, priva di difese immunitarie contro le malattie introdotte nel paese dagli spagnoli. Fra le vittime vi è anche Juan Bernardino, lo zio di Juan Diego, che muore il 15 maggio di quell’anno e viene sepolto nella cappella del Tepeyac. Per implorare l’aiuto del Cielo contro la pestilenza, i frati francescani del convento di Tlatelolco organizzano una processione al Tepeyac, in onore della Madonna di Guadalupe: subito l’epidemia si attenua, per cessare dopo pochi giorni.

Quattro anni dopo, nel 1548, lo stesso anno della morte del vescovo Juan de Zumárraga O.F.M., muore anche Juan Diego “dopo sedici anni di servizio al tempio della Regina del Cielo” (12) ed è sepolto anche lui nell’ermita. 

La devozione e la sua diffusione

Il culto della Madonna di Guadalupe si diffonde rapidamente in tutto il Messico, ma incontra anche alcune opposizioni, particolarmente in quei religiosi che temono una sopravvivenza, sotto una maschera di devozione cristiana, dei culti idolatrici da poco abbandonati dagli indios. Infatti la collina del Tepeyac era stata, in epoca precolombiana, sede di un tempio di Tonantzín, una dea azteca il cui nome significa “nostra venerata madre”, tempio distrutto durante la conquista.

Dopo le apparizioni della Madonna di Guadalupe e l’edificazione dell’ermita, il luogo è definitivamente consacrato al culto cristiano della Vergine Maria; ma gli indios “[…] oggi che lì è stata edificata la chiesa di Nostra Signora di Guadalupe la chiamano ancora Tonantzín, prendendo spunto dai Predicatori che chiamano col nome di Tonantzín Nostra Signora, la Madre di Dio. Quale sia l’origine di questo attributo non si sa con certezza. Ma con certezza sappiamo che il vocabolo deriva dal primitivo culto della Tonantzín antica. Ed è cosa cui si doveva rimediare, perché il nome proprio della Madre di Dio, Signora Nostra, non è Tonantzín, ma Dios y nantzin” (13).

Così lo storico padre Bernardino de Sahagún O.F.M., che — tacendo sull’apparizione per non negare un fatto la cui origine soprannaturale è stata riconosciuta dalla locale autorità ecclesiastica — nella seconda metà del secolo XVI critica il nome con cui gli indios venerano la Vergine del Tepeyac, nome che al contrario i domenicani giudicano, dato il significato, perfettamente compatibile con la fede cristiana; decisamente “anti-apparizionista” è, invece, il padre provinciale dei francescani, Francisco Bustamante, che l’8 settembre 1556 nega in una sua predica l’apparizione e l’origine miracolosa dell’immagine, affermando che si tratta di un dipinto di un pittore indio, un certo Marcos Cipac.

Sono voci isolate, che non ostacolano minimamente il diffondersi della devozione alla Madonna di Guadalupe, peraltro incoraggiata dalla Chiesa messicana. Così, nel 1557, il nuovo arcivescovo, padre Alonso de Montúfar O.P., fa costruire un’ermita più grande di quella eretta ventisei anni prima dal suo predecessore, e il 10 settembre 1600 vi è la posa della prima pietra del primo vero santuario, la “iglesia de los indios”, che viene consacrato nel novembre del 1622 (14); il 25 settembre 1629, quando uno straripamento del lago sommerge totalmente Città di Messico e i suoi sobborghi, l’immagine viene trasportata solennemente in canoa dal santuario alla cattedrale, per implorare dalla Vergine la fine dell’alluvione.

Fra le testimonianze del rapido diffondersi della devozione alla Madonna di Guadalupe anche fuori del Messico e dell’America Latina, è particolarmente significativa la presenza di una copia dell’immagine del Tepeyac nella cabina dell’ammiraglio Gian Andrea Doria — che l’aveva avuta in dono da re Filippo II — alla battaglia di Lepanto, nel 1571. Tale copia — una delle più antiche ancora esistenti — si trova oggi nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano d’Aveto, in provincia di Genova (15).

Tuttavia la devozione alla Madonna di Guadalupe rimane sempre un culto locale, privo di quella “ufficialità” che può venirgli solo dalla Santa Sede. Così fra il 1662 e il 1666, allo scopo di ottenere l’istituzione, per il giorno 12 dicembre, della festività della Madonna di Guadalupe con Ufficio e Messa propri, per la prima volta vengono raccolte ufficialmente testimonianze sull’apparizione e viene fatta esaminare l’immagine da medici e da pittori. I testimoni interrogati sono: otto anziani abitanti di Cuauhtitlán, il paese natale di Juan Diego, un meticcio e sette indios, uomini e donne, alcuni dei quali ultracentenari; dieci fra sacerdoti e religiosi di vari ordini; due nobili messicani, uno dei quali, il cavaliere di Santiago don Diego Caño Moteuczuma, nipote di Moctecuzoma Xocoyotzin, l’imperatore azteco — più noto in Italia come Montezuma II — che aveva accolto Hernán Cortés a Tenochtitlán.

A queste testimonianze verbali si aggiunge un documento scritto da don Luis Becerra Tanco, studioso delle lingue e delle culture indigene del Messico. Tutte le testimonianze, in particolare quelle dei vecchi di Cuauhtitlán — i quali, fra l’altro, essendo analfabeti, non possono essere stati influenzati dai libri già stampati nel 1666 — concordano sostanzialmente con il Nican mopohua di Antonio Valeriano (16). In seguito a ciò, nel 1667 Papa Clemente IX emana una bolla in cui dichiara il 12 dicembre festa della Madonna di Guadalupe (17).

Gli esami scientifici della “tilma”

Al 1666 risale anche il più antico esame scientifico dell’immagine “impressa” sulla tilma. Essa è costituita da due teli di ayate — un rozzo tessuto di fibre d’agave, usato in Messico dagli indios poveri per fabbricare abiti — cuciti insieme con filo sottile. Su di essa si vede l’immagine della Vergine, di dimensioni leggermente inferiori al naturale — la statura è di 143 centimetri — e di carnagione un po’ scura, donde l’appellativo popolare messicano di Virgen Morena o Morenita, circondata dai raggi del sole e con la luna sotto i suoi piedi, secondo la figura della Donna dell’Apocalisse (18).

