I rapporti tra Stato & Chiesa
Nei Paesi europei i rapporti tra Stato e Chiesa, dalla rottura illuministica della Rivoluzione francese a tutta la prima metà del Novecento, hanno conosciuto tensioni e contrasti, diversamente da quanto avvenuto negli Stati Uniti d’America, dove, fin dalle origini della nazione, le relazioni tra potere politico e confessioni religiose sono improntate a pienezza di libertà e a generosa collaborazione, in un regime di separatezza armoniosa che suscita ammirazione in ogni osservatore della realtà americana, da Alexis de Tocqueville a Emilio Gentile.
In queste pagine Carlo Cardia, ordinario di Diritto ecclesiastico e Istituzioni religiose nell’Università di Roma Tre, percorre la storia dei conflitti tra Stato e Chiesa nella modernità, sopiti certo ma non risolti con la prassi dei Concordati, successivamente mostrando come all’indomani della dissoluzione dei regimi fascisti e comunisti Stato liberaldemocratico e Chiesa cattolica abbiano stretto feconde intese per l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, recepiti nelle Costituzioni nazionali e nelle Carte internazionali.
Ma agli inizi del terzo millennio tematiche nuove si pongono in Europa: sono le questioni connesse alla bioetica e al relativismo antropologico, che fanno riemergere la memoria storica dell’antico conflitto. A questa regressione ideologica sono dedicate le riflessioni conclusive di Carlo Cardia che, a filo di logica, confuta le incoerenti argomentazioni dei dottrinari neoilluministici.
di Carlo Cardia
Le ragioni sono sostanzialmente due, la prima di carattere storico e sociale, l’altra molto attuale. Lo Stato laico nasce nell’Europa cattolica del XVIII-XIX secolo nell’ambito di un conflitto aspro che vede contrapposto un illuminismo antireligioso a una Chiesa cattolica che sembra rimanere legata all’ancien regime, non sa distinguere tra gli eccessi della rivoluzione illuminista e i valori di cui il liberalismo è portatore.
La conflagrazione anticattolica che si realizza nella seconda parte della rivoluzione francese, con le terribili conseguenze del terrore, provoca la nascita dell’antinomia amico/nemico, con tutte le conseguenze che ciò comporta a livello giuridico, sociale e culturale.
La Chiesa e la religione sono indicate come realtà anti-moderne, contrarie alla laicità dello Stato e ai nuovi diritti della persona, ogni nefandezza nei loro confronti è lecita come se fosse perpetrata nei confronti del passato, dell’assolutismo, del conservatorismo sociale. In Francia si compiono atti e scelleratezze di cui nessuno parla più, ma che pur sono stati osannati, spesso giustificati quasi con rimpianto verso una sorta di belle époque del separatismo europeo.
Alla Chiesa viene tolto tutto ciò che possiede, sono aboliti (non ridimensionati, semplicemente cancellati) gli ordini religiosi, il clero viene sottoposto a una disciplina giurisdizionalista mai esistita in precedenza: preti e vescovi devono giurare sulla costituzione rivoluzionaria, altrimenti sono cacciati dalle loro sedi, molti sono giustiziati o linciati, e devono ricevere la propria legittimazione da elezioni popolari (constitution civile du clergé) nelle quali sono elettori i cittadini (anche non cattolici) della parrocchia e della diocesi.
Per il resto ogni legame tra Chiesa e società è reciso con violenza più o meno esplicita, materiale o giuridica. Cancellata ogni presenza religiosa nella scuola, si nega l’assistenza religiosa nelle strutture obbliganti, si nega ogni valore civile al matrimonio religioso, la cura dei bisognosi è avocata allo Stato, le strutture ecclesiastiche si riducono a povera e misera cosa, fin quasi a sopravvivere a stento.
1 Le responsabilità dello Stato & quelle della Chiesa
Per quanto sembri incredibile, così nasce in Europa lo Stato laico, che laico non era per nulla, ma semplicemente antireligioso, con un background culturale volterriano ed enciclopedista che vede nella religione il retaggio di un passato secolare, oscurantista che deve semplicemente essere rimosso e cancellato. Dopo la temperie rivoluzionaria il separatismo europeo prende una strada meno scellerata e più moderata, ma sempre fondata su un principio: la Chiesa deve perdere i privilegi del passato, essere posta ai margini della società, ridotta ad affare privato, guardata con diffidenza perché comunque realtà antimoderna.
In Francia non si abbandonerà mai del tutto l’originario spirito anticattolico, che rivivrà un sussulto d’orgoglio nel 1905 con la Lai de séparation, tuttora almeno formalmente in vigore, che farà rivivere a Roma l’incubo della reformatio Ecclesiae di matrice statalista, quando viene riesumata la volontà di definire per legge le strutture, e la gerarchia, della Chiesa.
Solo l’intervento del Consiglio di Stato di pochi anni dopo rimuove dalla legge del 1905 i profili più smaccatamente anticattolici e la Chiesa può tornare a vedersi garantita almeno la propria organizzazione gerarchica. Per il resto, il cattolicesimo è posto ai margini della vita nazionale, i capisaldi del separatismo ottocentesco restano solidi, e a tutt’oggi la laicità francese è avvertita come l’erede più autentica dell’esperienza separatista ottocentesca.
Il conflitto amico/nemico nella sfera dei rapporti tra Stato e Chiesa si ripropone in Spagna dove si contrappongono due fazioni l’una contro l’altra armate, quella francesizzante e quella veterocattolica che non riescono a trovare punti di convergenza, o di compromessi accettabili. E tutto l’Ottocento, ma anche parte del Novecento, si sviluppa con un pauroso e grottesco alternarsi di separatismo radicale e di rivincita clericale (addirittura con l’Inquisizione che viene abolita, poi ripristinata, poi ancora abolita), con un solco di contrapposizioni che rivive perfino nel terzo millennio con la cosiddetta svolta zapaterista. Ma di questo si parlerà più avanti, perché stiamo già nell’attualità più vicina a noi.
C’è anche un separatismo moderato, privo di ogni livore francesizzante, che è quello italiano, il quale però matura e si realizza insieme a due eventi di portata epocale: la realizzazione dell’unificazione nazionale, la fine del potere temporale che implica il ricongiungimento di Roma a capitale del nuovo Stato. Il nostro separatismo costituisce un vero miracolo storico-giuridico, frutto (se così può dirsi) del più autentico ingegno italiano, perché realizza le più grandi riforme laiche senza indulgere a eccessi di alcun genere, tranne qualche inevitabile asprezza.
L’Italia realizza in pochi anni le grandi riforme liberali, con l’abolizione del foro ecclesiastico, l’introduzione del matrimonio civile, la nascita di una scuola pubblica tendenzialmente aperta a tutte le classi sociali, l’incameramento dei beni ecclesiastici con cui si realizzano le prime strutture dello Stato moderno: scuole, ospedali, uffici pubblici, sedi per le forze dell’ordine e per l’esercito, e via di seguito.
