18 novembre 2015
di Massimo Introvigne
Nella miriade di commenti che hanno seguito la tragedia di Parigi, manca spesso una risposta convincente alla domanda: perché lo hanno fatto? «Perché ci odiano» o «perché hanno un’ideologia di morte» risponde al quesito sul piano psicologico ma non su quello politico e strategico. Anche chi odia e ha un’ideologia criminale sceglie i suoi obiettivi in funzione di una strategia.
Per rispondere a questa domanda, è necessaria una brevissima storia delle divisioni all’interno del terrorista ultra-fondamentalista islamico. Nella sua incarnazione moderna, questo nasce nel 1981 con l’attentato al presidente egiziano Sadat. L’attentato è un successo sul piano militare – i terroristi riescono a uccidere un leader protetto da un imponente apparato di sicurezza – ma un fallimento sul piano politico. Non ne segue, come gli attentatori avevano sperato, una rivoluzione islamica in Egitto, ma l’arresto e l’impiccagione dei principali leader fondamentalisti, nella sostanziale indifferenza della popolazione. Dopo il 1981 il fondamentalismo propriamente detto sceglie di puntare al potere attraverso la lenta islamizzazione della società, la richiesta di democrazia e le elezioni. Se ne separa l’ultra-fondamentalismo, guidato in Egitto da Ayman al-Zawahiri, l’attuale leader di al-Qa’ida, che vuole invece continuare sulla via del terrorismo e degli attentati.
Ma anche l’ultra-fondamentalismo ha le sue divisioni. In Palestina Hamas – che è anche un’organizzazione politica, capace di vincere elezioni e governare – continua a organizzare attentati, ma sostiene che l’attenzione dell’intero islam radicale dovrebbe concentrarsi su Israele e sul colpire obiettivi israeliani. Quella contro Israele per Hamas non è una battaglia fra le tante, ma la madre di tutte le battaglie. Per al-Qa’ida, invece, il terrorismo ha successo se sposa una pluralità di cause – dalle rivendicazioni di indipendenza del Kashmir alla lotta dei fondamentalisti algerini contro il governo laico di Algeri – e colpisce in tutto il mondo. Di qui una frattura fra al-Qa’ida e Hamas, che non si è mai ricomposta.
La seconda divisione avviene dopo l’11 settembre 2001 e i successivi attentati di Madrid (2004) e Londra (2005). Anche qui si tratta di successi militari, ma con esiti politici ambigui. Ci sono ormai sufficienti documenti per sapere qual era lo scopo cui secondo bin Laden dovevano servire questi attentati. La sua tesi era che i governi laicisti o «falsamente» musulmani del Medio Oriente stanno in piedi solo perché sostenuti dall’Occidente. Se il burattinaio occidentale taglia i fili, i burattini – cioè i governi del Medio Oriente – cadono rapidamente. Gli attentati dovevano servire a convincere gli occidentali che occuparsi del Medio Oriente non era salutare, spaventando l’opinione pubblica e creando una pressione sui governi che li avrebbe indotti a ritirarsi da ogni intervento nei Paesi arabi.
Bin Laden aveva studiato a Londra, dove frequentava gli stadi di calcio – era tifoso dell’Arsenal – ma rifiutava sdegnosamente di andare al cinema. Se avesse visto qualche western, avrebbe capito che il calcolo poteva funzionare – e funzionò – per qualche Paese europeo, ma non per gli Stati Uniti. Quando si sentono attaccati, gli Stati Uniti reagiscono. Dopo l’11 settembre reagiscono in modo confuso, commettendo molti errori, ma certamente disarticolano le basi di al-Qa’ida in Afghanistan e, con il prosieguo della presidenza Bush, iniziano a occuparsi del Medio Oriente non di meno, ma di più. Di qui critiche in al-Qa’ida alle strategie di bin Laden, e la nascita di un’opposizione interna.
