Ragazzini obbligati a lavorare 14 ore al giorno tra le botte, mangiando topi e vermi per resistere alla fame. I compagni morti da seppellire per un pasto in più. Parlano i reduci della scuola-lager di Dabao
Leone Grotti
A quel tempo «nessuno sapeva che cosa fosse un campo di rieducazione attraverso il lavoro» e quando gli ufficiali del Partito comunista assicuravano alle famiglie che si trattava di un luogo dove i bambini sarebbero stati nutriti e cresciuti «secondo la buona educazione comunista», i genitori non avevano motivo di dubitare. Chi poteva immaginare che una legge voluta dal “Grande timoniere” Mao Zedong avrebbe creato un sistema repressivo dove «le persone venivano trattate peggio degli schiavi, come animali»
Wang Yufeng oggi ha 68 anni ed è una dei pochi scampati a Dabao, dove “l’indottrinamento attraverso il lavoro” ha portato alla morte almeno tremila ragazzi di età compresa tra i 10 e i 18 anni in soli quattro anni, tra il 1959 e il 1962. La loro storia è raccontata attraverso la voce
dei sopravvissuti nel documentario I giovani lavoratori confinati a Dabao, premiato lo scorso primo maggio alla libreria 1908 di Hong Kong e al Cafe Philo di Taipei.
La regista Xie Yihui ha deciso di realizzarlo dopo aver letto un articolo di Zeng Boyan, ex giornalista del Sichuan Daily, che alla fine degli anni Cinquanta è stato internato insieme a tanti altri membri «della destra» nel campo di lavoro Shaping Farm, fattoria statale nella provincia di Sichuan di cui Dabao faceva parte.
Zeng ha visto con i suoi occhi «le centinaia di bambini costretti a lavorare sulla montagna, nelle foreste, inseguiti dai supervisori con le fruste» e a distanza di cinquant’anni, con l’aiuto di Xie, è andato a cercare i sopravvissuti «perché questa storia non poteva essere seppellita con loro: i nostri figli devono sapere che cosa è successo».
Il gulag cinese di Dabao raccontato dai sopravvissuti
Dabao era diviso in cinque distaccamenti: ognuno poteva contenere al massimo 400 “ospiti”, ma «ne stipavano anche 600. Ogni volta che qualcuno moriva, arrivavano nuovi detenuti. I più giovani avevano 10 anni, i più grandi 18». Lin Xianjun ricorda bene l’organizzazione del campo: «Per ogni distaccamento c’erano solo tre responsabili del Partito comunista. Per questo le centinaia di ragazzi erano suddivisi in grandi gruppi e questi a loro volta in piccoli gruppi. Alcuni detenuti venivano nominati leader e rispondevano del lavoro di tutti al diretto superiore. Io ero leader di uno dei grandi gruppi del quinto distaccamento».
A Dabao non finivano solo i membri «della destra», internati in massa per la purga ordinata da Mao durata dal 1957 al 1961. Chen Tongjun è stato preso per vagabondaggio: «Avevo 12 anni», racconta. «Un giorno sono arrivato in ritardo a scuola, ho litigato con il professore e sono stato espulso. Se fossi tornato a casa, i miei mi avrebbero punito. Così ho gironzolato per la città chiedendo spiccioli per le caramelle, come facevo di solito. La polizia mi ha preso, mi ha detto che dovevo essere rieducato attraverso il lavoro e mi ha spedito a Dabao senza neanche avvisare la mia famiglia».
Wang Chengyun, invece, è stato portato nel campo di lavoro per volere della madre: «Non riusciva a sfamare me e i miei fratelli. La polizia le ha detto che era un bel posto e lei stessa ha fatto richiesta. Avevo 13 anni».
Le retate di bambini
Chen Xiaojing ha disonorato la famiglia commettendo un piccolo furto, la sorella esasperata ha dato retta alla polizia, che parlava di un luogo dove i bambini potevano studiare per qualche mese e poi tornare a casa riformati: «Ha solo 13 anni», ha detto alla madre, «lasciamo che la educhino loro».