Però, queste riforme evitano ogni eccesso anticattolico, sono seguite da segnali di rispetto per la Chiesa e la tradizione cattolica: l’autonomia gerarchica e strutturale ecclesiastica viene rispettata integralmente, nelle scuole elementari si mantiene l’insegnamento facoltativo della religione (che seguono praticamente tutti), ai religiosi anziani che tornano a casa dopo l’abolizione dei rispettivi Ordini si riconosce una pensione sociale che attenua la durezza dei provvedimenti eversivi, e si chiude un occhio quando alcuni Ordini si ricostituiscono silenziosamente in immobili concessi da privati e sui quali l’autorità pubblica evita di intervenire.
Addirittura la fine del potere temporale dei Papi, pur traumatica e drammatica, si compie con un monumento di sapienza giuridica, la Legge delle guarentigie del 1871, che riconosce al Papa una sovranità personale (e non territoriale), ma ne fa oggetto di guarentigie così importanti che i palazzi vaticani diventano di fatto, se non di diritto, una sorta di area extraterritoriale, quasi prefigurando quella che sarà la soluzione della Questione romana che si avrà definitiva con il Trattato del Laterano del 1929.
E’ giusto riconoscere che non tutti gli eccessi anticattolici sono da ascrivere alla responsabilità dello Stato, perché il conflitto si inasprisce anche per responsabilità della Chiesa, la quale è frastornata dalla modernità, stenta a lungo a capirne il significato, coglierne le realizzazioni sociali, non percepisce le differenze che esistono tra la politica antireligiosa francese e quella dell’Italia moderata, non sa distinguere tra i principi giusnaturalistici cristiani e leggi vessatorie ben poco laiche perché mirano ad altri scopi.
Per questa incomprensione di fondo, la Chiesa reagisce in un primo tempo con un rifiuto pressoché globale della modernità, l’intransigenza cattolica si compatta per condannare non solo fatti e misfatti delle rivoluzioni, i torti subiti con leggi antireligiose e punitive, ma si estende fino a «condannare il liberalismo in blocco, senza le necessarie distinzioni» (Martina).
Dal breve Quod aliquantum (1791), con cui Pio VI condanna la Constitution civile du clergé, all’enciclica Mirari vos (1832) di Gregorio XVI, fino al Sillabo di Pio IX del 1864, non c’è proposizione del liberalismo e di ogni altra ideologia moderna che non venga censurata. E questo pesa perché alimenta l’anticlericalismo, al quale non sembra vero di poter coltivare l’equazione tra Chiesa e ancien regime.
Occorre far bene attenzione, perché nel magistero pontifico c’è qualcosa di profetico, quasi l’intuizione che elevando il freddo razionalismo a principio assoluto, esaltando lo Stato come entità superiore e degradando la religione a freno della civiltà, si rischia di aprire le porte all’arbitrio più assoluto. E ciò avverrà di lì a non molto con il totalitarismo, che affonda le sue radici proprio nelle culture ottocentesche.
Ma nella Chiesa di fine Ottocento prevale il pessimismo e non c’è capacità di distinzione di fronte a un mondo che sembra capovolgersi. Dall’intrecciarsi dell’estremismo laicista e l’arroccamento clericale deriva quel conflitto lungo e sordo che divide Stato e Chiesa, cultura cattolica e cultura laica sin quasi a fine Novecento. Un conflitto che provoca danni da ogni parte. Il cattolicesimo si chiude in sé stesso, in Italia ai cattolici è impedita la partecipazione alla vita politica così rafforzando le componenti anticlericali del liberalismo, le quali d’altra parte rovesciano le carte nei confronti dei princìpi liberali classici in materia di scuole private.
Dovunque nel mondo anglosassone la scuola privata è libera, sovvenzionata dallo Stato, considerata una ricchezza sociale anziché un pericolo per la democrazia, mentre nei Paesi cattolici essa viene limitata, vista come il cavallo di Troia di una rivincita confessionale che si vuole evitare a ogni costo.
Infine, l’eredità del conflitto ottocentesco porta a una sedimentazione di rancori, di spirito di rivalsa, nelle opposte fazioni con la produzione di una letteratura partigiana più o meno valida che influenza l’ideologia, la politica, il senso comune, e si tramanda di generazione in generazione cristallizzando l’immagine di una Chiesa antimoderna, e di un liberalismo anticattolico, anche quando queste immagini non corrispondono più alla realtà. E la nascita di una memoria del conflitto, che non si perderà mai del tutto.
2. L’esperienza degli Stati Uniti d’America
Esiste un’altra storia della laicità, che si realizza parallelamente a quella europea, al di là dell’Atlantico negli Stati Uniti d’America, e che ha presupposti e contenuti diversi, così come diversi saranno i suoi effetti. La democrazia americana nasce con la Dichiarazione di indipendenza del 2 luglio 1776, che traduce nel modo più nobile i princìpi del giusnaturalismo e fa sognare uomini e popoli d’ogni parte del mondo: «È verità di per sé evidente che tutti gli uomini sono stati creati uguali e che il Creatore li ha dotati di alcuni diritti inviolabili fra i quali la vita, la libertà, il perseguimento della felicità».
Gli Stati Uniti realizzano la prima forma di democrazia nella quale la religione si colloca in un orizzonte pluralista di libertà e di competizione ideale. Lo Stato è amico della religione, le lascia spazi sociali e pubblici, anche perché non conosce i veleni della vecchia Europa né ha memoria dei conflitti passati. Alexis de Tocqueville osserva che la civiltà angloamericana «è il prodotto di due elementi perfettamente distinti, che altrove si sono spesso combattuti, ma che in America si sono incorporati l’uno nell’altro e combinati meravigliosamente. Voglio dire lo spirito di religione e lo spirito di libertà».
Aggiunge che «è un errore considerare la religione cattolica come un nemico naturale della democrazia. Mi sembra invece che, fra le varie confessioni cristiane, il cattolicesimo sia una delle più favorevoli all’eguaglianza delle condizioni».
Per queste ragioni, visto da vicino, il separatismo americano appare per quello che è, un separatismo di armonia tra Stato e Chiese, che affonda le radici in una realtà sociale del tutto diversa rispetto a quella europea, e poggia su dati oggettivi di cui spesso non si tiene conto. Negli Stati Uniti già esiste un pluralismo religioso articolato, mentre manca del tutto una Chiesa dominante, che chieda privilegi.
Tutte le Chiese chiedono e ottengono la più ampia libertà religiosa e uno status giuridico favorevole per le proprie attività. In Europa occorre spezzare il potere economico e patrimoniale accumulato nei secoli dalla Chiesa cattolica, negli Stati Uniti lo Stato dice alle Chiese come ai privati: «andate e arricchitevi».
