Una lacerazione che risale al ’68, quando la maternità viene ritenuta un ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza con l’uomo. Ma oggi il pensiero femminile cattolico è il più lucido nel denunciare i rischi per la donna dovuti alle biotecnologie.
di Lucetta Scaraffia*
(*) Insegna storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e collabora con il settimanale Io Donna e il quotidiano Avvenire Si è specializzata in storia delle donne, con particolare attenzione alla religiosità femminile e ai rapporti fra la società occidentale e l’islam.
Ma la maggior parte di voi, signore, io credo, avrà sentito a qual fonte ho attinto, quali principi abbia voluto affermare, quali virtù dipingere; avrà sentito che io guardavo, costantemente, a Cristo, e che parlavo di virtù essenzialmente evangeliche, in qualunque campo militi colei che le metta in pratica». Oggi, in un panorama culturale che contrappone costantemente “le donne” – intese come comunità che combatte per la propria emancipazione e liberazione – a una Chiesa cattolica presentata come l’ultimo e il più duro ostacolo a questi obiettivi, pare difficile credere a queste affermazioni di militanti che rivendicano al tempo stesso impegno femminista e fede cattolica.
Invece è proprio così: la separazione fra femministe e cattoliche è relativamente recente, perché risale agli anni della lotta per l’aborto. Certo, qualche conflitto c’era stato anche in passato, come quando le convenute al primo congresso femminista italiano, tenutosi a Roma nel 1908, votarono, nonostante l’opposizione delle cattoliche presenti, per l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, episodio da cui scaturì la decisione di fondare delle organizzazioni cattoliche femminili separate (prima l’Unione fra le donne cattoliche con Cristina Giustiniani Bandìni, poi la Gioventù femminile di Armida Barelli).
E in questo periodo che si palesa una differenza fra chi qualifica la sua associazione come “femminile”, cioè le cattoliche, e chi continua a usare il termine originario, “femminista”. Si può aprire una discussione su quale sia il “vero” femminismo, ma se accettiamo che si possa definire femminista chiunque operi a favore delle donne, naturalmente nel modo che crede più giusto ed efficace, sulla scia della definizione minima di femminismo proposta da Florence Rochefort e Laurence Klejgman – cioè come “rivendicazione totale o parziale dell’uguaglianza fra i sessi” – vediamo come in essa rientrino senza dubbio anche le organizzazioni femminili cattoliche.
Infatti, grossi conflitti sul nodo fondamentale, cioè dare maggiore peso e importanza al ruolo femminile nella società, non c’erano: anche le femministe laiche, quasi tutte di matrice mazziniana, non mettevano in discussione il fatto che il ruolo fondamentale della donna fosse quello di madre e continuavano a rassicurare chi temeva il contrario, dicendo che la possibilità di studiare e di entrare in professioni maschili non avrebbe certo distolto le donne dalla loro prima missione.
Soprattutto, laiche e cattoliche concordavano sul fatto che le donne erano di natura più elevata e spirituale degli uomini, e che queste loro qualità si sarebbero affermate nella sfera pubblica se le donne avessero potuto entrarvi con diritti uguali a quelli degli uomini.
L’immagine della donna come guida spirituale, che avrebbe potuto dare un contributo determinante all’evoluzione morale dell’umanità, è presente sia tra le femministe “spiritualiste” vicine a posizioni esoteriche e alla teosofia – come Dora Melegari, che nel suo pamphlet Il destarsi delle anime (1900, con numerose edizioni in francese e in italiano) sostiene che «questa volta la salvezza può venire dalla donna» – sia in femministe e filosofe cattoliche: come la francese Léontine Zanta (1872-1942) che nelle sue conferenze sull’emancipazione femminile (poi riunite nel volume Psychologie du féminisme, 1922) scrive che la donna emancipata può divenire «il genio morale» della società.
