Andrea Tani
La vera novità dell’annuncio non riguarda tanto la guerra irachena in sé quanto la percezione che di essa hanno l’opinione pubblica americana e soprattutto i suoi referenti politici. Negli ultimi tempi questi ultimi non hanno fatto altro che scrutare i sondaggi e gli umori popolari, veri o presunti, per cogliere dove si dirigerà la marea elettorale del prossimo anno nelle elezioni di Mid Terms.
Questa sembra essere la vera “driving force” dietro tutte le accese discussioni di questi mesi, più che la serena e il più possibile obiettiva valutazione dell’andamento del conflitto (così ormai lo chiamano gli stessi americani: war) in relazione agli obiettivi che il governo di Washington è in condizione oggi di perseguire. Il fatto che questi siano ormai differenti da quelli che il governo si era proposto all’inizio del conflitto non toglie che i problemi debbano essere affrontati e possibilmente risolti.
L’amministrazione Bush ha deciso di intervenire con decisione per sgombrare il campo da una quantità di equivoci e supposizioni che stavano cominciando a lambire le stesse assise del potere supremo. Ormai non erano solo i ‘congressmen’ democratici e i giornali liberal della costa orientale a discutere di contrazioni del corpo di spedizione, ritiri e scadenze varie, ma anche – e apertamente – i parlamentari repubblicani più oltranzisti (e dubbiosi di una rielezione), gli ‘armchair strategist’, i generali a riposo intervistati dai network, i columnist conservatori, i politici iracheni e persino gli stessi esponenti dell’amministrazione.
L’accorato appello delle settimane scorse del senatore Murtha (un influente falco repubblicano molto vicino alle alte sfere militari) per un ritiro immediato dall’Iraq ha fatto comprendere quanto questo stato d’animo fosse diffuso, anche nei contesti più inaspettati. Le conseguenze si sono viste nel recente netto declino dei consensi demoscopici alla prosecuzione della presenza dei Gi in Mesopotamia. Tale declino non comporta solo un pessimo vaticinio elettorale, ma può finire per degradare il morale delle unità militari impegnate in operazione, con conseguenze assai più gravi.
La reazione della presidenza a questa situazione è stata decisa e apparentemente efficace. Con il suo discorso e la concomitante pubblicazione del documento presidenziale “National Strategy for Victory in Iraq” (un corposo dossier elaborato dal National Security Council (Nsc) per l’esecutivo e declassificato per essere reso pubblico) Bush ha in qualche modo varcato una specie di Rubicone verso la focalizzazione univoca del problema iracheno, tale naturalmente per quanto concerne gli interessi degli Stati Uniti e del nuovo Stato laico, democratico e pluralista che questi stanno cercando di far nascere fra il Tigri e l’Eufrate.
Le ambiguità del momento sono state evidenziate e sconfessate. Sia il discorso che il dossier mostrano l’impegno e l’attenzione con i quali l’amministrazione Bush sta affrontando il problema iracheno. E’ stata messa in luce la progressività dei risultati politici che è realistico attendersi, l’indispensabilità di una vittoria politico-militare (non solo per il futuro dell’Iraq ma anche per la sostenibilità delle posizioni statunitensi nel mondo), l’effettiva consistenza dell’insurrezione, articolata in diverse componenti eterogenee fra loro ma parimenti temibili, nonchè la strategia per la vittoria, che è poi l’argomento principe.
Quest’ultima si concretizza in tre indirizzi operativi, interdipendenti fra loro. Il primo è di carattere politico e mira a superare progressivamente le difficoltà attuali attraverso l’edificazione di un Stato stabile, pluralistico, partecipato ed efficiente, coinvolgendo la popolazione nel processo democratico di selezione di una classe dirigente.
Il secondo riguarda la messa in sicurezza del Paese ed è volto a bonificare il territorio dalla guerriglia e a controllarlo in modo continuativo, in modo da passarlo in consegna alle strutture irachene preposte per l’avvio dell’ordinario esercizio di sovranità. Il terzo concerne la sfera economica e tende a ricostituire le infrastrutture, riformare l’economia e reinserire il Paese nel circuito internazionale.
Queste strategie sono in corso di realizzazione, in buona parte con un discreto successo (l’understatement del presidente su questo punto è molto diverso dal trionfalismo passato ed è assai più apprezzabile). L’elenco degli esiti positivi inconfutabili è abbastanza cospicuo, molto superiore a quanto il lettore ordinario dei giornali di questi mesi si sarebbe aspettato.
L’agenda politica, soprattutto, ha raggiunto nei tempi stabiliti tutti gli impegnativi obiettivi che si era prefissa. Si sta completando con le elezioni legislative del prossimo 15 dicembre, che daranno vita al primo governo ‘normale’ del post Saddam, sancendo formalmente la fuoriuscita delle istituzioni del Paese dalla dittatura, dal protettorato della Coalizione e dagli esecutivi provvisori. Il tutto con la benedizione della comunità internazionale.
Le affermazioni meno convincenti della nuova linea della presidenza riguardano l’aspetto militare della questione. Rovesciando una diffusa percezione – tale anche ai più alti livelli istituzionali, basti ricordare la testimonianza dei vertici militari davanti alla Commissione difesa del senato di Washington del 29 settembre scorso – Bush e il documento del Nsc sostengono che più di un terzo dell’esercito e della polizia iracheni avrebbero raggiunto uno standard operativo che li rende idonei a operazioni sul campo, a volte in modo indipendente e persino alla testa (“leading”) dei dispositivi della Coalizione.