Non esiste, in America, l’antitesi tra pubblico e privato. Lo Stato ha bisogno che le Chiese, e altri soggetti privati, diano vita a scuole, strutture di educazione e di assistenza, e delega a esse le diverse funzioni. Anche per questo, viene praticata una fiscalità di assoluto favore verso coloro che si impegnano in campo religioso, scolastico, assistenziale.
Ancora, a differenza dell’Europa cattolica nella quale la Chiesa si contrappone spesso politicamente allo Stato, in America le Chiese sono tra le protagoniste dell’indipendenza degli Usa, ne condividono le battaglie, le aspirazioni, i risultati. Infine, la cultura americana è cultura spesso ispirata religiosamente, parla attraverso le più diverse confessioni religiose, non vi trova traccia di clericalismo né di anticlericalismo.
Culturalmente ed emotivamente, gli Stati Uniti sentono di essere un Paese nuovo, privilegiato da Dio per la democrazia che fondano e praticano, e per la missione che intendono compiere nel mondo.
Per queste ragioni, la laicità americana rende autonomo lo Stato dalle Chiese, ma assicura alle confessioni religiose tutto ciò di cui hanno bisogno, a volte tutto ciò che vogliono. Gli Usa realizzano uno Stato separato dalle Chiese, non dalla religione. Per lungo tempo, in alcuni casi ancora oggi, ai fini dell’ammissione alle cariche si presta giuramento sulla Bibbia, le sessioni del Parlamento si aprono con solenni preghiere di uno dei cappellani delle diverse confessioni e giorni di preghiera pubblica e ringraziamento a Dio sono indetti dall’autorità governativa.
L’appartenenza dei cittadini alle Chiese è solo in parte questione privata, perché si riflette nei principali istituti della vita civile. Il matrimonio religioso è riconosciuto civilmente, i ministri di culto fruiscono di consistenti diritti e privilegi. L’istruzione è permeata di confessionismo (pluralistico), e ancora di recente la pratica del free time nella scuola riceve un’applicazione minima e massima a seconda degli Stati dell’Unione: in alcuni casi consiste nella riduzione dell’orario scolastico per consentire agli alunni di recarsi presso le rispettive Chiese; in altri la scuola forma classi omogenee nelle quali è impartito l’insegnamento confessionale secondo le rispettive appartenenze.
La Casa Bianca americana è forse l’istituzione che più rappresenta, e riassume, la tradizione religiosa, dalla campagna elettorale all’insediamento del Presidente, dall’ostentazione della sua appartenenza confessionale alla continua invocazione di Dio nei discorsi pubblici e nei momenti più solenni della vita nazionale. Si tratta di un fenomeno che non può ascriversi a un presidente piuttosto che a un altro o alla prevalenza del partito democratico rispetto a quello repubblicano o viceversa, quanto a una tradizione che affonda le radici nella profondità della storia americana.
Un recente testo di Emilio Gentile ripercorre l’intima unione, istituzionale e politica, della Presidenza con l’anima e la tradizione religiosa degli Usa, tendenzialmente cristiana-protestante, ma sempre aperta alla dimensione religiosa pluralistica. Sottolinea Gentile che «la religione non (è) stata mai assente nelle competizioni presidenziali, come mostrano esempi notevoli». Addirittura la fede in Dio, e nel suo sostegno, è sin dagli inizi alla base del ruolo storico mondiale proprio degli Usa, secondo un concetto che non è mai venuto meno nei momenti di pace e in quelli di guerra.
Per il teologo Michael Novak la presidenza Usa è «il più importante simbolo religioso della nazione», ed è George Washington che aggiunge il 30 aprile 1789, giorno di inaugurazione della sua presidenza, alla formula del giuramento la frase conclusiva «So help me God», ripetuta poi dai suoi successori e divenuta l’emblema della speciale protezione che Dio garantisce agli Usa.
Questi, secondo i discorsi presidenziali di inaugurazione, riconoscono «l’Essere onnipotente che governa l’Universo, presiede sul concilio delle nazioni», «il Grande Autore di ogni bene pubblico e privato, il Genitore benigno della Razza umana», che ha elargito «cospicui» doni agli Stati Uniti, «una nazione indipendente che sembra essere distinta da alcuni segni di natura provvidenziale». Per questa ragione, il popolo americano ha maggiori doveri di qualsiasi altra nazione, primo fra tutti quello di proseguire «l’esperimento affidato(gli) di preservare il sacro fuoco della libertà e il destino del modello repubblicano di governo».
Per garantirsi la protezione divina la nazione deve rimanere fedele a Dio rispettando le «eterne regole dell’ordine», e coltivare le virtù private e pubbliche, senza le quali la libertà e la conservazione della Repubblica sono messe a rischio. Così Washington nel suo discorso inaugurale, mentre Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione di indipendenza, elabora i princìpi della teologia politica e spirituale della nazione americana, «che la natura e il vasto oceano separano dal caos sterminatore di un quarto del globo, [e che è] troppo elevata di principi e sentimenti per poter tollerare l’altrui degradazione»; i suoi cittadini sono «illuminati da una religione benigna, professata e praticata in varie forme, che tuttavia inculcano onestà, verità, temperanza, gratitudine, e l’amore dell’uomo, riconoscendo e adorando una suprema Provvidenza, che con tutti i suoi doni mostra di godere della felicità dell’uomo in questa vita e nell’altra».
Osserva Gentile che «nei duecento anni successivi, i presidenti, nei discorsi inaugurali, come in tutti i loro proclami e discorsi celebranti la storia degli ideali americani, hanno modulato variamente il canone della teologia elaborato dai primi presidenti, conservandone i motivi fondamentali, accentuandone alcuni rispetto ad altri», «ma è stato soprattutto nella seconda metà del Ventesimo secolo che il Presidente degli Stati Uniti ha assunto un ruolo più rilevante, in seguito all’accrescimento dei suoi poteri di governo, derivanti dall’accrescimento della potenza americana nel mondo», e ha accentuato anche il collegamento della presidenza con Dio e la sua protezione.
Alcuni attribuiscono questa accentuazione a George Bush, e non c’è dubbio che nella sua presidenza i toni si sono fatti più drammatici in concomitanza con le iniziative di guerra intraprese per combattere il terrorismo, come si può vedere dal discorso del 14 settembre 2001, quando viene celebrata con rito solenne la giornata nazionale della preghiera nella cattedrale di San Pietro e Paolo a Washington, nota come la National Cathedral.
Nella circostanza, Bush spiega agli americani come interpretare la presenza di Dio nella tragedia che aveva colpito gli Stati Uniti nell’11 settembre, e ricorda che i segni di Dio «non sempre sono quelli che noi cerchiamo. Nella tragedia impariamo che i Suoi propositi non sono sempre i nostri», perché «Dio ha creato questo mondo secondo un disegno morale. Dolore e tragedia e odio hanno una parte nel tempo. La bontà, la memoria e l’amore non hanno fine».