Dai Fuquan, 16enne di Chongqing, si guadagnava già da vivere quando l’hanno accusato di “raccogliere illegalmente” della legna: «Come tanti altri mi hanno messo in prigione senza motivo», si arrabbia mostrando i denti marci. «A nessuno importava se eri colpevole o no. La verità è che ogni città aveva una quota di persone da inviare a Dabao. Se non sapevano come rispettarla, mandavano la polizia per le strade a prendere qualche bambino».
Nel campo di lavoro giovanile sono passati tra i cinque e i seimila bambini. La giornata cominciava presto e finiva tardi: «Lavoravamo non meno di dieci ore, a volte anche quattordici», rivela Yang Youyuan, inviato nel primo distaccamento a 11 anni. «Ci mandavano in una foresta primordiale, l’erba era più alta di me. Qui dovevamo abbattere gli alberi, spaccarli e farne legna da ardere. Poi c’erano i campi, con la terra da dissodare. Se lavoravi lentamente, ti picchiavano, se non terminavi il lavoro, non ti davano da mangiare la sera».
«Dovevo portare dalla foresta al campo 35 chili di legna al giorno. Poi mi hanno passato al trasporto del carbone: ogni giorno mi caricavo sulle spalle 18 chili di carbone e lo trasportavo a piedi per 10 chilometri dal villaggio di Shengli al campo». Dopo il lavoro, la sera, i bambini dovevano anche studiare per «essere riformati». «Io ero capo dell’insegnamento nel quarto distaccamento», ride Shen Qiyu, che nonostante la giovane età doveva insegnare fisica agli altri internati. «Mi avevano detto di insegnare prima le parole, poi a comportarsi e infine l’educazione comunista. Ma l’esperimento è durato due mesi: in teoria metà giornata doveva andare per lo studio, invece era relegato alla sera. Ma non veniva nessuno: i ragazzi avevano troppo freddo e troppa fame».
Nonostante i carichi di lavoro massacranti e il freddo costante «perché avevamo solo vestiti di cotone, anche di inverno», era la fame a rendere Dabao davvero un inferno. Quando il campo di lavoro giovanile ha aperto i battenti nel 1959, la Cina aveva intrapreso già da un anno “Grande balzo in avanti”. La campagna di modernizzazione comunista dell’economia imposta da Mao ha portato a una delle più grandi catastrofi che il mondo abbia mai conosciuto: tra il 1958 e il 1962 sarebbero morte di fame 40 milioni di persone.
E se il cibo mancava nelle città e nelle campagne, tanto meno ce n’era per i giovani detenuti di Dabao. Lin Xianjun non lo ha dimenticato: «La situazione è diventata tragica nel 1960. Già prima non mangiavamo né carne, né sale, né olio. Solo zuppa di mais e, se eravamo fortunati, ravanelli. Poi vennero a mancare anche le verdure, le porzioni erano scarsissime».
«Alcuni ravanelli erano troppo grossi e duri perché riuscissimo a mangiarli, nonostante la fame», prosegue Dai Fuquan. «Lo stomaco era sempre vuoto e cercavamo vermi e lombrichi per riempirlo. Tanti sono morti per avere ingerito erbe velenose. Una volta, scavando la terra,
abbiamo trovato carne di pecora seppellita da chissà chi. Era marcia e piena di vermi. Molti non sono riusciti a fermarsi e si sono avventati per morderla. Abbiamo provato a fermarli ma ci hanno risposto: “Siamo felici di morire in questo modo, mangiando carne. Non ne possiamo più di avere fame”».
L’unico modo per sopravvivere era rubare, come testimonia Wang Yufeng: «Se non avessi rubato sarei morta, chi obbediva ai quadri di partito non sopravviveva. Loro ci dicevano di non rubare perché non capivano: mangiavano carne tutti i giorni, mentre noi morivamo. Le patate che venivano piantate di giorno, erano dissotterrate la notte e consumate sul posto dai ragazzi, anche se ricoperte di merda e urina. Si derubavano anche i villaggi vicini. Ma guai a essere scoperti».
Le torture erano all’ordine del giorno a Dabao: chi veniva trovato a rubare, o cercava di scappare o non obbediva agli ordini, veniva picchiato, «spesso ucciso di botte» o «legato mani e piedi e costretto a stare in piedi in mezzo al campo per ore. Chi cadeva veniva frustato, preso a calci e a pugni». I maschi venivano anche spogliati nudi «con il pene chiuso in un sacchetto pieno di polvere di peperoncino piccante che bruciava come il fuoco». Alcuni sono stati «cosparsi di olio e bruciati, anche se non a morte», ad altri è stato «reciso di netto un dito con il coltello».
