La “prima” persecuzione comunista
(1945-1953)
Uno sguardo alla chiesa cattolica in Urss e nei paesi d’oltrecortina nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale. Il progetto dei regimi comunisti di costruire una società senza Dio ha causato una quantità enorme di vittime e di martiri. Che non vanno dimenticati.
di Giampaolo Barra
Nel corso di 70 anni in URSS (dal 1917 al 1989) e di circa 40 anni nei Paesi dell’Est europeo (dalla fine della guerra alla caduta del Muro di Berlino) si è compiuto il tentativo di costruire una società che prevedeva la cancellazione di ogni idea, traccia e presenza di Dio e della Chiesa dal cuore e dalla mente degli uomini.
Le premesse dettate da Marx («La religione è l’oppio dei popoli») e realizzate da Lenin per primo (“Dio è il mio nemico personale») e dai dittatori rossi che seguirono in URSS e negli altri Paesi dell’Est europeo, hanno condotto alla persecuzione violenta della Chiesa, all’arresto, alla tortura, alla deportazione, alla condanna o all’uccisione di migliaia tra vescovi, sacerdoti, suore e di un numero incalcolabile di semplici fedeli; all’espulsione dei missionari stranieri o, non di rado, alla loro eliminazione fisica; alla distruzione e alla profanazione di decine di migliaia di chiese; alla chiusura di conventi e seminari; all’espropriazione dei beni gestiti dalla Chiesa e destinati a opere caritatevoli; all’impedimento di professare la propria fede; alla proibizione o alla limitazione di stampare bibbie, catechismi e altri libri religiosi; a conculcare ogni altra libertà in genere.
In diversi Paesi, poi, ove non era possibile sopprimere del tutto la Chiesa, si è tentato di dividerla, dando vita ad organizzazioni “ecclesiastiche” allineate al regime, che però non hanno mai riscosso la fiducia dei credenti.
Qui vogliamo offrire una panoramica, assai superficiale dato lo spazio disponibile, della persecuzione subita dalla Chiesa cattolica nel primo dopoguerra, fino alla morte di Stalin nel 1953. Essa si è sviluppata in maniera diversa, in Paesi che differivano per storia e tradizioni religiose, anche per la diversa importanza della Chiesa in ciascuno di essi.
In Unione Sovietica, la persecuzione comunista colpi in primo luogo la Chiesa ortodossa, che si vide decapitata con il martirio di alcune centinaia di vescovi e di decine di migliaia di sacerdoti. Le comunità cattoliche numericamente rilevanti vivevano nelle repubbliche lituana, ucraina e bielorussa.
Alla vigilia dell’invasione sovietica, nel giugno 1940, la Chiesa cattolica in Lituania, cui aderiva l’84,1 % della popolazione, stimata allora in 3.238.000 unità, contava 11 tra arcivescovi e vescovi, 721 parrocchie e 378 cappelle, dove 1.370 sacerdoti diocesani e 150 religiosi svolgevano il loro apostolato. La presenza di oltre 600 seminaristi garantiva il futuro della Chiesa alla quale facevano riferimento, inoltre, l’Accademia Cattolica delle Scienze, 29 scuole tra medie superiori ed elementari, 823 biblioteche, 7 case editrici con 32 giornali e riviste, nonché numerose opere assistenziali.
Durante la prima occupazione sovietica, durata poco più di un anno, furono confiscati tutti i beni e gli oggetti di valore appartenenti alla Chiesa, aboliti i sussidi statali e chiuse le istituzioni ecclesiastiche e assistenziali. La stampa cattolica venne soppressa, le case editrici nazionalizzate e le biblioteche chiuse, mentre si bruciavano decine di migliaia di preziosi volumi.
Dopo l’occupazione nazionalsocialista e il ritorno dell’Armata Rossa, nel 1944, si accentuarono le misure repressive con la nazionalizzazione di tutte le chiese e le case canoniche (solo a Vilnius ben 16 chiese, compresa la cattedrale e l’imposizione di tasse per lo svolgimento dei servizi liturgici, il bilancio delle vittime fu pesante: il 50% del clero venne arrestato e deportato in Siberia e 330 sacerdoti perirono nei lager e nelle prigioni tra il 1944 e il 1953.
