Attraverso il linguaggio si possono manipolare le coscienze. Basta nascondere o cambiare il significato delle parole, per modificare la percezione della realtà. È un pericolo concreto del nostro tempo. Che ha creato addirittura un’anti-lingua. Qualche esempio…
di Laura Boccenti
La manipolazione del linguaggio genera un’anti-lingua, che ha come effetti principali l’oscuramento dell’intelligenza e il condizionamento dei comportamenti, indispensabili per ottenere l’allontanamento dell’opinione pubblica dal senso comune.
Mentre la violenza genera la consapevolezza dell’oppressione e il desiderio di rivalsa, la manipolazione cerca di provocare nelle sue vittime un mutamento nel modo di vedere le cose e la decisione di agire secondo una certa prospettiva presentata come ragionevole e desiderabile. Perciò, mentre l’influenza legittima di chi educa alla verità si appella alla ragione incoraggiandola a confrontarsi con la realtà tutta intera per sviluppare le capacità critiche, la manipolazione si serve della disinformazione e strumentalizza la riflessione facendo leva su messaggi dalla forte carica emozionale che oscurano le capacità critiche.
Già Platone (427 a.C.- 347 a.C.) metteva in guardia dai sofisti che, grazie alla padronanza della retorica, erano capaci di cambiare il nero col bianco e di trasformare qualcosa di cattivo in qualcosa di buono. Riferendosi a loro, un grande filosofo greco si domandava: «È possibile abusare dei giovani, ancora lontani dalla realtà delle cose, con parole che ingannano l’orecchio, mostrando ogni tipo d’immagine tra le righe, in modo da far credere a loro che quello che ascoltano sia la verità e chi parla sia l’uomo più saggio del mondo?» (Platone, Sofista, 234c) .
La manipolazione delle coscienze è possibile perché la parola ha in sé un grande potere: assegnare alle cose il loro nome significa infatti svelarne il senso producendo un effetto. La parola può suscitare indignazione o far commuovere, intimidire o rassicurare.
Purtroppo si possono fare moltissimi esempi del modo in cui l’anti-lingua esercita il controllo del pensiero per trasformare il senso comune. Gli ambienti abortisti, e in generale anti-vita, si autodefiniscono pro choice («per la scelta») sottintendendo che, mentre loro sono per la libera scelta, chi difende il diritto di vivere dei bambini è contro la libertà; analogamente, con «diritti riproduttivi» o «diritti delle donne» s’intende in primo luogo la possibilità di abortire legalmente con le spese mediche pagate dallo Stato.
Si parla di «preferenza sessuale» per affermare che la scelta del partner non dipende dalla complementarietà sessuale, ma solo dalla volontà del soggetto; il termine «omofobia-omofobo», che ha in sé una carica di profonda disapprovazione, legata all’idea di discriminazione, ormai viene usato per indicare tutti quelli che pensano che l’eterosessualità è secondo natura, l’omosessualità no. Anche la parola «famiglia» è sotto attacco: introducendo l’aggettivo «tradizionale», si ottiene di poter distinguere tra la famiglia, sostenuta dalla retorica politica conservatrice, e le famiglie fondate sulla libera relazione fra partner (non più sugli sposi).
Solo grazie a operazioni di manipolazione verbale è possibile, come è successo in Olanda, che qualcuno rivendichi il diritto alla pedofilia chiamandola amore intergenerazionale o alla bestialità, rinominandola amore tra specie nel tentativo di conferire la queste aberrazioni una forma di rispettabilità etica.
Non posso non ricordare alcune parole incredibili, tra le molte che tutti abbiamo ascoltato, relative alla vicenda di Eluana Englaro: «Eluana non c’è più, è morta 17 anni fa, ora si tratta solo di portare a compimento quella dolorosa vicenda». Come si può assumere l’idea che una persona ancora viva sia già morta, se non perché si percepisce come valore irrinunciabile l’autonomia del corpo? Si tratta di un giudizio che contrappone, in modo occulto, al principio dell’indisponibilità della vita l’idea della cosiddetta qualità della vita.
È evidente che non si tratta di significati cambiati a caso, ma di operazioni d’ingegneria verbale che vogliono imporre una cultura che nega la natura per affermare il potere assoluto dell’uomo su se stesso. È Dio stesso a comandare all’uomo di dare un nome a tutte le cose (Gn [2,19-23) e il linguaggio, nella sua dimensione originaria, si rivela come strumento di lode; se l’atto di designare attua la riproduzione di una forma esterna, con il giudizio si esprime l’assenso, cioè l’apprezzamento per una forma non costruita dall’uomo, e apprezzare è lodare. Perciò l’origine del linguaggio è collocata in una dimensione sacra e il suo senso profondo è di essere lode.
La verità del giudizio, tuttavia, è legata al verificarsi di due condizioni: la prima è costituita dall’adeguazione alla realtà, cioè ci deve essere una corrispondenza effettiva tra il pensiero e l’oggetto conosciuto. Se, ad esempio, dico che i cani hanno due gambe, il mio pensiero è sbagliato perché non ha corrispondenza con la realtà. La seconda condizione è che la mia ragione possieda i motivi per cui esprime un determinato giudizio.
Se, ad esempio, ora dicessi: «la partita di domani tra il Milan e l’Inter sarà vinta dal Milan», e il giorno successivo la mia previsione si avverasse, essa non diventerebbe per questo vera, perché, nel momento in cui l’ho pronunciata, non avevo le ragioni di dire ciò che ho detto.
L’errore può insinuarsi nel momento del giudizio e si verifica quando la ragione si persuade a rappresentare una realtà diversa da quella veramente esistente o esprime un giudizio senza avere le ragioni di ciò che afferma. Attraverso questi varchi s’insinua la possibilità d’influenzare in modo occulto la coscienza attraverso il linguaggio.
Perché oggi le voci insensate sembrano avere la forza d’influenzare profondamente la nostra società, mentre la comunicazione autentica fatica a trovare ascolto? Una prima risposta, sul piano naturale, va trovata nella perdita del rapporto diretto con le realtà su cui viene espresso il giudizio; l’abbondanza di messaggi trasmessi nel villaggio elettronico globale si accompagna alla povertà e all’astrattezza dei significati. È come essere davanti a una tavola imbandita con una grande varietà di cibi di plastica che non danno nutrimento.
Solo l’esperienza del valore di verità della parola può contrastare il condizionamento e la menzogna spacciata per verità. Si tratta di un’esperienza che richiede la presenza di una guida vivente che educhi al riconoscimento del vero. Come ricorda Francesco Botturi: «Istruire è educare in-segnando, cioè facendo segno all’intelligenza, attivandola nella sua capacità di verità e di ricerca di senso. Per l’essere personale intelligente, infatti, non può esservi felicità e cammino»: ad essa senza esaudimento del suo desiderio di verità».
Ricorda
«II linguaggio ideologico […] non dice delle cose perché queste sono vere, ma le dice per ottenere un certo effetto e con ciò rivela la sua natura meramente strumentale». (Emanuele Samek Lodovici, cfr. bibliografia, p. 112).
Bibliografia
Francesco Botturi, Desiderio e verità, Massimo, 1985.
Warwick Neville, Manipolazione dellinguaggio, in Lexicon, Pontificio Consiglio della Famiglia (a cura di), pp. 631- 640.
lgnacio Barreiro, Ingegneria verbale, cf., pp. 583-592.
Emanuele Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, 1979, (1991),pp. 105-121.