I tratti del volto non sono né di tipo europeo né di tipo indio, ma piuttosto meticcio — cosa “profetica” al tempo dell’apparizione — così che oggi, dopo secoli di commistioni fra le due razze, la Vergine di Guadalupe appare tipicamente “messicana”. Sotto la falce argentata della luna un angelo, le cui ali sono ornate di lunghe penne rosse, bianche e verdi, sorregge la Vergine che, sotto un manto verde-azzurro coperto di stelle dorate, indossa una tunica rosa “ricamata” di fiori in boccio dai contorni dorati, e stretta sopra la vita da una cintura color viola scuro: questa cintura — il “segno di riconoscimento”, presso gli aztechi, delle donne incinte — indica che la Vergine è in procinto di donare agli uomini il Salvatore (19).

I risultati degli esami compiuti su questa immagine dai pittori e dagli scienziati nel 1666 sono i seguenti: è assolutamente impossibile che un’immagine così nitida sia stata dipinta a olio o a tempera sull’ayate, data la completa mancanza di preparazione di fondo; che il clima del luogo in cui l’immagine è stata esposta, senza alcuna protezione, per centotrentacinque anni è tale da distruggere in un tempo più breve qualsiasi pittura, anche se dipinta su tela di buona qualità e ben preparata, a differenza del rozzo ayate della tilma di Juan Diego (20).

Gli studi scientifici sull’immagine e sull’ayate proseguono nei secoli successivi, fino ai giorni nostri. Nel 1751 una commissione di sette pittori con a capo Miguel Cabrera è incaricata di compiere una nuova ispezione sull’ayate, e i risultati di essa vengono pubblicati cinque anni dopo dallo stesso Miguel Cabrera con il titolo Maravilla americana (21).

Nel 1752 sempre Miguel Cabrera, con l’aiuto di due dei sei pittori che hanno esaminato con lui l’immagine l’anno precedente, esegue tre copie — una per l’arcivescovo di Città di Messico, una per Papa Benedetto XIV e la terza per sé, come “modello” per le altre copie che da ogni parte gli vengono richieste — ma al contempo riconosce l’impossibilità pratica di riprodurre fedelmente l’espressione e i tratti dell’originale, cosa già notata precedentemente su copie più antiche.

Le conclusioni a cui giungono Miguel Cabrera e i suoi colleghi sono sostanzialmente le stesse a cui erano giunti i medici e i pittori nel 1666: l’immagine non è un dipinto, apparendo i colori come “incorporati” alla trama della tela; e non soltanto una pittura, ma lo stesso tessuto dell’ayate avrebbe dovuto disgregarsi in breve tempo nelle condizioni climatiche della radura ai piedi del Tepeyac.

Dell’impossibilità a resistere in simili condizioni da parte di una pittura eseguita senza preparazione del fondo testimonia l’esperimento condotto poco più di trent’anni dopo dal medico José Ignacio Bartolache. Fra il 1785 e il 1787 egli mette all’opera una squadra di filatori e di tessitori indigeni per far tessere degli ayates il più possibile simili a quello di Juan Diego, utilizzando due diversi tipi di fibra vegetale — solo nel 1976 si potrà accertare che il tessuto della tilma è ricavato da fibre di agave popotule —, ma senza riuscire a far riprodurre esattamente la consistenza dell’originale.

Alla fine, stanco dei tentativi, sceglie gli ayates che gli sembrano, all’occhio e al tatto, meno peggiori e incarica cinque pittori di eseguire copie della Madonna di Guadalupe sulla tela non preparata, adoperando i colori e le tecniche di pittura in uso duecentocinquant’anni prima. Una di queste copie — dipinta nel 1788 da Rafael Gutiérrez — viene collocata il 12 settembre dell’anno successivo sull’altare della Capilla del Pocito, da poco eretta accanto al santuario, che era stato completamente ricostruito, nella forma in cui lo si ammira ancor oggi, fra il 1695 e il 1709.

Ma non vi resta a lungo: nonostante sia protetta da due robusti cristalli, la copia di Rafael Gutiérrez deve essere tolta dall’altare nel 1796 — sei anni dopo la morte di José Ignacio Bartolache — e riposta in un angolo della sacrestia, perché completamente rovinata. Frattanto, nel 1791, un incidente ha messo in luce un’altra singolare caratteristica dell’ayate. Alcuni operai, incaricati di pulire con una soluzione acquosa di acido nitrico al 50% la cornice d’oro che dal 1777 racchiude l’immagine, lasciano cadere inavvertitamente sulla tela parte della soluzione “detergente”.

Stando alle leggi della chimica, dovrebbe essere un danno irreparabile: infatti, l’acido nitrico reagisce non solo con le proteine presenti nei tessuti d’origine animale o vegetale dando loro un caratteristico colore giallo — la cosiddetta “reazione xantoproteica” — ma, soprattutto, con la cellulosa che costituisce la struttura portante delle fibre vegetali, disgregandole. Invece, nel caso dell’ayate della Madonna di Guadalupe, il tessuto è rimasto inspiegabilmente integro, e le due macchie giallastre della reazione xantoproteica — che non hanno, comunque, toccato la figura della Vergine — vanno sbiadendo con il passar del tempo.

A questo si aggiunga un altro fatto, a tutt’oggi inspiegabile, notato anch’esso per la prima volta nella seconda metà del secolo XVIII e più volte confermato anche ai nostri giorni: l’ayate “respinge” gli insetti e la polvere, che invece si accumulano abbondantemente sul vetro e sulla cornice (22).

Ma i risultati più sorprendenti verranno dagli studi sull’immagine della Madonna di Guadalupe compiuti nel nostro secolo. Nel 1936, il direttore della sezione di chimica del Kaiser Wilhelm Institut di Heidelberg, dottor Richard Kuhn — premio Nobel per la Chimica nel 1938 —, ha la possibilità di analizzare due fili, uno rosso e uno giallo, provenienti da frammenti della tilma di Juan Diego, forse ritagliati nel 1777 per adattare alla cornice l’antico mantello, e poi conservati come reliquie. I risultati delle analisi, condotte con le tecniche più sofisticate allora disponibili, sono incredibili: sulle fibre non vi è traccia di coloranti, né vegetali, né animali, né minerali (23).

La tecnica più usata oggi per determinare la natura dei pigmenti è quella della fotografia ai raggi infrarossi, che vengono riflessi o assorbiti in maniera diversa dalle varie sostanze contenute nei pigmenti stessi. Una prima fotografia a raggi infrarossi dell’immagine della Madonna di Guadalupe è eseguita nel 1946 dal fotolitografo Jesús Castaño, ma finisce in archivio a causa della morte dell’autore. Finalmente, nel 1979, lo scienziato e pittore americano Philip Serna Callahan esegue una quarantina di fotografie all’infrarosso dell’immagine, sulle quali può compiere uno studio accurato (24).