In Ucraina, nei primi anni ’50, la Chiesa greco-cattolica viveva nella più assoluta clandestinità. Prima dell’ultimo conflitto mondiale, contava 11 vescovi i quali, coadiuvati da 2.950 sacerdoti secolari, 520 religiosi e 1.100 suore, si prendevano cura di 4.300.000 fedeli. L’alto numero di studenti di teologia (ben 540) era indice della vitalità di questa Chiesa alla quale, inoltre, erano collegate 9.900 scuole elementari, 436 tra scuole medie superiori e inferiori, 41 organizzazioni del laicato e 38 tra giornali e riviste.
Nel 1945 la Chiesa greco-cattolica fu dichiarata illegale dal governo sovietico, in combutta con il Patriarcato ortodosso di Mosca, e questa misura portò all’arresto dell’intera gerarchia episcopale (tutti i vescovi, ad eccezione del Metropolita Josyf Slipyj, che verrà liberato dopo 18 anni di internamento, moriranno nei lager o in seguito alle conseguenze della prigionia) e di centinaia di sacerdoti. Tutti gli edifici religiosi furono sequestrati, le chiese distrutte, adibite a uso profano o consegnate a! Patriarcato di Mosca e, naturalmente, furono sciolte tutte le organizzazioni cattoliche e soppressa la stampa religiosa.
In Bielorussia la comunità cattolica, stimata in due milioni di credenti, divisi in 5 diocesi con 455 parrocchie, era totalmente priva di vescovi, essendo stato l’ultimo, Boleslaw Sloshans, titolare della diocesi di Minsk, espulso fin dal 1927.
Una comunità di greco-cattolici, stimata in oltre 400.000 unità, viveva anche in Rutenia, regione cecoslovacca ma inglobata dall’URSS dopo il secondo conflitto mondiale. Al pari dei correligionari ucraini, i credenti ruteni furono costretti alla clandestinità e pagarono un alto prezzo in vittime: solo nel primo anno di dominazione sovietica, furono distrutte 73 chiese, uccisi 3 sacerdoti, deportati altri 15 e 36 costretti ad espatriare, Anche nei Paesi cosiddetti satelliti dell’URSS, la Chiesa veniva fatta oggetto di ostinata persecuzione.
Agli inizi degli anni ’50, in Cecoslovacchia la gerarchia episcopale si trovava in carcere o sotto strettissima sorveglianza. Nel marzo 1951 fu arrestato l’arcivescovo di Praga Josef Beran, preceduto dai confratelli Jàn Vojtassak, Pavol Gojdic e Michal Buzalka; questi ultimi due moriranno in carcere. L’anno prima furono soppressi tutti i seminari diocesani, la Chiesa greco-cattolica in Slovacchia fu dichiarata illegale e gli Ordini religiosi maschili e femminili furono sciolti.
Mentre giovani sacerdoti e novizi venivano incorporati nell’esercito, gli anziani furono destinati alle brigate operaie nelle fabbriche e nelle miniere. Identica sorte fu riservata alle oltre diecimila suore che, espulse dai loro conventi, furono disperse o, le più giovani, costrette a lavorare, mentre le più anziane venivano rinchiuse in “conventi di internamento”.
Misure crudelmente persecutorie furono attuate anche contro la Chiesa greco-cattolica in Romania che, negli anni ’50, annoverava oltre 1.500.000 fedeli, guidati da 6 vescovi con 1.834 sacerdoti. Alla Chiesa facevano capo 1.800 parrocchie con 2.588 chiese e cappelle e 3 seminari con 200 seminaristi, nonché 424 membri di 9 istituti religiosi. Significativa la presenza in campo culturale ed assistenziale, con 20 scuole nelle quali studiavano 3.353 allievi e 4 istituti di carità.
La messa fuorilegge della Chiesa, nel dicembre 1948, portò all’arresto dell’intera gerarchia episcopale. Cinque dei sei vescovi, loan Suciu, Liviu Chinezu, Vasile Aftenie, Alexandru Rusu e loan Balan periranno in carcere; il sesto, luliu Hossu, poi nominato cardinale in pectore da Paolo VI, trascorrerà 22 anni di detenzione. Con loro furono imprigionati i canonici, i professori di teologia, i decani, centinaia di parroci, monaci, suore e fedeli.
