(Centro Internazionale di Bioetica Università di Pisa
Presidente Onorario di Scienza & Vita Pisa e Livorno)
L’interpretazione razionale del mondo insegna che la proprietà e perciò la disponibilità individuale non può essere estesa a tutte le cose esistenti ma deve essere limitata a quelle che l’uomo è capace di produrre con il suo ingegno ed esclude pertanto categoricamente la proprietà della vita come fenomeno biologico che anima tutte le specie animali e vegetali ed in particolare di quella umana che ne rappresenta la forma qualitativamente superiore.
Una regola questa che, appartenendo al diritto naturale e, di riflesso a quello civile, vale indipendentemente dal fatto che si aderisca ad una fede religiosa, ossia che l’origine della vita si attribuisca alla volontà di un Dio creatore oppure si rinunci a darne una logica attribuendola ad un evento casuale di auto-organizzazione della materia organica.
Poichè è la vita come tale che è esclusa dalla proprietà umana, in quanto non rientra tra i beni immobili e mobili cosi come sono definite dalla norma giuridica le cose riguardanti il possesso, deve essere ritenuta indisponibile, e quindi intangibile, tanto la vita altrui quanto quella propria di cui si è beneficiari ma non per questo padroni. Ne consegue che non è ammissibile il diritto alla cosiddetta “autodeterminazione, quello per cui si assegna alla singola persona la facoltà di interrompere la propria vita quando è valutata di qualità scadente e pertanto non degna di essere vissuta.
E’ esplicativa al riguardo la norma del Codice Civile per cui “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando comportino una diminuzione permanente della integrità fisica …” (Art. 5), ossia quando compromettano o addirittura annullino la sua vitalità ovvero le sue funzioni naturali. Un principio questo che acquista un preciso valore etico per chi crede in Dio riconoscendogli quindi la proprietà esclusiva della vita come suo creatore e dispensatore e che, sul piano giuridico, vale evidentemente anche per i non credenti.
Sotto questo profilo essenziale, che valorizza la vita in tutte le forme in cui essa si manifesta e in tutto l’arco della sua esistenza, ossia dal concepimento alla morte naturale, l’omicidio, come atto illecito unanimemente riconosciuto tale, è pertanto equiparabile al suicidio.
L’applicazione di tale principio di carattere generale, che può essere smentito soltanto da chi può sostenere, con prove inconfutabili, che l’ uomo è in grado di produrre la vita, anche se nella forma elementare qual è quella di un filo d’erba, comporta la decisa condanna morale, oltre che della massiccia devitalizzazione del mondo animale e vegetale conseguente al cosiddetto progresso civile, in particolare di due modalità di soppressione della vita umana, l’una largamente attuata e l’altra auspicata, che caratterizzano negativamente l’epoca moderna e che equivalgono all’aborto volontario ed alla eutanasia,vale a dire al suo annullamento nei suoi due estremi temporali: quello iniziale e quello finale.
Poichè l’inizio reale della vita umana, come insegna la scienza biologica, coincide con il concepimento,ossia con la fusione dei gameti femminile e maschile, l’ovulo e lo spermatozoo, e la formazione dello zigote, che è la forma originaria dell’embrione, l’aborto volontario, che la Legge 194/78 consente entro i primi tre mesi di vita dello stesso, ossia fino al momento della sua trasformazione in feto, anche se si preferisce chiamarlo infanticidio nel tentativo di attenuarne la gravità, è un omicidio ad ogni effetto, salvo che non si smentisca la verità biologica sostenendo che la vita umana non abbia inizio con il concepimento ma nove mesi più tardi con il parto.
Situazione diversa per le motivazioni che la inducono e tuttavia sovrapponibile all’aborto volontario per il risultato sostanziale, è quella che riguarda l’eutanasia, etimologicamente traducibile in “dolce morte”, che concerne i cosiddetti “malati terminali”, ovvero soggetti non più recuperabili con i mezzi medici disponibili e spesso, ma non necessariamente, in condizioni di sofferenza psico-fisica e per questo indotti a desiderare la morte come antidoto alla loro scadente qualità di vita.
Si tratta di un argomento tornato d’attualità a seguito dell’intervento pubblico del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, in risposta ad una specifica richiesta di un malato terminale, ha sollecitato gli organismi politici ad affrontarlo per fornirgli una soluzione legislativa esauriente.
A questo riguardo, occorre precisare che, escludendo le circostanze in cui siano altri a decidere la soppressione del malato, evento che assume pertanto i connotati di un autentico omicidio, seppure indotto da un comprensibile sentimento di compassione nei suoi confronti, la somministrazione della morte presuppone ordinariamente una precisa scelta dello stesso malato che la esprime, come si può dedurre dalle norme di legge vigenti nei Paesi in cui questo estremo rimedio è consentito mediante il cosiddetto “testamento biologico”, traduzione piuttosto generica dell’originale “living will“, ossia la dichiarazione scritta della volontà di morire pur di non soffrire.
Sorprende allora, ma non più di tanto data la dimostrata impreparazione dei personaggi politici nostrani specialmente in campo giuridico e biologico, l’opinione del Presidente del Senato Franco Marini. relativa al citato appello di Giorgio Napolitano, che afferma di essere contrario ad un confronto politico sulla eutanasia ma favorevole ad un analogo confronto sul “testamento biologico”, separando quindi i due aspetti che sono invece indissolubilmente connessi in quanto appartenenti ad un medesimo contesto. Infatti, se l’auspicato confronto politico dovesse concludersi con il riconoscimento della validità giuridica della volontà formalmente espressa del diretto interessato alla morte, ciò equivarrebbe a legittimare la pratica dell’eutanasia seppure vincolandola alla acquisizione nel “testamento biologico”.