Tale studio, anche se viziato da qualche difetto nelle tecniche fotografiche, è il più accurato fra quelli compiuti sui colori che formano l’immagine e conferma nella sostanza gli studi precedenti: la quasi totalità della figura fa tutt’un corpo con il tessuto dell’ayate, con l’eccezione di alcune parti, come le mani, che appaiono ridipinte per ridurre la lunghezza delle dita, l’intera parte inferiore compresa la figura dell’angelo, l’argento della luna, l’oro dei raggi solari e delle stelle, e il bianco delle nubi che circondano i raggi stessi.

A proposito di questi e di altri particolari, che Philip Serna Callahan definisce un po’ troppo sbrigativamente “aggiunte”, occorre fare alcune precisazioni. Dell’applicazione di una patina bianca sulle nubi — allo scopo di cancellare dei cherubini che, dipinti per eccesso di devozione intorno alla figura della Vergine, si erano deteriorati quasi sùbito — parla già nel 1668 padre Francisco Florencia S.J. nel suo libro Estrella del Norte de México (25).

Così pure l’aggiunta d’oro ai raggi del sole e d’argento alla luna era già stata notata — e biasimata — dagli studiosi che avevano compiuto il primo esame scientifico nel 1666. Quanto alla cancellazione della corona che originariamente ornava il capo della Vergine, si tratta di un intervento assai recente, del 1895, eseguito dal pittore Salomé Pina per “far posto” alla corona d’oro massiccio che in quell’anno viene, con una cerimonia ufficiale, applicata all’immagine (26).

Per quanto riguarda il resto dell’immagine, sembra difficile che possa avere subìto “aggiunte” nel senso inteso da Philip Serna Callahan: sia la più antica descrizione dell’immagine, In tilmatzintli, scritta con ogni probabilità da Antonio Valeriano nella seconda metà del secolo XVI e pubblicata da Luis Lasso de la Vega nel 1649 insieme con il Nican mopohua (27), sia la già menzionata copia presente alla battaglia di Lepanto — e quindi anteriore al 1571 — mostrano l’immagine come ci appare oggi, a parte ovviamente la corona cancellata nel 1895.

È quindi più probabile che gli interventi di mano umana individuati da Philip Serna Callahan siano solo semplici ritocchi; e don Faustino Cervantes Ibarrola, nelle sue note al libro di Philip Serna Callahan, ritiene che siano stati apportati dal pittore indio Marcos Cipac — quello accusato da padre Francisco Bustamante O.F.M. di essere l’autore del “falso” dell’immagine di Nostra Signora di Guadalupe — al tempo della costruzione della seconda ermita da parte dell’arcivescovo padre Alonso de Montúfar O.P., probabilmente per riparare i danni arrecati alla tilma dall’esposizione per più di vent’anni in condizioni che avrebbero dovuto distruggere completamente qualunque ayate. In ogni caso, è significativo che anche le fotografie all’infrarosso abbiano dimostrato la natura “non manufatta” —acheropita, per dirla con il termine tecnico d’origine greca — della parte essenziale dell’immagine.

Ma i risultati più incredibili sono venuti dall’esame degli occhi della Vergine di Guadalupe. È noto che nell’occhio umano si formano tre immagini riflesse degli oggetti osservati — una sulla superficie esterna della cornea, la seconda sulla superficie esterna del cristallino e la terza, ovviamente rovesciata, sulla superficie interna del cristallino stesso — dette “immagini di Purkinje-Sanson” dai nomi dei due ricercatori che le scoprirono nel secolo XIX.

Se tali immagini riflesse, oltre che negli occhi di una persona vivente, possono forse essere viste anche in una fotografia ad alta risoluzione del suo viso, non potranno certo mai vedersi negli occhi di un volto umano dipinto su una tela. Eppure, nel 1929, il fotografo Alfonso Marcué González, esaminando alcuni negativi dell’immagine della Madonna di Guadalupe, scorge nell’occhio destro qualcosa di simile al riflesso di un mezzo busto umano. La scoperta — tenuta segreta in attesa di esami più approfonditi — è confermata il 29 maggio 1951 dal fotografo ufficiale del santuario, José Carlos Salinas Chávez, che rilascia pubblica dichiarazione scritta di aver vista […] riflessa nella pupilla del lato destro della Vergine di Guadalupe la Testa di Juan Diego, accertandone subito la presenza anche sul lato sinistro” (28).

La presenza negli occhi della Vergine di questa presunta “testa di Juan Diego” viene confermata negli anni successivi dalle osservazioni di illustri oftalmologi, compiute anche direttamente sulla tilma priva del vetro protettivo, i quali riescono pure a individuare, nel solo occhio destro, la seconda e la terza immagine di Purkinje-Sanson.

È una scoperta che rende ancora più “inspiegabile” l’immagine del Tepeyac, ma non è ancora tutto. Infatti, quando nel 1979 l’ingegnere peruviano José Aste Tonsmann, esperto di elaborazione elettronica delle immagini, viene a conoscenza della scoperta fatta da José Carlos Salinas Chávez ventotto anni prima, chiede di poter analizzare — con il metodo dell’elaborazione elettronica mediante computer, usato, fra l’altro, per la “decifrazione” delle immagini inviate sulla terra dai satelliti artificiali e dalle sonde spaziali — i riflessi visibili negli occhi della Madonna di Guadalupe. Con questo metodo — basato sulla scomposizione di una figura in “punti” luminosi e sulla “traduzione” della luminosità di ciascun punto nel “codice binario” del calcolatore — José Aste Tonsmann riesce a ingrandire le iridi degli occhi della Vergine fino a 2500 volte le loro dimensioni originarie, e a rendere, mediante opportuni procedimenti matematici e ottici, il più possibile nitide le immagini in esse contenute.

Il risultato ha, ancora una volta, dell’incredibile: negli occhi della Madonna di Guadalupe è riflessa l’intera scena di Juan Diego che apre la sua tilma davanti al vescovo Juan de Zumárraga O.F.M. e agli altri testimoni del miracolo. In questa scena è possibile individuare, da sinistra verso destra guardando l’occhio: un indio seduto, che guarda in alto; il profilo di un uomo anziano, con la barba bianca e la testa segnata da un’avanzata calvizie e da qualcosa di simile alla chierica dei frati, molto somigliante alla figura del vescovo Juan de Zumárraga O.F.M. quale appare nel dipinto di Miguel Cabrera raffigurante il miracolo della tilma; un uomo più giovane, quasi sicuramente l’interprete Juan González; un indio dai lineamenti marcati, con barba e baffi, certamente Juan Diego, che apre il proprio mantello, ancora privo dell’immagine, davanti al vescovo; una donna dal volto scuro, forse una schiava nera; un uomo dai tratti spagnoli — quello già individuato dagli esami oftalmoscopici sulla tilma e inizialmente scambiato per Juan Diego — che guarda pensoso la tilma accarezzandosi la barba con la mano.