E conclude invocando la benedizione di Dio sull’America perché «né morte né vita, né angeli né principi né potenti, né le cose presenti né quelle a venire, nessuna altezza e nessuna profondità, possono separarci dall’amore di Dio». Ma la percezione che Bush abbia ripreso soltanto una antica tradizione è del tutto errata, perché rutti i presidenti, democratici o repubblicani, hanno proseguito nell’esibizione del sentimento religioso (proprio e) della nazione fino a trasformare la Casa Bianca a volte in un ambiente fortemente segnato dalla presenza e dai simboli religiosi.
Un ruolo importane è svolto dalla religione nelle elezioni americane del secondo Novecento. Nello scontro tra Richard Nixon e John F. Kennedy quando i protestanti si schierano a favore del candidato repubblicano per evitare, senza riuscirvi, l’elezione del primo presidente americano cattolico; nelle elezioni del 1976 che vedono contrapposti Jimmy Carter, religiosissimo, e Gerald Ford, quando si dibattè su problemi religiosi e sulle relazione fra Stato e Chiesa molto più di quanto non fosse avvenuto dal tempo della elezione di Kennedy, anche perché i due competitori «erano la più devota coppia di nominati da entrambi i partiti dall’epoca dell’elezione di McKinley nel 1986» (Rituffo); e poi ancora nelle elezioni successive, con dichiarazioni impegnative e del tutto coerenti con le origini e le tradizioni religiose americane.
Bill Clinton dichiara in una intervista televisiva: «La mia fede mi insegna che siamo tutti peccatori. Il fatto che abbia una profonda fede in Dio e un senso di missione nel cercare di fare la cosa giusta ogni giorno, dovrebbe rassicurare il popolo americano». Con questo spirito i presidenti del secondo Novecento cambiano anche costumi e ritmi alla Casa Bianca introducendo simbolismo, presenze, cerimonie religiose che per noi europei sarebbero poco comprensibili e francamente imbarazzanti.
Dwight D. Eisenhower si fa battezzare nella chiesa presbiteriana, nel 1953 introduce alla Casa Bianca la cerimonia della Colazione presidenziale di preghiera (National Prayer Breakfast) che assume poi carattere consuetudinario, inizia le riunioni del gabinetto con una preghiera, adotta ufficialmente la formula «In God we trust» come motto nazionale, e inserisce nel 1956 la frase «under God» nella dichiarazione di fedeltà alla bandiera (Pledge of Allegiancé).
Successivamente, se il presidente confessionalmente meno esposto è John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson partecipa assiduamente alle colazioni di preghiera, e Richard Nixon attua la cerimonia inaugurale della sua presidenza il 20 gennaio 1969 con un servizio religioso svolto da cinque officiami E spetta al presidente democratico Jimmy Carter, e poi al repubblicano Reagan, meritarsi il richiamo di Hutchenson per il quale nel corso dei loro mandati «la religione influenza la presidenza in forme prima sconosciute nella storia americana».
La presidenza Carter è piena di ammonimenti religiosi, inviti a pentirsi dei propri errori e peccati, mentre Reagan, che non era uomo di chiesa, piuttosto che «recarsi lui in Chiesa ha portato la chiesa nella sua presidenza. Una volta insediatosi nello Studio Ovale, le sue manifestazioni e testimonianze di fede furono onnipresenti», mentre Clinton, ricorda Gentile, «si recava regolarmente in chiesa la domenica, a piedi, portando con sé una vistosa Bibbia, e, secondo alcuni calcoli, avrebbe battuto diverse volte il suo successore alla Casa Bianca per numero di citazione del nome di Gesù» (Gentile).
Il richiamo a questa dimensione religiosa (quasi ostentata) della Casa Bianca spiega meglio di altri riferimenti il ruolo che la religione svolge nella società americana, al di là dei rapporti istituzionali tra Stato e Chiese. Questi, naturalmente, si evolvono sia attraverso gli interventi della Corte Suprema, che nella seconda metà del Novecento laicizza alcuni degli aspetti più confessionali dell’ordinamento, sia per un contenzioso che resta aperto tra società civile e società religiosa su tematiche eticamente sensibili (su cui tornerò tra breve).
Ma l’evoluzione si svolge, con alti e bassi, all’interno di una memoria condivisa che non conosce strappi, lacerazioni, conflitti impossibili a risolversi, e la memoria condivisa è il frutto di una storia nella quale la religione, nelle diverse articolazioni confessionali, ha trovato una collocazione riconosciuta e rispettata da tutti.
Per chi voglia cogliere nella loro sostanza le differenze tra il separatismo europeo illuminista e quello americano, resta insuperata l’immagine di Francesco Ruffini, il quale ricorda che vi può essere un separatismo «fatto tutto di confidenza, e uno fatto di diffidenza, di rispetto oppure di sospetto. Lo Stato può lasciare il maggiore spazio alla Chiesa, ponendo a contrassegno visibile della separazione non un muro, ma una morbida siepetta di giardino tutta fiorita di campanule. Sopra le quali i buoni vicini si scambieranno complimenti, strette di mano e di doni.
Oppure lo Stato può serrare la Chiesa il più da presso che può, e può alzare sul confine uno di quei bellicosi muri di cinta, irti la cresta di ferree punte e di vetri spezzati. Sopra i quali gli astiosi confinanti non faranno poi che lanciarsi contumelie, brutture e sassi. La prima cosa fecero gli Stati Uniti; la Francia fece durante la rivoluzione, e si appresta ora a rifare, la seconda».
3. L’eredità del conflitto in Europa & in Italia
Se gli Stati Uniti hanno ancora oggi una memoria condivisa di raccordo tra società e religione, l’Europa conosce altri laceranti conflitti nel Novecento, quando il comunismo prima e il fascismo subito dopo determinano ulteriori fratture destinate a perpetuarsi per decenni. Il comunismo opera il primo tentativo di scristianizzatone radicale della società, con un separatismo ateistico che non conosce precedenti e, a seconda dei periodi e dei Paesi dove trionfa, reintroduce eccezionali forme di persecuzioni e di emarginazione delle Chiese. D’altra parte il fascismo inaugura una alleanza con la Chiesa cattolica dalla quale, in Italia, Austria, Spagna, Portogallo, scaturiscono i Concordati della prima metà del Novecento, che operano una parziale riconfessionalizzazione delle istituzioni e della società.
Questi Concordati rinnovano, se così può dirsi, la cesura con la cultura laica, e sembrano confermare le tesi più pessimistiche per le quali il cattolicesimo è irrimediabilmente legato al passato, non può essere alleato e sostenitore della democrazia. Si deposita nella memoria storica di questi Paesi un altro tassello di diffidenza che si aggiunge a quelli dei vecchi conflitti ottocenteschi, per il quale il Concordato evoca l’alleanza con il fascismo: anche quando sarà riformato, rimarrà nella coscienza di molti il sapore di un’alleanza con il potere, di un compromesso che limita la laicità dello Stato.