Al posto dei vescovi arrestati, il Nunzio apostolico Gerald PatricK O’Hara ne nominò segretamente altri sei, che furono scoperti ed arrestati. Tre di essi moriranno in carcere per maltrattamenti e percosse. Condizioni appena migliori vennero riservate ai cattolici di rito Iatino, la cui Chiesa contava, nel 1948. 1.165.000 fedeli, con 6 vescovi, 1.086 parrocchie con 1.120 chiese officiate da 1.186 sacerdoti. In 4 seminari studiavano 150 seminaristi e 22 istituti religiosi operavano nei territorio con 1.160 membri.
Nel 1948 le diocesi furono arbitrariamente ridotte da cinque a due dall’autorità politica e i vescovi Aron Marton di Alba Julia e Durkoviciu di lassi furono imprigionati. Quest’ultimo, poi, morirà in carcere.
Anche la piccola, ma vivace Chiesa in Albania fu oggetto di efferata e durissima persecuzione. Prima dell’avvento al potere di Enver Hoxha, nel 1944, la Chiesa era uro tra le realtà più attive e qualificate in campo culturale e sociale. Era strutturata in 2 archidiocesi e 3 diocesi con 131 parrocchie e 187 tra sacerdoti e religiosi, che si prendevano cura di 134.000 fedeli, il 10% della popolazione.
Dopo l’espulsione dell’arcivescovo Leone Nigris (1945), delegato apostolico, e di tutti i missionari, la Chiesa albanese fu isolata dal resto del mondo ecclesiale e il regime attuò indisturbato la sua azione persecutoria. Un anno dopo furono dichiarati fuorilegge i gesuiti e, nel 1947, i francescani; le chiese e i conventi appartenenti a entrambi gli Ordini furono chiusi o distrutti.
Nel 1946, in seguito ai maltrattamenti subiti, mori l’arcivescovo Gasper Thaci; l’anno successivo venne fucilato il vescovo Giorgio Volay e identica condanna subì il vescovo Francesco Gijni, fucilato nel 1948. Infine, il metropolita Nicola Vincenzo Prennhushi, arrestato, morirà in carcere nel 1952. sicché a quella data la Chiesa albanese risultava fortemente mutilata nella sua Gerarchia.
Dura fu anche la sorte toccala alla minuscola Chiesa cattolica in Bulgaria, cui aderivano 70.000 fedeli, guidati da 3 vescovi. Uno di essi, Eugenio Bossilkov, proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1998, venne processato nell’ottobre 1952 insieme ad altri tre sacerdoti e fucilato in quello stesso anno; un altro, Giovanni Romanov, vicario apostolico di Sofia, peri in carcere nel 1953.
Dei 127 sacerdoti e dei 200 religiosi d’ambo i sessi che operavano nel 1944, agli inizi degli anni ’50 ne rimanevano in libertà solo poche decine. L’espulsione di tutti gli ecclesiastici di nazionalità straniera condannò la Chiesa bulgara, al pari di quella albanese, all’isolamento completo.
A dispetto di un accordo convenuto tra il Governo e l’episcopato, firmato nel 1950 per assicurare lo sviluppo della nazione, anche la Chiesa cattolica in Polonia fu presa di mira dalla persecuzione, nonostante le radici sviluppate nel corso dei secoli in profondità nel corpo della nazione. All’inizio del 1953, anno in cui fu imprigionato il cardinale primate Stefan Wyszynski, ben 7 vescovi si trovavano in carcere ed altri 2 erano impediti di esercitare pubblicamente il loro ministero.
Dall’immediato dopoguerra, e fino a quella data, la Chiesa polacca pagò un considerevole prezzo in vittime: 37 sacerdoti erano stati uccisi, 260 scomparsi, 350 deportati, 700 incarcerati e 900 esiliati. Misure vessatorie colpirono anche i membri degli Ordini religiosi che videro, nell’arco di tempo sopra considerato, 54 religiosi uccisi, 200 deportati, 170 incarcerati e 300 esiliati.