Tutti questi personaggi stanno guardando verso la tilma, meno il primo, l’indio seduto, che sembra guardare piuttosto il viso di Juan Diego. Insomma, negli occhi dell’immagine della Madonna di Guadalupe vi è come una “istantanea” di quanto accaduto nel vescovado di Città di Messico al momento in cui l’immagine stessa si formò sulla tilma. Al centro delle pupille, poi, si nota, in scala molto più ridotta, un’altra “scena”, del tutto indipendente dalla prima, in cui compare un vero e proprio “gruppo familiare” indigeno composto da una donna, da un uomo, da alcuni bambini, e — nel solo occhio destro — da altre persone in piedi dietro la donna.

La presenza di queste immagini negli occhi è, innanzi tutto, la conferma definitiva dell’origine prodigiosa dell’icona guadalupana: è materialmente impossibile dipingere tutte queste figure in cerchietti di circa 8 millimetri di diametro, quali sono le iridi della Madonna di Guadalupe, e per di più nell’assoluto rispetto di leggi ottiche totalmente ignote nel secolo XVI. Inoltre, la scena del vescovado come appare negli occhi della Vergine pone un altro problema: essa non è quella che poteva essere vista dalla supeficie della tilma, dato che vi compare Juan Diego con la tilma dispiegata davanti al vescovo. A questo proposito José Aste Tonsmann avanza l’ipotesi che la Madonna fosse presente, sebbene invisibile, al fatto, e abbia “proiettata” sulla tilma la propria immagine, avente negli occhi il riflesso di ciò che stava vedendo (29).

Un altro studio scientifico che ha dato risultati molto interessanti è quello relativo alla disposizione delle stelle sul manto della Vergine, disposizione che, pur essendo diversa da quelle “geometriche” tipiche dei cieli dipinti, per esempio, sulle volte di alcune chiese, sembra tutt’altro che casuale. Questo fatto, che mal si accorda con la sbrigativa definizione di “aggiunte” data da Philip Serna Callahan alle stelle del manto e ai disegni del broccato della tunica, spinge don Mario Rojas Sánchez, traduttore dei testi náhuatl sull’apparizione e studioso della cultura azteca, a uno studio accurato su questi due particolari dell’immagine di Guadalupe.

Partendo dalla somiglianza fra i grandi fiori in boccio visibili sulla tunica della Vergine e il simbolo azteco del tépetl, cioè del monte, don Mario Rojas Sánchez ha identificato sulla tunica una “mappa” dei principali vulcani del Messico; quanto alle stelle, lo stesso sacerdote ha potuto accertare, grazie alla collaborazione di alcuni astronomi e dell’osservatorio Laplace di Città di Messico, che esse corrispondono alle costellazioni presenti sopra Città di Messico al solstizio d’inverno del 1531 — solstizio che, dato il calendario giuliano allora vigente, cadeva il 12 dicembre — viste però non secondo la normale prospettiva “geocentrica”, ma secondo una prospettiva “cosmocentrica”, ossia come le vedrebbe un osservatore posto “al di sopra della volta celeste” (30).

Nazionalismo guadalupano”

Come si è visto, tutti gli studi scientifici compiuti sull’immagine venerata nel santuario ai piedi del Tepeyac confermano la sua origine miracolosa e, quindi, la realtà delle apparizioni. Ma perché la Vergine, apparendo a Juan Bernardino, chiese di essere venerata come “Santa Maria di Guadalupe”, con il nome, familiare solo agli spagnoli, di un santuario della lontana Estremadura?

Molti studiosi, da don Luis Becerra Tanco nel secolo XVII a don Mario Rojas Sánchez ai nostri giorni, hanno cercato di individuare dietro “Guadalupe” un appellativo náhuatl frainteso dagli spagnoli: e le interpretazioni proposte sono spesso suggestive (31). Ma è più verosimile che, come sostengono Primo Feliciano Velázquez (32) e don Lauro López Beltrán (33), il nome udito e riferito agli inviati del vescovo da Juan Bernardino sia proprio “Guadalupe”: questo nome ci è stato tramandato in testi náhuatl da un indio, Antonio Valeriano, da un meticcio, Fernando de Alva Ixtlilxóchitl, e da un buon conoscitore del náhuatl, Lasso de la Vega; il primo aveva probabilmente conosciuto Juan Bernardino e, se avesse saputo da lui l’ipotetico “vero nome náhuatl”, lo avrebbe trascritto correttamente nel Nican mopohua. Forse la Vergine, presentandosi con un nome ben noto ai conquistadores, volle prevenire gli “scrupoli” di frati come Bernardino de Sahagún O.F.M.

Se la fede, per essere efficace, deve permeare di sé la vita e la cultura di un popolo (34), la devozione alla Madonna di Guadalupe ha fatto anche di più: ha letteralmente creato la nazione messicana sulle rovine di un impero tirannico e sanguinario, perennemente in guerra con i suoi vicini al solo scopo di procurarsi vittime per i sacrifici umani (35).

Così quando, nei primi anni del secolo scorso, iniziano i moti per l’indipendenza del Messico, i varî libertadores non mancano mai di proclamare la propria devozione alla Madonna di Guadalupe, non si sa quanto dovuta ad autentica pietà cristiana e quanto a puro “nazionalismo guadalupano” (36).

In ogni caso è significativo lo stendardo guadalupano che il sacerdote Miguel Hidalgo y Costilla, capo della prima rivolta indipendentista messicana, inalbera nel 1810 contro la Spagna napoleonica di Giuseppe Bonaparte (37). Il 12 ottobre 1821 il libertador Agustín de Iturbide affida la nazione messicana — di cui da poco è stata riconosciuta l’indipendenza — alla protezione di Nostra Signora di Guadalupe. L’anno seguente, proclamatosi imperatore, fonda l’Ordine cavalleresco di Guadalupe (38).