E’ anche vero, però, che quando si compiono e si conoscono appieno gli orrori e le distruzioni del totalitarismo, si determina negli uomini del XX secolo una vera e propria catarsi, che provoca un ribaltamento di prospettiva storica. L’Ottocento sembra all’improvviso lontano, i suoi conflitti impallidiscono, se ne colgono i limiti e le angustie, cambiano nel profondo i termini del rapporto Stato-Chiese.
Lo Stato e la cultura laica intravedono gli errori della modernità, comprendono l’inconsistenza di una fiducia illimitata nella ragione, privata della dimensione etica e spirituale. La rivolta contro il totalitarismo è in primo luogo etica, perché lo Stato deve ripensarsi come strumento e non come fine, e l’uomo è ripensato nella sua ricchezza antropologica, con esigenze materiali, morali, spirituali. Alla rivolta etica segue il cambiamento giuridico, con la elaborazione delle Carte internazionali dei diritti che spettano a tutti gli uomini, in qualunque regime o latitudine si trovino a vivere.
Anche la laicità dello Stato viene liberata di quelle asprezze di cui l’illuminismo l’aveva riempita. Si determina la rivincita del giusnaturalismo sull’illuminismo e lo Stato laico si trasforma in Stato laico sociale, che abbandona ogni estremismo laicista e instaura un nuovo rapporto con la religione e con le Chiese.
La libertà religiosa viene riconosciuta a tutti, Chiese e istituzioni ecclesiastiche si vedono garantita una autonomia alla quale aspiravano da tempo, le strutture sociali si aprono a una presenza religiosa variegata e intensa. Quasi ovunque in Europa lo Stato contratta con le Chiese, offre alla religione spazi nella scuola, nelle strutture sociali, e tutto quanto i diritti umani riconoscono all’individuo e ai gruppi organizzati. Il cambiamento poi coinvolge anche le Chiese, compresa quella cattolica, che supera residue nostalgie temporaliste, e con il Concilio Vaticano II pone i diritti umani, in primo luogo la libertà religiosa e la laicità dello Stato, a fondamento di un magistero aperto alla modernità e allo Stato pluralista. La distanza tra le sponde dell’Atlantico si riduce, l’Europa comincia ad assomigliare agli Stati Uniti.
Siamo di fronte a un cambiamento epocale, che trova il suo compimento nella caduta del comunismo in Europa, alla quale seguono nuove costituzioni democratiche in tutti i Paesi ex comunisti, mentre nuove legislazioni ecclesiastiche sostituiscono le precedenti. In pochi anni avvengono trasformazioni prima impensabili; la libertà religiosa si afferma ovunque, in molti Paesi dell’Europa centrale e orientale si stipulano Concordati con la Chiesa cattolica, dove non c’è concordato si introduce una legislazione favorevole all’Ortodossia, aperta comunque alle esigenze delle Chiese e dei credenti.
Senza che nessuno se ne accorga, in quasi tutta Europa le Chiese si vedono garantita la propria autonomia e capacità di autogoverno, la scuola si apre alla religione e un po’ dovunque viene introdotto l’insegnamento religioso, in molti ordinamenti la scuola privata si vede riconosciuto un ruolo etico e sociale. In una parola, nei contenuti della legislazione ecclesiastica, l’Europa si avvicina all’America, cadono antiche barriere e diffidenze. Addirittura in Francia, erede del vecchio separatismo antireligioso, è attiva oggi una rete scolastica privata, riconosciuta e finanziata dallo Stato, che accoglie circa il 16 per cento della popolazione giovanile e che è al 90 per cento a gestione cattolica.
Si potrebbe dire che con la caduta del totalitarismo la modernità si è riconciliata con la religione, che lo Stato ha assunto un volto pluralista rispettoso dei diritti di tutti, che la memoria storica dell’Europa è purificata dai conflitti del passato. Sennonché, proprio quando il pluralismo confessionale si dispiega in tutto l’Occidente, risolvendo il contenzioso tradizionale tra Stato e Chiesa, interviene una nuova cesura tra società civile e società religiosa, impensabile soltanto qualche decennio addietro, una cesura etico-antropologica relativa a temi per sé diversi dalle relazioni ecclesiastiche classiche, che non investono cioè i Concordati, gli enti ecclesiastici, l’insegnamento religioso nella scuola, eccetera. Il nuovo conflitto riguarda la concezione della famiglia, della sessualità, il rapporto tra scienza e tutela della vita, la procreazione e le fasi iniziali e terminali dell’esistenza; riguarda insomma la concezione dell’uomo in relazione alla scienza, la tecnica, le scelte fondamentali dell’esistenza umana.
Va maturando una concezione antropologica che chiama in causa equilibri profondi maturati sin dall’antichità cristiana, determina quasi una frattura coscienziale che interroga la persona nelle profondità dei suoi convincimenti. Le divergenze che si affermano riguardano l’istituto della famiglia e le relazioni sessuali e le nuove possibilità tecniche di intervenire sul processo procreativo e sul confine tra la vita e la morte.
Sul primo aspetto, alcuni ordinamenti promuovono una parificazione sostanziale della convivenza con il rapporto coniugale, e della convivenza di persone dello stesso sesso con il matrimonio e la famiglia naturale, fino a prevedere per le coppie omosessuali la possibilità di adottare bambini, i quali vivrebbero senza la presenza di una coppia genitoriale di sesso diverso.
Si registra poi un’escalation in materia bioetica, che modifica il rapporto dell’uomo con i processi procreativi e con la tradizionale tutela «di principio» della vita nella sua fase terminale. Si reclama da più parti una sorta di «diritto all’aborto», considerato non più come eccezione rispetto alla regola (tutela della vita), ma come oggetto di una libertà insindacabile. Si ammette la procreazione fuori del suo alveo naturale, anche fuori del rapporto biologico umano, si consente la procreazione tra soggetti diversi rispetto alla coppia, si tengono sospesi embrioni che non trovano accoglienza per il loro sviluppo. Si profila la possibilità, già sperimentata in Inghilterra, di un ibrido umano-animale senza conoscerne le conseguenze.
Sul versante opposto, della fine della vita, le novità non sono meno drastiche. Sullo sfondo lievita il principio per il quale la vita merita di essere tutelata solo se ha caratteristiche gratificanti per l’individuo e i suoi familiari. Le sofferenze di malati terminali, o connesse a handicap o malattie croniche, vengono viste come passività, negatività da rifiutare, se possibile espungere radicalmente. In alcuni Paesi, come Olanda, Belgio, alcuni Stati degli Usa, è legittimata l’eutanasia di neonati malformati, o malati terminali consenzienti, si è legalizzato il suicidio assistito, cioè praticato con l’assistenza di strutture e personale medico.