Svegliarsi nella fossa comune
Ma nonostante questo, ricorda Dai Fuquan, tutti rubavano «ogni due giorni, altrimenti saremmo morti di fame. La gente preferiva rischiare di andare incontro alla morte che crepare di fame». Lin Xianjun, come tanti altri, era diventato più simile a uno scheletro che a un bambino: «Ero completamente scavato, le mani e le braccia si erano rigonfiate, lo stomaco così incavato che ci stava dentro la testa di un uomo». Wang Chengyun, invece, venne soprannominato “chiappe spigolose” perché «ero uno scheletro che camminava. Non avevo più carne, solo ossa e pelle. Non potevo neppure sedermi su una panchina: mi facevano troppo male le ossa del culo».
Nel 1960 morivano così tanti ragazzi nel campo di Dabao che il becchino era diventato un mestiere come gli altri. «Chi seppelliva i morti riceveva un tortino di mais in più» e i bambini facevano a gara. «Io ero più forte degli altri e mi sono aggiudicato il lavoro», racconta Yang Youyuan.
«All’inizio mi davano fastidio le facce dei morti, poi mi sono abituato. Ne seppellivo anche dodici al giorno. Se ce n’erano troppi, ne mettevo due o tre nella stessa fossa. Se non ci stavano, gli si spezzavano gli arti per pressarli». Molti per la fretta venivano ricoperti «con poca terra», così, quando la neve si scioglieva, «tornavano fuori» e i lupi che giravano per le montagne spesso li riducevano a brandelli.
«Queste scene ci facevano così paura – spiega Lin Xianjun – che chi aveva un amico stretto gli diceva: “Se muoio prima di te, devi seppellirmi in una fossa profonda. Devi farlo, se sei davvero mio amico”».
Molti ragazzi si addormentavano la notte e non si svegliavano la mattina, era perfino difficile capire chi fosse ancora vivo: «Mi è successo questo episodio dopo un anno che ero a Dabao: la notte mi ero sentito male, respiravo a fatica e mi sono svegliato all’improvviso sotto la pioggia circondato da cadaveri lungo una discesa. Pensavano che fossi morto e mi avevano gettato là con gli altri. Quei corpi freddi mi hanno terrorizzato e sono tornato di corsa al campo. Appena gli altri mi hanno visto, hanno cominciato a gridare: “Prendete i bastoni e picchiate il fantasma”. Per fortuna uno mi ha riconosciuto e li ha fermati: “Ma quale fantasma, è Jiasen”».
Nessuno di quei ragazzi, secondo i medici, è morto per “malnutrizione”. Questa parola, infatti, era un «tabù politico», nessuno «poteva parlare apertamente di quello che tutti vedevano, cioè che c’era la carestia e la gente moriva». Nessuno poteva insinuare che «Mao aveva sbagliato».
Il campo di rieducazione attraverso il lavoro di Dabao è stato chiuso nel 1962 «perché la situazione era diventata davvero insostenibile, perfino gli ufficiali di partito scappavano». I sopravvissuti sono stati trasferiti o in altri campi o assegnati ad altre mansioni, per essere liberati solo nel 1971 o più tardi ancora. «La mia vita mi è stata rubata da Dio», dice oggi Wang Yufeng, che vive con un altro sopravvissuto, Chen, e vende frutta al mercato a Leshan. «Come si può essere felici?», si chiede Dai Fuquan, che campa con la pensione minima governativa di 340 yuan al mese (42 euro).
Wang Chengyun è sposato, ha figli e manda avanti una piccola fabbrica. Oggi è contento della vita che conduce ma pur non avendo velleità da scrittore ha voluto comporre una poesia intitolata: “Impossibile dimenticare”.
Il Partito comunista cinese non ha mai chiesto scusa alle famiglie per avere internato i loro figli senza una ragione e non vuole che l’esperienza di Dabao venga ricordata. Cercando “Campo di lavoro Sichuan” su Baidu, il Google cinese, esce una sola voce che parla dei gulag, Dabao compreso: c’è scritto che 65 mila persone vi sono state educate e ben riformate per la società.