Perfino nei turbolenti anni successivi il nome della Madonna di Guadalupe segna momenti significativi della vita civile e politica messicana. Nel 1828 il Congresso proclama festa nazionale il 12 dicembre (39). Nel 1848, a conclusione della sfortunata guerra del Texas, la pace fra Messico e Stati Uniti viene firmata nel santuario di Guadalupe. Nel 1853 il dittatore Antonio López de Santa-Anna ripristina l’Ordine di Guadalupe (40).

Nel 1858 Benito Juárez, divenuto presidente, impone al Messico un calendario “laico”, ma mantiene la festa del 12 dicembre; tre anni dopo il santuario sfugge alla confisca di tutti i beni ecclesiastici (41). Nel 1864 Massimiliano d’Asburgo, divenuto imperatore del Messico, rende omaggio, con la moglie Carlotta, alla Madonna di Guadalupe, e il 10 aprile 1867, alla vigilia della sua deposizione, ripristina l’Ordine di Guadalupe modificandone gli statuti (42).

Con la fucilazione di Massimiliano a Querétaro il 16 giugno 1867 e il ritorno di Benito Juárez alla presidenza, inizia per il Messico un periodo di politica anticlericale che arriverà, nel nostro secolo, alla persecuzione religiosa aperta, specialmente dopo il 1917, quando viene imposta al Messico, da un’assemblea costituente praticamente autonominatasi, una Costituzione socialista ferocemente anticattolica, che il caudillo revolucionario di turno, Venustiano Carranza — impadronitosi del potere dopo aver sconfitto militarmente i suoi antichi compagni di lotta armata, il “guadalupano” Emiliano Zapata e il relativamente filocattolico Pancho Villa — si guarderà bene dal sottoporre alla ratifica del voto popolare.

Così quando, nel 1921, l’immagine della Madonna di Guadalupe sfugge prodigiosamente a un attentato — una bomba, nascosta in un mazzo di fiori deposti ai piedi dell’altare da un certo Luciano Pérez, esplode provocando gravi danni alla basilica, ma lascia intatto addirittura il vetro che protegge l’immagine — il comportamento delle autorità è decisamente scandaloso: non solo l’attentatore, difeso dallo stesso presidente municipale, viene assolto, ma il procuratore generale della nazione, di fronte alle numerose, ma pacifiche, proteste che da tutto il Messico si levano contro l’attentato, e alle folle che accorrono al santuario per organizzarvi cerimonie di riparazione e di ringraziamento, non esita a insinuare che la bomba sia stata fatta esplodere dai cattolici per screditare i socialisti e per sfruttare economicamente i pellegrinaggi (43).

Negli anni seguenti la politica ecclesiastica dei governi messicani si fa sempre più oppressiva, le provocazioni si moltiplicano giorno dopo giorno, finché quando, nel 1926, un decreto del presidente Plutarco Elías Calles impone l’applicazione integrale della Costituzione del 1917 comminando pesanti sanzioni penali ai “trasgressori”, il Messico cattolico insorge in nome di Cristo Re e della Vergine di Guadalupe: è la Cristiada, l’epopea dei cristeros, nella quale bande di campesinos e di peones male armati, ma sostenuti dalla loro fede, tengono testa per tre anni a un esercito modernamente equipaggiato e appoggiato dalla potenza economica e militare degli Stati Uniti, ma privo di motivazioni ideali; rivolta che finirà soltanto quando — alla vigilia di un possibile successo politico degli insorti — la Santa Sede e i vescovi del Messico si lasceranno convincere a sottoscrivere con il governo messicano un abborracciato “accordo”, che concede alla Chiesa niente più che una semplice sopravvivenza fisica (44).

Madre delle Americhe

Ma torniamo alla Madonna di Guadalupe, all’espansione e alla consacrazione ufficiale del suo culto da parte di vescovi e di Papi nel corso dei secoli. Il 7 gennaio 1675 un breve di Papa Clemente X concede indulgenze alla Confraternita di Nostra Signora di Guadalupe (45); e il 9 febbraio 1725 Papa Benedetto XIII eleva il santuario ricostruito nel 1709 al rango di collegiata (46). Nel 1736, alla fine di agosto, la Nuova Spagna, l’attuale Messico, è devastata da un’epidemia di matlazahuatl — così gli indios chiamano la febbre tifoidea — che in diciotto mesi provoca più di due milioni di morti.

L’arcivescovo di Città di Messico ordina la traslazione dell’immagine dal santuario alla cattedrale, e l’epidemia si attenua nella maggior parte del vicereame, pur continuando a mietere vittime nella capitale; solo il 26 maggio 1737, quando avviene la solenne proclamazione della Vergine Maria, sotto il titolo di Guadalupe, patrona principale di Città di Messico, l’epidemia cessa del tutto. Negli anni successivi, fino al 4 dicembre 1746, avvengono analoghe proclamazioni nelle altre diocesi del vicereame, e finalmente Papa Benedetto XIV, con il breve Non est equidem, del 25 maggio 1754, dichiara la Madonna di Guadalupe patrona principale e protettrice della Nuova Spagna e concede l’Ufficio e la Messa propri per la festa del 12 dicembre (47).

Nel clima di acceso anticlericalismo che caratterizza la politica dei governi messicani a partire dalla seconda metà del secolo scorso, la presidenza del generale Porfirio Díaz, dal 1876 al 1911, costituisce un periodo di relativa tolleranza verso la Chiesa, che può così godere di una discreta libertà di azione nei campi che esulano dalla politica intesa in senso stretto, quali il culto, l’istruzione religiosa e la promozione sociale del popolo cattolico (48).

In questo clima di pace religiosa matura l’idea di una solenne proclamazione nel santuario del Tepeyac della Regalità di Maria Santissima: così l’8 febbraio 1887 Papa Leone XIII autorizza l’incoronazione dell’immagine di Guadalupe, che viene eseguita il 12 ottobre 1895, nel corso di una fastosissima cerimonia, dall’arcivescovo di Città di Messico, mons. Próspero María Alarcón y de la Barquera. Nel frattempo, il 2 agosto 1894, vi era stata l’approvazione, da parte del Papa e della Sacra Congregazione dei Riti, di nuovi testi del “proprio” dell’Ufficio e della Messa del 12 dicembre, in cui si riconosce, almeno implicitamente, la storicità dell’apparizione. Infine, il 24 agosto 1910, san Pio X proclama la Madonna di Guadalupe patrona dell’intera America Latina (49).