Significativa per organizzazione e presenza nel tessuto sociale era anche la Chiesa in Ungheria organizzata in 3 archidiocesi, 8 diocesi e 2 amministrazioni apostoliche con 2.265 parrocchie e 4.012 sacerdoti. Fino al 1945 v’ erano anche 1.422 religiosi, distribuiti in 187 case appartenenti a 18 Congregazioni maschili e 7.525 suore in 456 case di 39 Congregazioni femminili. Insieme alle 5.000 associazioni del laicato, organizzate nell’Azione Cattolica, alla Chiesa facevano riferimento 3.344 scuole di ogni genere e grado, 2 quotidiani, 18 settimanali, 25 periodici mensili, 3 trimestrali ed una ventina di pubblicazioni d’altro tipo, per un totale di 1.500.000 copie mensili.
Nel dicembre 1948 fu arrestato il cardinale primate Jozsef Mindszenty e due anni più tardi vennero sciolti quasi tutti gli Ordini religiosi. In pochi anni furono nazionalizzate le tipografie cattoliche (1946), abolito l’insegnamento religioso nelle scuole statali (1947), sospesa ogni attività della Caritas (1948), nazionalizzata la scuola libera (1948) e arrestato il Presidente della Conferenza Episcopale, il vescovo Jozsef Grosz (1951), accusato di traffico in valuta estera.
Per quanto in rotta con l’URSS e gli altri Paesi comunisti, il Maresciallo Josip Tito non fu da meno nella persecuzione nei confronti della Chiesa in Jugoslavia. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale si contavano nel Paese 6.000 sacerdoti tra secolari e religiosi. Dopo la presa del potere dei comunisti (1945), iniziò una crudele persecuzione che ridusse il clero, nei primi anni ’50, a 4.000 unità. Ben 400 sacerdoti erano stati uccisi durante la guerra, in gran parte dalla bande partigiane comuniste, una trentina lo furono dopo; oltre 500 fuggirono all’estero, molti furono quelli incarcerati, torturati e deceduti in prigione.
Nello stesso arco di tempo erano stati colpiti duramente i vescovi: mons. Alojzije Stepinac, arcivescovo di Zagabria, condannato a 16 anni di detenzione; mons. Pietro Cule, vescovo di Mostar, condannato a 11 anni; mons. Giovanni Simrak, vescovo di Krizveci, morto in carcere per maltrattamenti; mons. Giuseppe Zarevic, vescovo di Dubrovnik, morto in circostante misteriose, probabilmente assassinato; Mons. Giuseppe Garic, vescovo di Banja Luka, morto in esilio, per citare solo alcuni nomi.
I fatti sommariamente riferiti testimoniano la crudele persecuzione delle comunità cattoliche d’Oltrecortina nel primo dopoguerra. Il piano di azzerare l’influenza della Chiesa nella società e, dove fosse stato possibile, di cancellarne totalmente la presenza, fu perseguito con ferocia e tenacia. Un progetto che provocò una quantità enorme di vittime, facendo della persecuzione comunista probabilmente la più terribile di quelle subite dalla Chiesa.
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La “seconda” persecuzione
Dopo la morte di Stalin, la persecuzione riprende e aumenta, meno plateale, forse più efficace. Sarà un papa polacco, congiuntamente ad altri fattori politici ed economici, a far crollare l’ “Impero”, nel 1989.
All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso il tentativo di cancellare la presenza e l’opera della Chiesa nei Paesi al di là della Cortina di ferro poteva vantarsi d’aver raggiunto risultati consistenti in alcuni di essi, meno in altri. Fino alla caduta dei regimi comunisti, nel 1989, nell’Est europeo la Chiesa fu perseguitata senza sosta, talvolta ridotta alla clandestinità, talaltra limitata nello svolgimento della sua missione
Un caso per certi versi unico al mondo fu rappresentato dall’Albania, ove si giunse alla proibizione per legge di credere in Dio. Nel 1967, il decreto numero 4337, dichiarando l’Albania un Paese ufficialmente ateo, dava il via alla definitiva soppressione di quel che rimaneva della Chiesa cattolica. Tutte le 327 chiese e cappelle ancora aperte vennero saccheggiate, profanate, distrutte o requisite e trasformate in locali pubblici.
Pregare nella propria abitazione, portare un crocifisso al collo, appendere un quadro religioso in casa, possedere una corona del Rosario poteva costare, se scoperti, fino a dieci anni di carcere duro. Era rigorosamente proibito battezzare i propri figli e chiamarli con nomi dei santi cristiani.
