Intervista al ricercatore Paolo De Coppi il ricercatore italiano che ha scoperto per la prima volta nel liquido amniotico cellule staminali con capacità rigenerative simili a quelle dell’embrione.
di Elisabetta Del Soldato
De Coppi, veneto di Santa Lucia di Piave, un paesino vicino a Conegliano, 35 anni ancora da compiere, una moglie avvocato e due figlie di quattro anni e un anno e mezzo, vive a Londra dove sta svolgendo il doppio ruolo di primario chirurgo e di ricercatore nell’ospedale pediatrico più famoso d’Europa, il Great Ormond Street. Un posto che, data la sua giovane età, non potrebbe avere in Italia ma che gli sta permettendo di accumulare esperienze che poi importerà in Italia, dov’è intenzionato a tornare.
Prima di Londra, nel 2000, De Coppi era approdato alla Harvard University di Boston, e precisamente nel laboratorio di Anthony Atala, il coordinatore dello studio che ha portato alla scoperta, oggi residente alla Wake Forest University di Winston Salem. È a Boston che il ricercatore italiano aveva cominciato a lavorare sulle malformazioni fetali.
Dottor De Coppi, perché la necessità di lasciare l’Italia?
In realtà non mi sento di aver “lasciato” l’Italia. In questi giorni hanno scritto che sono fuggito, ma non è affatto così. A Londra sto svolgendo un’esperienza di tre anni e in questo periodo ho intenzione di tornare spesso a Padova dove un gruppo di miei colleghi – tredici, per la precisione – stanno portando avanti le ricerche che abbiamo cominciato insieme nel campo delle staminali. Devo sottolineare che non mi piace che questa scoperta delle staminali nel fluido aminiotico sia stata così personalizzata. Il mio è stato e continua a essere un lavoro di équipe.
Voglio citare soprattutto Laura Perin, padovana, che attualmente lavora a Los Angeles, e la mia alter ego, Michela Pozzobon, che sta portando avanti il lavoro a Padova. Senza di loro questa scoperta non sarebbe stata possibile. Inoltre ribadisco che la mia non è stata una fuga: il problema è che in Italia non arrivano gli stranieri e che noi spesso siamo costretti ad accettare posti all’estero per portare avanti ricerche che da noi non sarebbero finanziate. Qui al Great Ormond Street, per esempio, siamo di tante nazionalità: il bello è che lavoriamo con persone selezionatissime da tutto il mondo.
Cosa l’ha spinta a scegliere la strada della ricerca sulle cellule staminali?
Una forte determinazione. Mia moglie spesso dice che sono duro come un coccio, e penso che abbia ragione. Vengo dalla campagna, non ci sono professori nella mia famiglia. Alla facoltà di Medicina a Padova fui molto ispirato da un grande medico, il professor Guglielmi. Più tardi mi sono appassionato alle malformazioni del feto mentre in me cresceva l’idea di trovare un’alternativa alla chirurgia fetale, perché può essere pericolosa sia per il bambino sia per la madre.
L’idea di partenza che ho sviluppato con Atala era quella di guardare nel liquido aminiotico per vedere se, oltre alle cellule già differenziate usate abitualmente per la diagnosi prenatale, vi fossero anche cellule staminali isolabili e utilizzabili per crescere tessuti da usare dopo la nascita del bambino malato. Trovate le cellule, le abbiamo studiate scoprendo che si comportavano in maniera simile a quelle embrionali. Da quel momento abbiamo lavorato per dimostrare che si trattava di cellule staminali valide: un lavoro che è durato ben sette anni.
La sua ricerca può ora sostituire quella nelle cellule staminali embrionali?
Le cellule staminali trovate nel liquido amniotico sono diverse da quelle embrionali. Le cellule embrionali sono molto importanti, ma personalmente, per le mie convinzioni etiche e religiose, non ho intenzione di usare embrioni per fare ricerca. Rispetto gli embrioni perché gli embrioni sono vita umana. Ricordo inoltre che per la ricerca si possono usare linee cellulari preesistenti ottenute da cellule ed embrioni morti, ma è un territorio questo molto controverso nel quale non intendo addentrarmi.
La sua ricerca è stata osannata da molti soprattutto perché eviterebbe il sacrifico di embrioni a fini scientifici. Lei ha parlato apertamente di scelta etica. È vero però che anche estraendo il liquido amniotico si mette a rischio la vita di un bambino: le statistiche parlano di un feto su cento…
Sono cosciente di questo rischio e sono felice che finalmente venga sollevata l’obiezione. È vero: estrarre il liquido amniotico può essere rischioso. Ma la ricerca condotta assieme ad Atala dimostra che è possibile trovare cellule staminali anche nella placenta: in questo caso i rischi vengono completamente azzerrati.
Come mai non si è ancora parlato delle staminali della placenta?
Perché finora la ricerca si è concentrata sul liquido amniotico mentre le cellule della placenta devono ancora essere studiate a fondo. Ma già sappiamo che le probabilità di riuscita sono alte.
Come vede il rapporto tra scienza ed etica?
Personalmente credo sia importante che interagiscano. Prendiamo per esempio la matematica: la speculazione teorica non ha limiti, ma se la conoscenza viene usata per costruire una bomba allora deve entrare in campo l’etica e stabilire priorità. Non mi reputo però uno specialista di etica….
Quale rapporto esiste tra la sua fede e il lavoro di ricercatore?
Un rapporto ottimo. Sono credente, cattolico praticante, e non ho mai considerato la mia fede un ostacolo. Tutt’altro: è stata proprio la mia fede a spingermi in questo settore. È stata la mia fede che mi ha chiesto di trovare alternative alla ricerca sulle cellule degli embrioni. La fede per me è una ricchezza, non certo un ostacolo.
Lei spesso viene chiamato a operare d’urgenza. Come riesce a conciliare il suo lavoro di medico con le esigenze della ricerca e, ora, la pressione dei media di tutto il mondo?
È molto difficile. Da una parte sono felice e mi sento estremamente fortunato, dall’altra in questi giorni mi sembra di aver perso il contatto con la realtà. Per fare il lavoro che sto svolgendo al Great Ormond Street sono necessari tanta concentrazione e dedizione. E in questo momento non è possibile perché sono al centro dell’attenzione. Un grande rammarico è che la scoperta delle staminali nel liquido amniotico sia uscita così improvvisamente dopo che ne parlavamo da molto tempo. Purtroppo c’è voluta l’autorità di una rivista americana come Nature Biotechnology per rendere uno studio così importante degno di essere reso di pubblico dominio.