Le nuove rivendicazioni vanno sotto il nome di «relativismo etico», e questa denominazione non è rifiutata dai suoi sostenitori. I quali affermano che non esistono princìpi assoluti che valgano in ogni tempo e luogo, neanche su questioni che chiamano in causa il destino dell’uomo nella nascita come nella morte, nella cura delle nuove generazioni.
4. Memoria del conflitto & questione antropologica
Si verifica, così, un fenomeno che non è stato ancora studiato in profondità e che si stenta a decifrare nel suo più intimo significato culturale. Le relazioni tra Stato e Chiesa godono di ottima salute, eppure riaffiora e si consolida la memoria del conflitto che assume forme nuove e si nutre dei fantasmi del passato, anche quando questi sono scomparsi.
Poiché la cultura relativista trova nelle Chiese, in particolare quella cattolica, dei fermi contraddittori, riprende quota una polemica anticristiana, e anticattolica, che si riteneva ormai esaurita, e che non esita a fare ricorso agli stereotipi del passato, fino a sfiorare gli eccessi del veteroilluminismo. La memoria storica si scopre nuovamente lacerata, la polemica antireligiosa sembra andare indietro nel tempo, non rifuggendo da qualsiasi mezzo e strumento.
La prima vittima di questa memoria lacerata è la verità dei fatti, con la ripresa di imputazioni e accuse tipiche dei tre secoli precedenti. La Chiesa è per definizione un soggetto privilegiato, anche quando l’ordinamento giuridico dice il contrario. Il Concordato è uno strumento di limitazione della laicità dello Stato anche quando esistono ormai soltanto Concordati stipulati con le principali democrazie d’Europa (se ne contano oltre 20), mentre esistono altre Intese (a decine) in Italia e in altre parti d’Europa con altre confessioni cristiane e non cristiane. Il Vaticano è uno Stato teocratico che non garantisce i diritti umani, anche se esso non è uno Stato-nazione perché manca di una popolazione stabile, mentre i suoi cittadini (temporari) godono di numerosi privilegi di varia natura.
La Chiesa fruirebbe di privilegi a livello fiscale, anche se le stesse esenzioni sono riconosciute (in Italia e in Europa) a tutte le confessioni religiose, come entità sociali che svolgono funzioni di supplenza nei confronti dello Stato. L’8 per mille (il sistema italiano di finanziamento) sarebbe un privilegio esclusivo della Chiesa cattolica, mentre esso esiste in altri Paesi europei, e in tutti i Paesi del mondo esistono forme dirette e indirette di finanziamento delle Chiese assai più consistenti del nostro 8 per mille. In Italia, poi, tutto viene amplificato dalla presenza del Pontefice e della Santa Sede, per la quale sembra ad alcuni che il nostro Paese subisca quasi una sorta di tutela clericale che non ha riscontro in altri luoghi.
Ciò che caratterizza questa memoria del conflitto è che contro di essa è quasi impossibile combattere. In alcuni ambienti culturali essa diventa senso comune, e si nutre di reminiscenze storiche ancora più lontane e inafferenti all’epoca moderna. Riemerge la polemica contro l’Inquisizione, ma si dimentica che la persecuzione degli eretici è stata fatta da tutte le Chiese cristiane, le une contro le altre armate per lungo tempo.
Addirittura, le crociate vengono evocate come se esprimessero una vocazione aggressiva originaria del cristianesimo, ma si tace sull’aggressività dell’islam, che per secoli ha tentato di occupare l’intera Europa con guerre e spedizioni militari memorabili, di cui l’Asia minore e Costantinopoli hanno pagato per intero tutte le conseguenze. Riaffiora periodicamente il rimpianto per ciò che non è accaduto nella storia, per il fatto cioè che l’Italia non ha vissuto l’esperienza della Riforma protestante, senza neanche porsi il problema di ciò che poteva produrre una eventualità del genere in termini di unità nazionale, di asservimento a potenze straniere, di una mancata resistenza agli assalti dell’islam nei confronti dell’Europa e della nostra penisola in particolare. Insomma, ogni argomento polemico è utile in un orizzonte dal quale scompare ogni considerazione storicistica, che invece viene utilizzata per ogni altra formazione storica o religiosa.
Mi sembra sia questo il cuore del problema, per il quale la memoria del conflitto nasconde una realtà diversa, una contrapposizione nuova, e per camuffare questa contrapposizione non si esita a utilizzare le categorie del passato accantonando la sostanza vera delle questioni del presente.
La riprova di questo assunto sta nell’uso strumentale che della laicità viene fatto per coprire le concezioni antropologiche proprie della cultura relativista, basata essenzialmente su due assiomi. In base al primo, si afferma, e si ripete sempre più spesso, che nella modernità il diritto non ha nulla a che vedere con l’etica, e anzi la lontananza dall’etica è la riprova della sua laicità. Per il secondo, si dice che la nuova legislazione ha fondamento nel presupposto che ciascuno di noi è libero di fare quello che vuole, purché non imponga nulla agli altri.
Chi vuole agire diversamente, chi intende cioè affermare attraverso la legislazione determinati valori e princìpi etici è insieme confessionista, autoritario, antimoderno, perché viola la laicità del diritto imponendo ai singoli ciò che può essere contrario alle loro opinioni e alla loro coscienza.
Secondo la concezione relativista della laicità, questa comporta piena indifferenza dello Stato rispetto alla morale, una legge emancipata dall’etica, l’introduzione di un politeismo etico da affiancare al politeismo religioso già realizzato dall’illuminismo. Il punto teorico è preciso, perché il concetto di laicità dovrebbe ampliarsi, e il pluralismo religioso sublimarsi in pluralismo etico: «II presupposto politeistico è inevitabile.
Il politeismo della post-modernità è il riconoscimento della radicale pluralità delle visioni morali e metafisiche» (Scarpelli). Il pluralismo etico altro non è che un semplice corollario del pluralismo religioso «affermatosi in Occidente con la Riforma. Come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni religiose (anche quelle che a nostro giudizio sono “irrazionali”), così dobbiamo riconoscere le varie moralità che si affiancano o sostituiscono la fede religiosa» (Mori).
L’etica, in questo modo, viene assimilata alla religione per poter applicare a essa il principio indifferentista della laicità, e per poter sostenere che così come lo Stato non ha competenza in materia religiosa, altrettanto la legge non può interferire in tutto ciò che riguarda le scelte morali individuali.
Per alcuni è ormai quasi un luogo comune affermare che lo Stato non può farsi portatore di princìpi etici, in ambito interpersonale, nella famiglia, in ciò che concerne l’inizio e la fine della vita. Si pone una sorta di pregiudiziale, per la quale il diritto deve registrare ciò che matura nella società, e non può intervenire per favorire determinati valori rispetto ad altri.