E’ evidente che con la fine della vita, qualunque ne sia la causa determinante, ha fine anche la sofferenza psico-fisica che eventualmente l’accompagna nella sua fase terminale. La morte, che ha di per sè una connotazione negativa, perchè priva la persona del bene della vita, assume, sotto questo particolare profilo, il carattere di un evento positivo perchè cancella definitivamente lo stato di sofferenza.
Ed è questa specifica interpretazione della morte che, trasferita nel contesto della pratica medica, è alla base dell’eutanasia che consiste appunto nell’adottare la morte come cura di una malattia inguaribile; un risultato che può essere conseguito sospendendo le cure necessarie alla sopravvivenza del soggetto, ovvero lasciando che la malattia terminale evolva fino alla sua naturale conclusione (”eutanasia passiva”), oppure somministrando al paziente un farmaco letale (“eutanasia attiva”).
E’ questa una distinzione di ordine metodologico che non modifica sostanzialmente la valutazione etica dell’atto compiuto dal medico del quale conta evidentemente l ‘ intenzionalità del risultato perseguito che equivale comunque ad un omicidio volontario, seppure eseguito per un sentimento di pietà ed al fine di rispettare lo volontà espressa dal malato, tanto che la sua uccisione viene etichettata “suicidio assistito”, definizione che non altera peraltro la sostanza del problema etico.
Sul piano dottrinale, una simile soluzione terapeutica è ammessa e perciò auspicata da chi, nella scala dei valori esistenziali, antepone la libertà individuale alla vita che considera un fenomeno puramente biologico, e quindi di ordine materiale, cosi come da chi conferisce alla vita, ed a quella umana in particolare, un valore non assoluto ma relativo, ossia variabile in rapporto alla sua “qualità” valutata soggettivamente.
In effetti, la volontà di morire rientra in un atteggiamento mentale diffuso nella moderna società del benessere che si può stigmatizzare nella “insofferenza della sofferenza” e che si risolve nel valorizzare eccessivamente la “qualità della vita” e, di conseguenza, nello valorizzare una vita che non sia più della qualità desiderata. In queste particolari circostanze, il medico si trova a dover operare in base a principi contrastanti: se consentire o provocare la morte, del malato cedendo al sentimento di pietà per la sua sofferenza, oppure obbedire inderogabilmente al suo codice deontologico che gli impone il dovere della tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza” (Art.3).
In sostanza, l’alternativa entro la quale il medico deve sapersi muovere, è la scelta tra norma del codice civile o della norma deontologica cui va riconosciuta una specifica valenza etica: Se, in altri termini, comportarsi come un semplice cittadino disposto a rispettare la volontà eventualmente espressa dal malato, oppure come professionista addetto alla protezione della sua vita della sua salute.
E’ utile precisare, al riguardo, che lo stesso codice deontologico si oppone decisamente alla pratica dell’ eutanasia prescrivendo che “il medico anche se su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte” (art. 36), contraddicendo altrimenti il suo dovere professionale.
Un altro aspetto della materia in questione merita un chiarimento per evitare false interpretazioni, ed è quello del rapporto tra eutanasia e “accanimento terapeutico” che, secondo alcune dichiarazioni connesse all’imminente dibattito politico auspicato dal Presidente della Repubblica, appaiono essere scelte di condotta medica alternativa ovvero di segno opposto.
E’ questa una valutazione di merito semplicistica sostanzialmente errata. Occorre infatti precisare che il cosiddetto “accanimento terapeutico” riguarda specificamente la somministrazione al malato terminale con prognosi infausta di mezzi medicamentosi ormai privi di efficacia terapeutica causale, ma non l’adozione di una terapia palliativa o sintomatica, ossia finalizzata essenzialmente ad ottenere soltanto il “sollievo dalla sofferenza” che rientra, come si è detto, tra i doveri obbligatori del medico.
Ne deriva che l’atteggiamento più consono eticamente, che il professionista consapevole del proprio compito dovrebbe seguire di fronte ad un malato terminale, è quello di evitare gli eccessi terapeutici, siano essi finalizzati alla cura della malattia incurabile che alla interruzione intenzionale della vita e, quindi ispirarsi al principio della “proporzionalità delle cure” che consiste nel praticare un trattamento idoneo a conseguire effetti razionalmente coerenti con le variabili esigenze terapeutiche del caso specifico.
L’accostamento innanzi proposto tra l’aborto procurato e l’eutanasia trova una formale esemplificazione nella definizione medica dell’ “aborto terapeutico” che consiste nell’interrompere la gravidanza in presenza di un feto malato che viene quindi soppresso anzichè curato, configurandosi quindi un simile atto come una eutanasia precoce.
Ciò che, in ogni caso, non è eticamente ammissibile, prescindendo dalla variabilità delle situazioni contingenti, è la scelta della morte come medicina risolutiva, il sacrificare intenzionalmente una vita anzichè tutelarne, nei limiti del possibile, l’integrità.
A questo riguardo, non è superfluo ed è anzi necessario considerare che, come insegna l’esperienza, il desiderio di morire del malato terminale è spesso dettato, o quanto meno accentuato, dalla sua sensazione di isolamento affettivo dal contesto nel quale è precedentemente vissuto, in particolare da quello familiare; circostanza che richiede un sostegno umanitario più che “clinico”, per cui il medico addetto alla sua cura dovrebbe saper recuperare, nell’ esercizio delle sue funzioni professionali, la sua vera identità ossia quella umana, imitando in questa sua doppia veste, l’emblematica figura evangelica del “buon samaritano”.