In tutt’altro clima — quello della persecuzione strisciante e dell’assassinio sistematico degli ex capi dei cristeros da parte di agenti governativi — si svolgono nel 1931 le solenni celebrazioni del IV centenario dell’apparizione: la grande affluenza di pellegrini al santuario servirà solo come pretesto al governo messicano per un nuovo “giro di vite” contro la Chiesa (50). E la successiva incoronazione della Madonna di Guadalupe, decretata da Papa Pio XI nel 1933 in occasione dell’Anno Santo della Redenzione, avverrà soltanto a Roma, sulla copia donata da Miguel Cabrera a Papa Benedetto XIV nel 1752 (51).

Solo nel 1938, grazie alla politica di apertura ai cattolici del presidente Lázaro Cárdenas — che apre la via a un modus vivendi fra Chiesa e Stato, consistente in pratica nell’ignorarsi reciprocamente — sarà possibile indire un vero Anno Santo Guadalupano. E il 24 settembre 1939 il nuovo Pontefice Pio XII inaugura nei giardini vaticani un monumento raffigurante Juan Diego che mostra la tilma al vescovo Juan de Zumárraga O.F.M., monumento che sarà poi fatto spostare da Giovanni XXIII in una posizione più centrale, presso la torre di San Giovanni (52).

Dopo la seconda guerra mondiale si moltiplicano le pubbliche manifestazioni di devozione alla Vergine di Guadalupe e i riconoscimenti della natura miracolosa dell’immagine da parte dei Pontefici. Così, il 13 ottobre 1945, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’incoronazione, Papa Pio XII, nel radiomessaggio Venerables Hermanos afferma che “sulla tilma del povero Juan Diego — come riferisce la tradizione — pennelli che non erano di quaggiù lasciavano dipinta un’immagine dolcissima, che l’opera corrosiva dei secoli avrebbe rispettata” (53).

L’11 dicembre 1955 — quasi a riparazione delle offese arrecate alla Chiesa trent’anni prima dai “sindacalisti” legati a Plutarco Elías Calles — la Madonna di Guadalupe viene incoronata solennemente Regina del Lavoro, alla presenza del card. José Garibi y Rivera e davanti a circa mezzo milione di lavoratori. Il 12 ottobre 1960 Papa Giovanni XXIII indice un nuovo Anno Mariano Guadalupano e proclama la Madonna di Guadalupe Madre delle Americhe; l’anno seguente invia ai messicani un radiomessaggio in cui definisce l’immagine della Vergine “suo ritratto dolcissimo non dipinto da mani umane” (54). Infine, Papa Paolo VI invia, il 25 marzo 1976, una “rosa d’oro” al santuario del Tepeyac (55).

Il 12 ottobre 1976 viene consacrata, a fianco del santuario del 1709, ormai insufficiente a contenere tutti i fedeli che vi affluiscono in occasione delle festività mariane, una nuova basilica, in cui viene solennemente traslata l’immagine miracolosa. In questa basilica, il 27 gennaio 1979, Papa Giovanni Paolo II — pellegrino in Messico in occasione della III Conferenza Generale dell’episcopato latino-americano a Puebla de los Angeles — consacra a Maria, davanti all’immagine della Guadalupana, il popolo di Dio e la Chiesa del Messico e di tutto il continente americano (56).

La causa di beatificazione di Juan Diego

A questo punto alla gloria della Vergine di Guadalupe manca una cosa sola: l’elevazione all’onore degli altari dell’umile indio che in un lontano inverno di cinque secoli fa la vide ai piedi del Tepeyac. Se per gli indios, che l’apparizione aveva indotti ad abbandonare le ultime diffidenze verso la religione dei conquistadores, la santità di Juan Diego era semplicemente ovvia, la Chiesa messicana è sembrata per molto tempo interessata più al riconoscimento dell’autenticità dell’apparizione e della natura miracolosa dell’immagine che a quello della santità del veggente.

Le possibili interpretazioni di questo atteggiamento sono molteplici e, fra esse, certamente l’opportunità pastorale di promuovere la causa di canonizzazione di un indio convertitosi in età matura, che era stato per la maggior parte della sua vita adoratore di mostruosi idoli assetati di sangue umano: fatto sta che nessuna causa di canonizzazione viene promossa negli anni successivi alla morte di Juan Diego, e solo nel secolo XX si comincerà a raccogliere la documentazione necessaria.

Nel dicembre del 1944 arriva dal Nicaragua la notizia di un miracolo attribuito all’intercessione di Juan Diego: a El Ocotal, nel dipartimento di Nueva Segovia, una bambina di sette anni e mezzo, María Antonia Cruz, figlia di un contadino abitante nel Caserio de Sábanagrande, che presenta tutti i sintomi del morbo di Down, il cosiddetto “mongolismo” — è muta, “tonta”, incapace di comunicare anche a gesti, ha la lingua larga e sempre fuori della bocca costantemente aperta, si sbava continuamente sul vestito — diventa normale, incominciando a parlare e a esprimersi con proprietà, dopo che i suoi genitori hanno rivolto le loro preghiere al servo di Dio Juan Diego (57).

A causa della mancanza di un’adeguata documentazione medica — i genitori di María Antonia, Adán Cruz e María Félix de Cruz, sono poveri contadini che non hanno mai potuto far visitare la figlia da uno specialista, e d’altronde nel 1944 la causa genetica del “mongolismo”, la trisomia del cromosoma 21, è ancora ignota — il miracolo non può essere riconosciuto ufficialmente dalle autorità ecclesiastiche, ma le testimonianze giurate sulla guarigione della bambina si aggiungono a quelle di grazie “minori” ricevute per intercessione di Juan Diego in altre parti dell’America Latina e alle ricerche degli storici sull’eroicità delle virtù del veggente del Tepeyac e sulla continuità attraverso i secoli della sua fama di santità presso il popolo messicano.

Si arriva così, il 13 gennaio 1980, all’istruzione, da parte del card. Ernesto Corripio Ahumada, della causa diocesana, i cui atti vengono trasmessi a Roma alla Sacra Congregazione per le Cause dei Santi il 26 giugno 1981 (58). Finalmente Papa Giovanni Paolo II, durante la Messa celebrata nel santuario di Nostra Signora di Guadalupe il 6 maggio 1990 all’inizio del suo secondo pellegrinaggio apostolico in Messico, riconosce il culto ab immemorabili del “Beato Juan Diego, il cui nome indigeno, secondo la tradizione, era Cuauhtlatóhuac, “Aquila che parla””, l’ “indio prediletto da Maria”, “il confidente della dolce Signora del Tepeyac”, “che rappresenta tutti gli indigeni che accolsero il Vangelo di Gesù, grazie all’aiuto materno di Maria, sempre inseparabile dalla manifestazione di suo Figlio e dalla fondazione della Chiesa, come fu la sua presenza fra gli Apostoli il giorno di Pentecoste” (59).