E proprio per questo la militante cattolica Zanta viene descritta nella celeberrima autobiografia di Simone de Beauvoir (Memorie di una ragazza perbene, uno dei libri sacri del femminismo) come un modello: «Avevo letto in una rivista l’articolo di una donna filosofa che si chiamava signorina Zanta, era fotografata davanti alla sua scrivania, con il viso grave e concentrato […] era riuscita a conciliare la sua vita intellettuale con le esigenze della sua sensibilità femminile».
E Simone de Beauvoir non è certo stata l’unica intellettuale femminista a trovare modelli di donne autorevoli nella tradizione cattolica: studiose e militanti hanno riconosciuto l’importanza di sante che si presentano con le inequivocabili caratteristiche di donne forti e autonome, come Caterina da Siena, Teresa d’Avila o Francesca Cabrini.
Tanto che la militante femminista inglese Judith Butler, metodista, alla ricerca di un modello, è ricorsa a Caterina da Siena, alla quale ha dedicato una biografia militante. E una delle più importanti esponenti del femminismo italiano degli anni Settanta, Carla Lonzi, non ha avuto imbarazzo a scrivere nelle sue memorie: «Quando all’inizio del femminismo ho ricercato le mie origini tra quelle donne che mi potevano aiutare, meno illuse di altre, meno compromesse, più salde nell’esperienza personale e nel modo di condurla, con un nucleo indistruttibile nella riconosciuta fragilità, si sono ripresentate Teresa Martin e Teresa d’Avila».
E se le femministe guardano alle sante, nel 1998 è stata addirittura canonizzata un’intellettuale contemporanea che si può definire femminista, la filosofa Edith Stein. Essa sostiene non solo che l’occupazione extradomestica della donna non è contraria né all’ordine della natura né a quello della grazia – e che dunque non deve esistere una distinzione tra le professioni accessibili ai due sessi – ma che l’ordine della redenzione, infranto da Adamo ed Eva e al quale l’umanità deve ritornare, era egualitario: «In origine fu affidato ad ambedue il compito di conservare la propria somiglianza con Dio, di dominare sulla terra e di propagare il genere umano». È stata la caduta a trasformare «un puro legame di amore in legame di dominio e soggezione, sfigurato dalla concupiscenza».
La spaccatura fra cattoliche e laiche avviene quando le donne, fino a quel momento escluse dalla modernità e quindi capaci di un discorso critico su di essa, vi rientrano grazie albi rivoluzione demografica: come scrive il sociologo francese Paul Yonnet (Le recul de la mort), è la “ritirata della morte” dalla vita delle donne e dei bambini a cambiare il destino femminile, a permettere la diffusione del controllo delle nascite per concepire solo i figli desiderati – gli unici riconosciuti degni di vivere — e quindi ad avviare la realizzazione di quella separazione fra sessualità e procreazione che sembra essere divenuta la condizione fondamentale per garantire la libertà delle donne.
La valorizzazione della maternità – valore premoderno se esclude la scelta individuale – scompare quindi completamente dalle rivendicazioni delle femministe laiche, sostituita dalla richiesta di quelli che vengono chiamati “diritti riproduttivi”, cioè sempre maggiori possibilità di contraccezione, incluso l’aborto.
Quando le militanti laiche cominciano a considerare la maternità come una condanna e un ostacolo – anzi, il principale ostacolo – al raggiungimento dell’uguaglianza con l’uomo e quando la richiesta di questa uguaglianza non viene più unita alla consapevolezza di una specificità femminile da difendere ma scivola verso l’assunzione del modello maschile anche per le donne, la separazione tra laiche e cattoliche diventa inevitabile.
Questo processo – che inizia negli anni Sessanta, ma tocca il suo culmine dopo il ’68 – non nasce, come abbiamo visto, solo da una presa di posizione ideologica, da una corsa verso la libertà che investe anche le caratteristiche biologiche, ma ha la sua radice nella rivoluzione demografica della modernità. Proprio sul considerare la libera scelta della maternità il punto centrale su cui si fonda la dignità della donna come persona umana, il divario fra laiche e cattoliche si è fatto sempre più largo, se non insanabile.