In realtà, l’apparentamento del pluralismo etico con la laicità dello Stato, e la pretesa che il diritto sia del tutto svincolato dall’etica, mancano di qualsiasi fondamento storico, e sono utilizzati come strumenti per non affrontare il merito delle singole questioni. Non hanno alcun fondamento storico, in rapporto ai padri del liberalismo e delle filosofie razionaliste, se non altro perché questi erano di un rigorismo (spesso di matrice protestante) sideralmente lontano dal permissivismo e dalla deriva individualistica contemporanei.
Si pensi ai fondatori del giusnaturalismo inglese, o a Immanuel Kant, o più semplicemente ai padri liberali artefici dell’unità d’Italia, legati fortemente ai valori della famiglia, ai princìpi etici necessari anche per fare dei buoni cittadini, ai doveri di solidarietà che impediscono la disgregazione sociale. Basta confrontare con il pensiero liberale classico l’asserita non-verità dell’etica, sostenuta da un teorico relativista: «Nell’etica non c’è verità. I valori di vero e di falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo; né un’etica può dirsi vera derivabile, come da assiomi, da princìpi autoevidenti» (Scarpelli).
Possiamo verificare l’inconsistenza della tesi che nega ogni rapporto tra etica e diritto tutti i giorni, negli ordinamenti moderni, per questioni cruciali e generali, o meno impegnative. Per gli stessi teorici del relativismo, l’affermazione del politeismo etico si ferma sulla soglia delle tematiche familiari e bioetiche, mentre su altre questioni che angustiano gli uomini di oggi il bisogno di eticità del diritto si ripresenta molto forte, a volte con qualche eccesso.
Ogni volta che si avverte il decadimento morale in alcuni ambiti di rapporti societari, si sente il bisogno di richiamare i codici deontologici, l’esigenza di punire esemplarmente quanti violano princìpi etici elementari. In occasione dei più gravi scandali finanziari non c’è chi non si scagli contro gli egoismi dei finanzieri, l’avidità delle banche, l’assenza di senso etico negli operatori, e non chieda per i trasgressori pene durissime.
Di fronte a uno scandalo nel mondo del calcio, si reagisce fortemente contro gli arbitraggi infedeli, le collusioni tra arbitri e società calcistiche, gli intrecci immorali tra manager, arbitri, giornalisti, altri soggetti.
In Italia si verifica perfino il caso di autorità politiche che chiedono alla Chiesa di ricordare ai fedeli che il pagamento delle tasse è un obbligo di legge, ma ha anche fondamento morale. In altre parole, il bisogno che la legge sostenga la società traducendo in norme valori e princìpi di moralità, si ripresenta continuamente, e spesso il richiamo a princìpi etici rigorosi è operato da quegli stessi che in altri ambiti sostengono la tesi opposta.
Ancora, gli ordinamenti moderni cercano di umanizzare eticamente i comportamenti individuali e le abitudini collettive nei confronti della vita animale, per la quale le leggi incentivano sentimenti di benevolenza e compassione in luogo degli istinti di dominio e sopraffazione, tipici della cultura individualista. Esistono oggi numerose leggi contro i maltrattamenti degli animali che spingono a ingentilirci, civilizzarci, elevarci moralmente, ed è perfino possibile chiamare i vigili del fuoco per far scendere un gatto da un albero, perché è salito troppo in alto e non riesce a scendere da solo.
In base all’altro assioma della cultura relativista, la legge non può interferire con la libertà individuale, e deve permettere al singolo di agire come vuole, in quanto la libertà autorizza, ma non obbliga, rende autonomo chiunque e non costringe nessuno. Si tratta di un argomento utilizzato in abbondanza, abbastanza insinuante perché strumentalizza il principio di libertà fin dove è possibile. Eppure, sì tratta di un argomento di nessuna consistenza, perché se fosse veritiero dovremmo ammettere una lunga serie di comportamenti che gli stessi relativisti si rifiuterebbero di avallare.
Dovremmo poter introdurre la libertà di poligamia (io voglio essere poligamo, ma non impedisco agli altri di essere monogami), la libertà di suicidio (purché non lo si imponga), il potere di vita e di morte dei genitori sui figli disabili, il diritto dei genitori di non mandare a scuola i figli, il diritto di non assicurarsi per la pensione di vecchiaia, e altro ancora. Io potrei stipulare un contratto di schiavitù magari a tempo, in cambio di cospicui compensi da potermi poi godere nel resto della mia vita, reintroducendo così la schiavitù (sia pur «volontaria»), così come era pratica nell’antichità.
Questi esempi (ai quali se ne possono aggiungere tanti altri) ci dicono che il principio della assoluta libertà e autodeterminazione dell’individuo è contrario alla maggior parte dei diritti umani codificati nel secolo XX dalle relative Carte internazionali, e con la sua indiscriminata applicazione si distruggerebbero le basi di una civilizzazione etica, e di uno Stato sociale, che sono state costruite in secoli di fatica e razionalità umana. In realtà, quanto sta accadendo riflette un processo più profondo, di crescente divaricazione tra individualismo e solidarismo, nell’ambito del quale la cortina fumogena della laicità e della polemica antireligiosa (che non c’entra nulla) è utilizzata per contrastare orientamenti che vanno in direzione opposta.
Tanto il cordone ombelicale tra etica e diritto è solido e ineliminabile, che proprio la cultura liberale classica individua in esso il fondamento vero dell’organizzazione di una società. Norberto Bobbio nega risolutamente che il diritto serva soltanto a evitare che uno faccia danno agli altri, e Montesquieu parla dello «spirito delle leggi» per indicare quel progetto di società che sottostava alla costruzione di un ordinamento giuridico.
Ma Bobbio, insieme a Tommaso Perassi, Giuseppe Capograssi e tanti altri, sostiene che il diritto, come recepisce i cambiamenti del costume, così deve anche indirizzare, orientare, le azioni degli uomini e le grandi scelte della loro vita. In realtà, il contrasto che sta maturando non è più tra Stato e Chiesa, né riguarda la laicità dello Stato, che poggia su basi sicure in molti ordinamenti: è invece un conflitto che torna indietro nel tempo, quando alcuni valori cristiani sulla famiglia e sulla tutela della vita consentirono alle società antiche di fare un salto evolutivo storico rispetto alla durezza della preistoria.
Il conflitto antropologico apertosi nelle nostre società è dunque un serio conflitto di valori, e l’unico rapporto che esso ha con la laicità è che questa (insieme con la presunta lontananza tra etica e diritto) viene utilizzata strumentalmente per non parlare nel merito di quali sono le opinioni che si confrontano e si contrastano.