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(1) Cfr. Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e “defensor fidei”, in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992.

(2) Cfr., come documenti altamente significativi in proposito, Giovanni Paolo II, Lettera apostolica ai Religiosi e alle Religiose dell’America Latina in occasione del V Centenario dell’Evangelizzazione del Nuovo Mondo Los caminos del Evangelio, del 29-5-1990; e Idem, Discorso ai partecipanti al Seminario Internazionale organizzato dalla Pontificia Commissione per l’America Latina sul tema Storia dell’evangelizzazione dell’America. Traiettoria, identità e speranza di un Continente, del 14-5-1992, in L’Osservatore Romano, 15-5-1992.

(3) Sulla leyenda negra, cfr. Gianni Vannoni, Sulla “conquista” dell’America del sud, in Cristianità, anno III, n. 10, marzo-aprile 1975.

(4) Sulla religione e la cultura del Messico precolombiano, cfr., per esempio, Laurette Séjourné, Quetzalcóatl, il serpente piumato, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1959. La grafia dei nomi propri indigeni e degli altri vocaboli aztechi citati nel presente articolo è quella elaborata nel secolo XVI dai missionari spagnoli per trascrivere il náhuatl — la lingua degli aztechi — in caratteri latini. Quindi la pronuncia è quasi identica a quella del castigliano, con le sole eccezioni del gruppo “ll”, che si legge come in italiano, e della lettera “x”, che si legge come la “c” nella pronuncia dialettale toscana di “voce”.

(5) Il significato del nome azteco di Juan Diego è “Colui che parla come un’aquila”. Poiché l’aquila è il simbolo dell’evangelista san Giovanni, il nome Juan con cui Cuauhtlatóhuac fu battezzato mostra come i missionari spagnoli tendessero a “inculturare” il cristianesimo dando anche — quando era possibile — agli indios convertiti nomi cristiani di significato simbolico analogo a quello dei loro originari nomi “pagani”.

(6) Le più antiche relazioni sulle apparizioni della Madonna di Guadalupe e sull’impressione prodigiosa della sua immagine sulla tilma di Juan Diego sono due documenti in lingua náhuatl della prima metà del secolo XVI: l’Inin huey tlamahuizoltzin, “Questa è la gran meraviglia”, attribuito al sacerdote spagnolo Juan González, interprete del primo vescovo di Città di Messico, padre Juan de Zumárraga O.F.M., scritto fra il 1541 e il 1545, quando erano ancora vivi Juan Diego e lo stesso vescovo; e il Nican mopohua, “Qui si racconta”, attribuito al nobile azteco Antonio Valeriano, allievo del collegio francescano di Santa Cruz di Tlatelolco, scritto fra il 1545 e il 1555. I titoli dei due documenti sono costituiti, secondo l’uso indigeno, dalle parole con cui iniziano. Per il Nican mopohua, che contiene la narrazione più estesa e più ricca di particolari, cfr. la traduzione castigliana, con frequenti riferimenti in nota all’originale náhuatl, in Primo Feliciano Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, 2a ed., Editorial Jus, Città di Messico 1981, pp. 146-161; cfr. una traduzione italiana di entrambi i testi, condotta sulla più recente versione castigliana di don Mario Rojas Sánchez, in Claudio Perfetti, Guadalupe. La tilma della Morenita (Messico 1931), 2a ed., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 37-39 e 45-67. Quest’opera, una delle poche in lingua italiana sulla Madonna di Guadalupe, è utile perché riporta le traduzioni dei principali documenti — náhuatl e spagnoli — sull’argomento, ma è viziato, dal punto di vista teologico, da influenze della “teologia della liberazione” e di quell’”indigenismo” che induce molti missionari, specie in Amazzonia, a trasformare la necessaria “inculturazione” dell’evangelizzazione in una rinuncia di fatto all’evangelizzazione stessa (cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Tribalismo indígena, ideal comuno-misionário para o Brasil no século XXI, Vera Cruz, San Paolo 1977). Migliore, da questo punto di vista, l’articolo di Rosario Camargo, La Madonna di Guadalupe, in Studi Cattolici, anno XXVI, n. 254-255, aprile-maggio 1982, pp. 262-267.

(7) Diminutivi náhuatl di “Juan” e “Juan Diego”. Presso gli aztechi il diminutivo, formato con il suffisso “tzin”, era principalmente un segno di rispetto: cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., p. 148, nota 1.

(8) A. Valeriano, Nican mopohua, vv. 183-184, in C. Perfetti, op. cit., p. 64.

(9) Quattordici fra miracoli e grazie avvenuti per intercessione della Madonna di Guadalupe fra il 1531 e la fine del secolo XVI sono narrati nel Nican moctepana, “Qui si riferiscono”, scritto agli inizi del secolo XVII dal nobile messicano Fernando de Alva Ixtlilxóchitl, discendente dei re di Texcoco e dei signori di Teotihuacán: cfr. la versione castigliana in P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 164-177, e quella italiana in C. Perfetti, op. cit., pp. 71-81.

(10) Di uno dei canti náhuatl, noto con il titolo spagnolo di Pregón del atabál, attribuito a Francisco Plácido, signore di Azcapotzalco, ci è stato conservato il testo: cfr. una sua traduzione in C. Perfetti, op. cit., pp. 208-209.

(11) Cfr. F. de Alva Ixtlilxóchitl, Nican moctepana, in C. Perfetti, op. cit., pp. 71-72. Una raffigurazione pittorica del miracolo, con un riquadro raffigurante la processione, si trova in una grande tela di metri 2,75 x 6,10, copia della seconda metà del secolo XVII di un più antico dipinto, oggi perduto, risalente al 1533, ossia ad appena due anni dopo il miracolo. Il dipinto, ritrovato nel 1960 dietro un muro in una costruzione attigua al santuario, è riprodotto in AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, Ediciones Buena Nueva, Città di Messico 1981, pp. 28-29.

(12) F. de Alva Ixtlilxóchitl, op. cit., in C. Perfetti, op. cit., p. 81.

(13) Fray Bernardino de Sahagún O.F.M., Historia general de las cosas de la Nueva España, l. XI, cap. XII, App., in C. Perfetti, op. cit., p. 85; cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 352-353. Ho corretto la traduzione italiana sulla base del testo originale, riportato e annotato da Primo Feliciano Velázquez, per quanto riguarda il termine Dios y nantzin, che è composto dal castigliano Diós, “nome proprio” del Dio cristiano per gli indios, e dal náhuatl y nantzin, o inantzin, “sua venerabile madre”.