Da una parte, vi è l’identificazione tra emancipazione delle donne e possibilità di scegliere la maternità, cioè in sostanza la separazione fra sessualità e procreazione che comporta per le donne un «Diritto in più, quello di essere le sole a decidere quale vita umana abbia il diritto di venire al mondo e quale no. Dall’altra, si continua a identificare l’identità femminile con il ruolo materno – vissuto anche in senso metaforico – e a rifiutare la separazione fra sessualità e procreazione, pur ammettendo nel matrimonio il controllo naturale delle nascite.
Questa rottura si è clamorosamente manifestata con il referendum sull’aborto e si è poi aggravata a proposito di tutte le decisioni prese da istituzioni nazionali e internazionali sul controllo demografico. E’ stata una donna laica, la giurista femminista Mary Ann Glendon, rappresentante della Santa Sede alla conferenza mondiale di Pechino del 1995, a denunciare senza mezzi termini «il tentativo di rifilare ai Paesi in via di sviluppo un altro prodotto obsoleto e pericoloso del mondo occidentale», cioè il modello occidentale di vita sessuale.
E sono le missionarie a combattere contro i tentativi delle agenzie internazionali di utilizzare l’aborto come forma di controllo delle nascite e di far credere alle donne del Terzo mondo che gli anticoncezionali costituiscono la via maestra per l’emancipazione, chiedendo invece scolarizzazione e aiuti per l’imprenditoria femminile, cioè proponendo una via diversa per realizzare l’emancipazione, non riconosciuta dalle femministe occidentali ma apprezzata da quelle dei Paesi non sviluppati.
Oggi, le femministe cattoliche sono le più lucide nel denunciare le forme di colonizzazione ideologica delle donne del Terzo Mondo e nel vedere i pericoli delle nuove tecniche di ingegneria genetica per l’identità femminile – espropriata della sua principale dote, quella di procreare – e per il concetto stesso di dignità umana. Inoltre è in crisi il trionfalismo utopistico che ha sempre accompagnato l’affermazione del modello occidentale di vita sessuale: la legalizzazione dell’aborto non ha portato i risultati positivi sperati e promessi dai suoi sostenitori.
Infatti, il ricorso all’aborto, invece di scomparire, sta aumentando grazie anche alla diffusione di forme di contraccezione abortive come la “pillola del giorno dopo”, mentre la libertà sessuale non ha dato la felicità sperata, e i figli “desiderati” non sono risultati migliori di quelli nati “per caso”, come prometteva la propaganda per il controllo delle nascite.
Ma le femministe laiche non sanno vedere questi problemi, né analizzare la situazione né proporre risposte, accecate da un’ideologia che le porta a difendere la libertà raggiunta a tutti i costi: un esempio lampante è la difesa della pillola abortiva Ru486, che chiude gli occhi sui danni provocati alla salute e alla vita delle donne nei Paesi dove è diffusa da tempo.
Ancora una volta pensano che la posta in gioco sia solo la liberazione della donna dal ruolo materno e che per ottenerla tutto sia lecito. Senza rendersi conto che oggi per le giovani donne è diventato quasi un desiderio proibito avere un figlio, mentre la raggiunta libertà sessuale sembra loro un ben povero surrogato della maternità.
Oggi le femministe cattoliche si rivelano capaci di vedere più lucidamente e possono pronunciale parole nuove e risolutive nel dibattito sui temi legati a procreazione e maternità, centrali nella vita politica e nell’etica pubblica di ogni Paese occidentale, svolgendo un ruolo innovativo e anticonformista.
Se lo sapranno cogliere, intervenendo come femministe nel dibattito e parlando con chiarezza, coraggio e prudenza, allora potrà essere dimenticato quello stereotipo di conservatorismo antiscientifico e misogino che grava ancora sulle posizioni cattoliche in materia. E soprattutto sarà smentita l’immagine della Chiesa come istituzione di uomini celibi che pretende indebitamente di entrare in questioni che ignora e che non la riguardano.
Così, dichiarandosi femministe, ma portatrici di una visione dell’identità femminile meno conformista di quella corrente, torneranno a essere modelli di emancipazione e anticonformismo per le altre donne.