Possiamo fare la riprova con grande semplicità. Se nessuno si sente di sostenere la libertà di poligamia (e di poliandria) sulla base della laicità dello Stato – perché è in gioco il valore dell’eguaglianza della donna e del rispetto della sua dignità -, altrettanto si può esigere che si discuta nel merito dell’eutanasia, o del suicidio assistito, sulla base del valore della vita da difendere, rifiutando ogni preclusione aprioristica che appella alla libertà individuale o alla laicità dello Stato.
Chiunque ci ragioni un po’, scoprirà che dietro ogni rivendicazione di laicità dello Stato, o di indifferenza etica della legge, per far approvare una riforma contestata c’è una motivazione più modesta che consiste nel fatto che non si vuole parlare nel merito della riforma (eutanasia, suicidio, adozione da parte di coppie non eterosessuali, eccetera), ma la si vuole far passare per la cruna dell’ago della laicità, perché si sa che nel merito ci si scontra con la sensibilità profonda delle persone, di qualunque orientamento siano.
5. Multiculturalità & doppia verità relativista
Infine, la memoria del conflitto trova nuovi spazi di applicazione nell’ambito del fenomeno della multiculturalità, che investe da qualche decennio il mondo occidentale, e che si è come incuneato nei rapporti tra Stato e religioni. Da un certo punto di vista la multiculturalità è come un banco di prova per l’applicazione dei princìpi di laicità e di libertà religiosa, nel senso che di fronte alle novità e alle diversità lo Stato è in grado di dimostrare la propria tolleranza religiosa, il rispetto del principio di eguaglianza, la tutela della persona nei confronti di atteggiamenti violenti o intolleranti, princìpi tutti affermati nella Costituzione e nelle Carte internazionali dei diritti umani.
In sostanza la multiculturalità mette alla prova la universalità del principio di laicità, nel senso che verifica se quel nucleo essenziale del diritto di libertà religiosa che spetta all’individuo è per i nostri ordinamenti un qualcosa di stabile, un principio fondante e generale, o soltanto uno strumento utile per raggiungere determinati equilibri nei rapporti tra Stato e Chiese.
In questa verifica, il relativismo utilizza la memoria del conflitto quando accantona i princìpi fondamentali dello Stato moderno, e teorizza la necessità di usare due pesi e due misure sugli stessi problemi a seconda che questi riguardino l’una o l’altra religione, o tradizione culturale. In altri termini, posto di fronte alla realtà multietnica e multiculturale, il relativismo tende quasi istintivamente a giocare due partite su due tavoli diversi in funzione della religione che ha di fronte, la religione cristiana, o cattolica, da una parte, oppure l’islamismo o l’induismo dall’altra, cambiando princìpi e regole secondo la convenienza e l’interesse contingente.
Accade così che nei confronti della religione cattolica viene riesumata e applicata quella laicità nemica della religione tipica dell’Ottocento e che era stata superata dallo Stato laico sociale, mentre per altre religioni e tradizioni si segue la strada dell’accettazione incondizionata, del riconoscimento pieno dell’alterità, fino a tollerare comportamenti che violano i diritti umani fondamentali di persone o categorie di persone.
Oggi è considerato quasi normale che non si possano criticare storicamente, o contestare, alcune religioni, mentre per altre si spalancano le porte al dileggio e all’irrisione, all’offesa gratuita fino al limite dell’oscenità. Pensiamo per un attimo a che cosa accadrebbe se la Chiesa cattolica, o una protestante, reagissero con veemenza, ricorrendo ai tribunali, lanciando scomuniche verso chi irride al cristianesimo, alle sue figure più importanti.
Ci sarebbe una rivolta di intellettuali e politici in difesa della libertà di parola, di critica, e di satira, contro oscurantismi e oscurantisti. Invece, quando esponenti islamici lanciano scomuniche, fatwa di morte, o minacciano ritorsioni violente contro giornalisti o intellettuali, quasi più nessuno protesta, e alcuni di essi sono costretti a entrare in clandestinità per anni onde evitare l’applicazione delle minacce ricevute.
Ancora, non di rado siamo indotti a ritenere che le nostre religioni tradizionali debbano sopportare e patire tutto, mentre vengono accettati e tutelati i caratteri più inquietanti di altre tradizioni religiose. È passata sotto silenzio l’introduzione di fatto di alcuni spezzoni di sharì’a in Gran Bretagna, senza che nessuno avesse a che ridire, o ci si sia interrogati sulle conseguenze che una scelta del genere può avere sullo status giuridico dei cittadini.
La memoria del conflitto alimenta, così, la doppia verità di chi reclama la laicità dello Stato, e poi si affretta a togliere il crocifisso, abolisce il Natale o altri simboli cristiani dalle scuole per timore delle nuove religioni, ma ammette che si celebri o festeggi nelle stesse scuole la ricorrenza del ramadan, o di chi vuole impedire che un vescovo entri in una scuola perché la scuola è laica, mentre invita esponenti di altre religioni perché così richiederebbe la multiculturalità.
Una memoria condivisa dovrebbe indurre al rispetto della presenza sociale della religione non alla sua cancellazione, a tutelare la nostra identità invece di appannarla all’interno di una indistinta multiculturalità. E dovrebbe indurre chi per anni ha dato lezioni sull’eguaglianza tra uomo e donna, o ancora oggi reclama le quote rose da realizzarsi in politica, nel mondo del lavoro, e via di seguito, a non girare il capo dall’altra parte di fronte a pratiche aberranti di alcune frange dell’immigrazione, che spingono a picchiare le donne, a segregarle, non di rado a ucciderle in nome della religione, del presunto onore familiare, del dominio dell’uomo sulla donna.
Si possono fare altri esempi di doppia verità, che si spiegano soltanto con la memoria del conflitto utilizzata strumentalmente. Un esempio classico è relativo alla questione del burqa. Applicando i criteri e i princìpi del più moderato femminismo, si comprende facilmente che il burqa è uno strumento di umiliazione e di emarginazione della donna, che sancisce quasi la sua «non esistenza» come persona.
Sarebbe ovvio affermare la sua contrarietà ai princìpi di eguaglianza tra uomo e donna e di rispetto della dignità della donna, e i primi a sostenerla dovrebbero essere proprio coloro che hanno appoggiato le lotte per l’emancipazione femminile nei decenni scorsi. Invece, accade esattamente il contrario, perché tra quanti accettano o giustificano il burqa sono proprio coloro che in altri momento hanno teorizzato le parole d’ordine del più sfrenato femminismo.
Eppure, se a richiedere il burqa fosse la Chiesa cattolica, avremmo donne e uomini in piazza per protestare contro l’oscurantismo della Chiesa, la violazione dei diritti delle donne, il carattere premoderno e regressivo di una religione che è contraria ai diritti umani. La memoria del conflitto produce così, tra i suoi paradossi, anche quello di proseguire una lotta contro il cristianesimo fino a preferirgli tradizioni storicamente e culturalmente arretrate e regressive.