(14) Cfr. C. Perfetti, op. cit., p. 25; e AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 273.

(15) Cfr. AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., pp. 123 e 275; e C. Perfetti, op. cit., p. 167, nota e fotografia nella 16a delle pagine — non numerate — delle illustrazioni.

(16) Cfr. ibid., pp. 87-103; e P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 184-221.

(17) Cfr. AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 274.

(18) Cfr. Ap. 12, 1.

(19) Anche qui abbiamo il parallelo con la Donna dell’Apocalisse (12, 2).

(20) Cfr. C. Perfetti, op. cit., pp. 104-107; e P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 227-235.

(21) Cfr. la traduzione quasi integrale in C. Perfetti, op. cit., pp. 113-133.

(22) Cfr. ibid., pp. 134-138.

(23) Cfr. ibid., pp. 140-141.

(24) Cfr. Philip Serna Callahan e Jody Brant Smith, La tilma de Juan Diego, ¿técnica o milagro? Estudio análitico al infrarrojo de la Imagen de Nuestra Señora de Guadalupe, trad. spagnola e note di don Faustino Cervantes Ibarrola, 2a ed., Alhambra Mexicana, Città di Messico 1982; e C. Perfetti, op. cit., pp. 148-167.

(25) Cit. in C. Perfetti, op. cit., p. 162. Secondo Philip Serna Callahan potrebbe trattarsi di stucco a base di calce: ma in questo caso l’acido nitrico, che nel 1791 cadde proprio sulla “nube” a sinistra della Vergine, avrebbe dovuto decomporre e asportare il rivestimento, cosa che non sembra essere avvenuta…

(26) Cfr. C. Perfetti, op. cit., p. 162.

(27) Cfr. la traduzione italiana di In tilmatzintli in C. Perfetti, op. cit., pp. 68-70.

(28) Cit. in C. Perfetti, op. cit., p. 168; cfr. anche la fotografia dell’autografo di José Carlos Salinas Chávez nella 17a pagina delle illustrazioni.

(29) Cfr. C. Perfetti, op. cit., pp. 168-179, e le fotografie degli ingrandimenti ottenuti da José Aste Tonsmann nella 19a pagina delle illustrazioni; R. Camargo, art. cit., p. 267; e Ilario Valdalma, Santuari. Gli occhi della Madonna di Guadalupe, in Studi Cattolici, anno XXVI, n. 262, dicembre 1982, pp. 840-841. Quanto alla seconda “scena” presente negli occhi della Vergine, quella del “gruppo familiare indigeno”, essa potrebbe significare che Maria stava contemporaneamente “guardando” — in quel senso di amorosa attenzione che ha nella liturgia e nelle preghiere il verbo latino respicere — il popolo indio a cui veniva, con le sue apparizioni sul Tepeyac, a portare il suo Divin Figlio.

(30) Cfr. C. Perfetti op. cit., pp. 180-182.

(31) Cfr. le interpretazioni di don Luis Becerra Tanco e di don Mario Rojas Sánchez in C. Perfetti, op. cit., pp. 42-44.

(32) Cfr. P. F. Velázquez, Comentario a la historia original guadalupana, in don Lauro López Beltrán, La protohistoria guadalupana, 2a ed. riveduta e con un’appendice, Editorial Tradición, Città di Messico 1981, pp. 167-168.

(33) Cfr. don L. López Beltrán, La historicidad de Juan Diego y su posible canonización, 2a ed. accresciuta, Editorial Tradición, Città di Messico 1981, pp. 212-213.

(34) Cfr. Giovanni Paolo II, Per iscrivere la verità cristiana sull’uomo nella realtà della nazione italiana. Loreto, 11 aprile 1985, Cristianità, Piacenza 1985.

(35) Cfr. L. Séjourné, op. cit., pp. 41-60.

(36) Cfr. C. Perfetti, op. cit., pp. 28-29; e Alfonso Junco, El milagro de las rosas, 3a ed., Editorial Jus, Città di Messico 1969, pp. 14-16.

(37) Riprodotto in AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 68.

(38) Cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 294-295.

(39) Cfr. C. Perfetti, op. cit., p. 28.

(40) Cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 296-298.

(41) Cfr. A. Junco, op. cit., p. 16.

(42) Cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 298-299.

(43) Cfr. C. Perfetti, op. cit., pp. 29-30.

(44) Sulla rivolta dei cristeros, autentica “Vandea messicana” del secolo XX, cfr. Jean Meyer, La christiade. L’Église, l’État et le Peuple dans la Révolution Mexicaine (1926-1929), Payot, Parigi 1975.

(45) Cfr. AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 275.

(46) Cfr. ibid., p. 61.

(47) Cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 274-293; AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., pp. 62-66; e C. Perfetti, op. cit., p. 27.

(48) Cfr. J. Meyer, op. cit., pp. 18-19.

(49) Cfr. P. F. Velázquez, La aparición de Santa María de Guadalupe, cit., pp. 299-312; AA. VV., Album conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., pp. 71-74; e C. Perfetti, op. cit., p. 29.

(50) Cfr. J. Meyer, op. cit., pp. 209-211.

(51) Cfr. C. Perfetti, op. cit., p. 30; e AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 76.

(52) Cfr. C. Perfetti, op. cit., p. 30; e AA.VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 78, con la fotografia del monumento ibid., p. 77.

(53) Pio XII, Radiomessaggio al Messico nel 50° della Incoronazione della Vergine SS.ma di Guadalupe, del 13-10-1945, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VII, p. 222.

(54) Giovanni XXIII, Radiomessaggio al Secondo Congresso Mariano Interamericano, del 12-10-1961, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. III, p. 460.

(55) Cfr. C. Perfetti, op. cit., pp. 30-31; e AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., pp. 78-79.

(56) Cfr. AA. VV., Album Conmemorativo del 450 aniversario de las apariciones de Nuestra Señora de Guadalupe, cit., p. 79; e Giovanni Paolo II, Omelia nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe, del 27-1-1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. II, 1, pp. 159-166.

(57) Cfr. don L. López Beltrán, La historicidad de Juan Diego y su posible canonización, cit., pp. 79-84.

(58) Cfr. la documentazione completa ibid., pp. 133-202.

(59) Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa nel Santuario di Santa Maria di Guadalupe, del 6-5-1990, in L’Osservatore Romano, 7/8-5-1990.