Quarantacinque battaglioni dell’esercito avrebbero acquisito tale qualifica, 33 di essi controllerebbero un proprio specifico “battle space” (nessuna unità ne era capace nel 2004).
Questa segnalazione risulta in netto contrasto con quanto dichiarato dai vertici militari nel ‘hearing’ di settembre, riferito al tempo su queste pagine. Secondo le trascrizioni di allora, il generale Casey avrebbe ammesso che un solo battaglione iracheno (a fronte di tre di quattro mesi avanti) poteva essere impiegato in combattimento senza l’assistenza delle forze della coalizione.
Dodici erano di categoria 2, ossia unità combat ready ma solo con il supporto delle forze alleate. Il presidente Bush ha menzionato questo particolare, attribuendolo a interpretazioni malevole della stampa. In realtà non si trattava di interpretazioni ma di riporto di dichiarazioni formali e penalmente impegnative, come tutte le deposizioni al Congresso.
Si tratta di un particolare significativo, sia per la valutazione dell’effettiva capacità combattiva dell’esercito iracheno che per la confidenza possibile circa la nuova posizione dell’amministrazione. La difformità delle valutazioni potrebbe essere dovuta a una modifica dei criteri per la determinazione della valenza operativa delle unità irachene, generato dall’inserimento di nuclei di Green Berets nei loro quadri, che nel frattempo è avvenuto, o di qualcos’altro di “meno professionale”, nel qual caso la cosa si complicherebbe non poco.
Ma tutto ciò non ha destato interesse. Commentando il discorso di Bush, i media si sono limitati a formulare gli astratti e incessanti teoremi neoconofobi che esaltano da quando la vicenda irachena è cominciata, reiterando la richiesta per un ritiro incondizionato che più folle non sarebbe – prima di tutto per gli iracheni – e per la stipula di un ‘contratto di disimpegno’, con tanto di scadenze e milestone, come se si trattasse della stipula di un mutuo o di un compromesso immobiliare.
Bush ha avuto ottimo gioco nel mostrare l’assurdita di tali posizioni. “Da che mondo è mondo nessuna guerra è mai stata vinta con uno scadenziario in bella vista al posto di combattimento e potete essere certi che neanche questa lo sarà, almeno finché rimango presidente” è stato il suo commento sferzante di fronte alla platea dei cadetti osannanti di Annapolis.
Non solo Bush la pensa così, e lo dice. Il Senatore Lieberman, antico ‘team mate’ di Albert Gore nel ticket presidenziale democratico che sfidò Bush-Cheney nel 2000 nonché competitore di Kerry alle primarie del 2004, ha scritto in un recente appassionato articolo apparso sul Wall Street Journal Europe del 29 novembre che sarebbe un “colossale errore” se gli americani abbandonassero gli iracheni (“cercando la disfatta fra le mascelle della vittoria imminente”, secondo un aforisma yankee) proprio ora che stanno migliorando drasticamente la loro condizioni e stanno “alzandosi in piedi” (standing) per difendersi da soli.
Ha aggiunto anche di essere “parecchio amareggiato nel vedere molti democratici più intenti a dare addosso a Bush per la sua entrata in guerra di tre anni fa – nonché molti repubblicani più preoccupati per la loro possibile non rielezione nel prossimo novembre – che realmente interessati, entrambe le categorie, a cosa succederà all’Iraq del futuro”.
L’articolo di Lieberman, che è ovviante inattaccabile sotto il profilo della correttezza istituzionale, costituisce uno degli esempi più luminosi di senso dello Stato e nobiltà politica che siano recentemente apparsi sulla scena americana e forse occidentale. Ha destato una profonda impressione in tutti coloro che l’hanno letto – in chi scrive, ad esempio – anche perché è apparso prima dell’intervento di Bush ad Annapolis. Il presidente l’ha citato nel suo discorso ma senza farsene un particolare vanto e questo torna a suo onore. Nessun commentatore liberal o democratico, per non parlare della sinistra internazionale, lo ha ripreso o commentato. E qui sta forse un altro corposo intoppo della vicenda irachena.
Come ha detto Lieberman, a costoro non sembra importare proprio niente dell’Iraq, del destino dei suoi abitanti, del progresso del Medio Oriente, della democratizzazione di popoli culturalmente arretrati e oppressi dai loro governanti (prima che da Israele o dall’Amerika), delle ripercussioni in altre parti del mondo di questa sfida terroristica all’unico poliziotto internazionale che abbia ancora la possibilità e la voglia di pattugliare la città globalizzata. Importa solo ribadire ossessivamente l’esecrazione a Bush, auspicare la disfatta sua e dei suoi epigoni planetari – costi quel che costi – e invocare la replica di una umiliazione ‘vietnamita’ per l’esercito americano. Simbolo quest’ultimo – secondo tali opinioni – di tutti gli immondi militarismi di questo mondo, a loro volta espressione di una condizione esistenziale fra le più esecrabili e sconce.
Con qualche sfumatura attenuata per quest’ultima posizione, dovuta più alla necessità tattica di ingraziarsi i soldati dei quali si sa a volte di poter aver bisogno, questi sono gli argomenti della sofisticata dialettica che si oppone più o meno ovunque alla “Strategia di Vittoria” americana in Iraq.
E’ difficile, in queste condizioni, non finire per trovarsi d’accordo con le conclusioni della medesima strategia, quali che siano stati gli errori passati e quali che siano le incongruenze presenti. Incrociando nel frattempo le dita.