I pochi vescovi e sacerdoti rimasti in vita non potevano esercitare il loro ministero. Ma si sono verificati casi di disobbedienza, pagati a duro prezzo. Nel 1972, don Stefano Kurti battezzava di nascosto, nella prigione dov’era rinchiuso, un bambino nato in carcere. Per questo “efferato delitto”, il sacerdote veniva processato in una chiesa sconsacrata dinanzi a duemila persone terrorizzate, condannato e fucilato.
Sette anni più tardi, nella Pasqua del 1979, l’anziano vescovo Ernst Coba, da poco liberato perché non morisse in carcere, viste le sue precarie condizioni di salute, veniva aggredito e ucciso da una squadra di giovani ateisti che lo aveva scoperto mentre stava celebrando di nascosto la S. Messa.
Bisognerà attendere l’11 novembre del 1990 per vedere la prima celebrazione eucaristica pubblica in Albania, nel cimitero di Scutari. La durissima persecuzione comunista è complessivamente costata alla Chiesa cattolica, dal 1944, la morte di 2 Arcivescovi, di 5 vescovi, di 1 Abate, di 64 preti diocesani, di 33 francescani, di 14 gesuiti, di 10 seminaristi, di 8 suore e di un numero incalcolabile di fedeli.
In Unione Sovietica, dopo la morte di Stalin, la persecuzione religiosa si fece addirittura più cruenta con il successore Nikita Kruscev, sotto il cui dominio si raggiunse il minimo storico delle chiese ortodosse rimaste aperte in tutto il territorio: poco più di 7,000 delle oltre 54.000 che si contavano nella Russia zarista.
Tra le Repubbliche sovietiche, sempre drammatica era la situazione della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, che visse nella clandestinità fino alla caduta del comunismo.
Il cardinale Josip Slipyj, dopo 18 anni di prigionia, fu liberalo nel 1963. Prima di uscire dall’URSS ebbe modo di consacrare segretamente un vescovo e la gerarchia potè cosi perpetuarsi e operare fino alla caduta del regime, accrescendo il numero di vescovi e sacerdoti clandestini.
In un dettagliato rapporto (L’eco dell’Amore, n, 2, marzo 1981), Slipyj informava che decenni di persecuzione erano costati alla Chiesa ucraina, oltre alla perdita dei dieci vescovi, anche la morte di 1.400 sacerdoti, di 800 suore e di un numero incalcolabile di laici cattolici, molti dei quali deportati nei lager siberiani.
In una relazione di mons. Ivan Dacko, segretario personale del cardinal Slipyj e quindi del suo successore, il cardinale Myroslav Ivan Lubachivski, si legge che ancora nel 1982, il 29 settembre, veniva uccisa da membri della milizia la giovane suora clandestina Maria Sved, di 28 anni, operaia in una fabbrica di televisori a Leopoli.
Due anni prima, nel villaggio di Tomaschivka, veniva trovato il cadavere del sacerdote Anatol Gorgula, legato, cosparso di benzina e bruciato. Nel maggio del 1980, venne trovato nelle vicinanze di Leopoli il cadavere del sacerdote Ivan Kotik, massacrato a bastonate nella fabbrica dove lavorava. Il suo volto era livido, il naso pieno di sangue raggrumato, i denti spezzati e la bocca riempita di pane.
Nel 1984 veniva ucciso nel carcere di Leopoli il settantaduenne sacerdote, padre Anton Potocniak. Si dovrà attendere la fine degli anni Ottanta, nell’era di Gorbaciov, per vedere emergere dalle catacombe la Chiesa grecocattolica ucraina, che aveva conservata nei quattro decenni di dura persecuzione una fede salda ed una invincibile fedeltà al Sommo Pontefice.
Anche la Chiesa cattolica di rito latino presente in alcune repubbliche sovietiche subì dure persecuzioni fino alla caduta del comunismo. Josef Scholmer, un tedesco prigioniero nelle terribili miniere di Vorkuta, non credente, ha descritto con intensa commozione le funzioni religiose giornaliere tenute dai lituani nell’interno delle miniere, a 200 metri sotto terra, dove il personale amministrativo e i militari non avevano il coraggio di scendere.