Le opposizioni a bin Laden trovano un punto di coagulo nella figura di Abu Musab al-Zarqawi, leader di al-Qa’ida in Iraq. Non solo Zarqawi considera di scarsa utilità gli attentati in Occidente, ma accusa bin Laden di accordi sottobanco con l’Iran sciita e la Siria di Assad, che è un alauita (cioè appartiene a un’eresia sciita), dal suo punto di vista inaccettabili perché non considera gli sciiti autentici musulmani. Quando si imbatte in sciiti, Zarqawi li uccide senza pietà. Il conflitto fra Zarqawi e al-Qa’ida è così forte che, quando il primo è ucciso dagli americani nel 2006, sono in molti a pensare che le informazioni su dove trovarlo siano arrivate ai servizi statunitensi – tramite quelli pakistani – dallo stesso bin Laden.
Di qui un risentimento mai sopito fra i partigiani di Zarqawi e al-Qa’ida, che esplode nel febbraio 2014 quando l’ISIS – che riunisce sostanzialmente chi in Iraq e Siria si considera erede di Zarqawi – si separa da al-Qa’ida. L’attuale ISIS e al-Qa’ida avevano però condiviso un percorso comune dal 2011, l’anno della morte di bin Laden, al 2014, nel corso del quale era emersa l’idea dell’opportunità di non limitarsi al terrorismo ma puntare a costituire veri e propri Stati, certo non riconosciuti dalla comunità internazionale, che battessero moneta, riscuotessero tasse, avessero le loro scuole, polizie e ospedali. Solo che al-Qa’ida pensava a piccoli «emirati» leggeri, diffusi a macchia di leopardo nell’intero mondo islamico, dal Mali alla Somalia e dallo Yemen ai territori tribali fra Afghanistan e Pakistan, mentre l’ISIS ha deciso di puntare a un unico grande califfato.
Sia al-Qa’ida sia l’ISIS organizzano anche attentati in Occidente. Talora collaborano, come nel caso di Charlie Hebdo, e del resto i successi dell’ISIS stanno mettendo in forte difficoltà al-Qa’ida. Le informazioni secondo cui una riunificazione fra i due movimenti – ma stavolta con l’ISIS in posizione egemone – è oggi una possibilità concreta probabilmente non sono false. Concettualmente, però, gli scopi sono diversi. Al-Qa’ida pensa ancora di potere destabilizzare con gli attentati i governi occidentali, confondendo e turbando la loro politica estera. È ancora riuscita a colpire negli Stati Uniti, attivando «lupi solitari», in genere militari statunitensi di religione islamica, che hanno aperto il fuoco all’improvviso facendo un certo numero di morti, com’è avvenuto nel 2009 nelle sparatorie di Little Rock e Fort Hood.
L’ISIS persegue una strategia diversa. Non è nato con lo scopo primario di destabilizzare l’Occidente, ma di costruire un califfato in Oriente e in Africa. Per questo ha bisogno di volontari, che costituiscono il nerbo del suo esercito. Dopo l’episodio di Charlie Hebdo, non solo gli analisti ma le stesse pubblicazioni dell’ISIS hanno messo in chiaro a che cosa servono quel genere di attentati. Sono spot pubblicitari per il reclutamento di nuovi militanti che partano dall’Occidente e vadano a combattere in Siria e in Iraq. E sono spot che funzionano: secondo alcune valutazioni, i combattenti partiti dalla Francia per arruolarsi nell’ISIS sono più di ottocento.
Se questo era vero per Charlie Hebdo, nei mesi passati dall’attacco al giornale satirico francese nel gennaio 2015 ai nuovi attentati di Parigi di novembre 2015 qualche cosa è cambiato. Lo spot pubblicitario per reclutare giovani estremisti disposti a partire per le terre del califfato rimane il primo motivo degli attentati. Ma se ne aggiungono altri due, anche qui chiaramente illustrati nella letteratura dell’ISIS, che tra l’altro è scritta da persone di buona cultura. Lo stesso califfo al-Baghdadi non è un contadino, ma un accademico con uno, o secondo altrui due, dottorati universitari.
Il secondo obiettivo è creare il caos in alcuni Paesi identificati come «a rischio» per l’incapacità della polizia di controllare periferie e banlieues dove non osa neppure avventurarsi e dove ci sono tanti musulmani. Il caos costringerà la polizia a occuparsi d’altro e a non ostacolare il reclutamento dell’ISIS. E in una società in preda al caos il reclutamento diventerà anche più facile. Lo spiega un opuscolo pubblicato nel mese di luglio 2015 dall’ISIS, «Gang musulmane». Il testo studia il fenomeno delle gang criminali in certi quartieri delle grandi città occidentali. Ben lungi dall’opporsi alle gang, sostiene l’ISIS, gli estremisti musulmani devono salutare il fenomeno con favore, infiltrare quelle esistenti e crearne di proprie, «gang musulmane» appunto, mantenendo e aumentando il tasso di violenza e di caos che regna nelle banlieues.
Il terzo obiettivo riguarda l’Italia. L’opuscolo «Gang musulmane» si conclude con un capitolo dal titolo «L’offensiva verso Roma». L’ISIS ricorda che Roma è il centro simbolico dell’Europa e dell’Occidente e che il califfato sarà preso sul serio anche da chi tra i musulmani oggi lo considera un fenomeno marginale o criminale solo quando sarà riuscito a colpire Roma. L’opuscolo rimanda a un libro pubblicato dall’ISIS nel febbraio 2015, «Bandiere nere su Roma». Le obiezioni di chi considera questa letteratura provocatoria e non autentica non sembrano convincenti. Lo stile è quello delle consuete pubblicazioni dell’ISIS.
«Bandiere nere su Roma» fissa un obiettivo ambizioso, non solo l’attacco terroristico – quella è solo una prima fase – ma la conquista di Roma. Naturalmente perché questo obiettivo, militarmente impossibile, diventi teologicamente realistico occorre rifarsi a detti di Muhammad e a interpretazioni del Corano. Ma c’è anche tanta sociologia e tanta geopolitica: si citano dati sulla diminuzione dei cattolici praticanti in Italia e sul numero di musulmani immigrati, e si spiega come una volta conquistata la Libia e magari anche la Tunisia lanciare missili sull’Italia diventerà concretamente possibile. L’ISIS sa che in Italia non ci sono le banlieues, ma spiega che c’è però un estremismo di sinistra, che può diventare un alleato e ispirare le «terze generazioni» musulmane. Pensa anche che l’Occidente sarà costretto a occuparsi poco dell’ISIS, o perfino a concludere un’alleanza non dichiarata con il radicalismo islamico, perché sarà impegnato in uno scontro con la Russia, che molti governi occidentali considerano il nemico principale.
Come si vede, un’analisi che unisce elementi apocalittici di carattere religioso a considerazioni geopolitiche di una certa raffinatezza. Una prospettiva che non esclude arretramenti o sconfitte in Iraq e Siria, anche se ripete il «teorema bin Laden» secondo cui i governi democratici non possono vincere guerre perché, se i soldati cominciano a morire, chi governa perde le elezioni. È un problema che né al-Qa’ida né l’ISIS evidentemente hanno e che continua a indurre Europa e Stati Uniti a non impegnare in Medio Oriente quelle truppe di terra che sole potrebbero sconfiggere il califfato – i droni e gli aerei non bastano. Ma anche se fosse sconfitto in Iraq e in Siria il califfato ha già un Piano B: si delocalizzerebbe in Africa e aspirerebbe a minacciare l’Europa.
«Bandiere nere su Roma» contiene anche due indicazioni concrete. La prima è che la fase di attacco a Roma dovrà andare dal 2015 al 2020, quando potrebbero essere mature le condizioni per una vera e propria guerra. E la seconda è l’importanza di Bologna come «porta» simbolica verso Roma. L’ISIS non ha dimenticato, anzi ha studiato, la strage di Bologna del 1980 e il suo impatto sull’Italia e attira l’attenzione sulla città emiliana, «le sue strade e le sue ferrovie», come obiettivi. L’ISIS legge poco? Al contrario, legge anche il politologo italiano Gianfranco Pasquino, di cui cita la frase: «Se vuoi creare il caos in Italia lo fai passando da Bologna». Servizi italiani avvisati, mezzi salvati. Ma solo mezzi: l’intelligence e la prevenzione devono fare il resto, senza dimenticare la necessità politica e culturale di mantenere un dialogo con la grande maggioranza di musulmani italiani che non amano affatto l’ISIS e che un atteggiamento anti-islamico generalizzato e ottuso finirebbe per regalare agli estremisti.