Ogni mattina, verso le 4, veniva celebrata la S. Messa. Dal gruppo che pregava, si staccava un minatore, vestito con la tuta come gli altri e si avvicinava all’altare improvvisato. Era un sacerdote. Poi dalla folla si staccava un altro: il chierichetto. Sull’altare improvvisato compariva un minuscolo calice e un sottilissimo messale. Il calice d’argento era alto circa 7 cm e largo 4, opera degli stessi minatori.
Nel 1975 si contavano in Lituania poco più di 700 sacerdoti, meno della metà di quelli operanti nell’immediato dopoguerra. E numerosi furono quelli martirizzati anche negli anni Ottanta: padre Leonas Sapoka, che mori nel 1980 dopo aver subito pesanti torture; padre Bronius Laurinavicius, morto nel 1981 a causa di un incidente stradale assai sospetto; padre Jouzas Zdebskis, prima ferito con dell’acido che gli provocò gravi ustioni e poi vittima di un incidente stradale nel 1986.
Nei rimanenti Paesi dell’Est europeo la persecuzione non fu meno dura. Ragioni di spazio ci consentono solo una rapida carrellata di dati, di informazioni, utili comunque alla composizione di quel mosaico il cui disegno finale risulta essere la grande Croce del Calvario che fu eretta nei Paesi a regime social-comunista nel secolo scorso.
Le sofferenze della Chiesa ucraina furono del tutto simili a quelle di un’altra Chiesa che, nell’Est europeo, visse per decenni nella più assoluta clandestinità: quella greco-cattolica di Romania.
Dichiarata illegale nel 1948, con la complicità del Patriarcato ortodosso di Bucarest, visse nelle catacombe fino alla caduta del dittatore Nicolae Ceausescu, nel 1989. L’ultimo martire di quella Chiesa risale ai giorni immediatamente successivi la caduta del regime.
Il fondatore dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre, il padre Werenfried van Straaten, appena giunto in Romania nel Natale 1989 per incontrare i superstiti della Chiesa perseguitata, seppe della fine che gli uomini della famigerata Securitate, il Dipartimento di Sicurezza dello Stato, avevano riservato al sacerdote redentorista Johannes Ebner.
Questi fu trovato impiccato con la propria stola sacerdotale nella sua misera abitazione, ucciso dagli uomini della polizia segreta in fuga. Il nuovo governo postcomunista abolirà il decreto che nel 1948 aveva dichiarato fuorilegge la Chiesa greco-cattolica e quello che aveva ridotto da cinque a due le diocesi di rito latino.
In Cecoslovacchia si ebbe uno spiraglio nel periodo cosiddetto della “Primavera di Praga”, nel 1968, quando fu data la possibilità ai religiosi di uscire dai “conventi di internamento” dove erano stati rinchiusi a partire dal 1950. L’invasione di Praga nell’agosto del 1968, ad opera delle truppe sovietiche e del Patto di Varsavia, fece ripiombare il Paese nel clima tetro del regime comunista e il governo colpi duramente i membri della Gerarchia cattolica.
Fu incarcerato Jan Korec, vescovo ordinato segretamente nel 1951, oggi cardinale slovacco, che partecipando a un Congresso organizzato dall’Associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre, dichiarò: “La vita in carcere era talvolta molto dura. Smerigliavamo cristalli per l’esportazione (…). Il ritmo produttivo imposto era molto pesante e chi non lo raggiungeva veniva punito con le cosiddette “correzioni” nei sotterranei, dove doveva dormire per 10 giorni sul nudo legno. Il vitto lo riceveva ogni tre giorni (.,,). Dopo qualche tempo riuscimmo a procurarci ostie e vino, che preparavamo noi stessi. Celebravamo di nascosto la Santa Messa: i testi li sapevamo a memoria. Se venivano scoperti libri di preghiera, si veniva puniti duramente. E cosi, In questo modo, ho passalo otto anni in prigione».
Diversi furono i casi di martirio: nel 1974 moriva di infarto, subito dopo aver subito un brutale interrogatorio, Stepan Trochta, vescovo di Litomerice, nominato cardinale in pectore nel 1969 da Paolo VI. Nel 1982 il francescano Jan Sarta moriva dopo essere stato arrestato per aver organizzato un seminario clandestino.
Nel febbraio dell’anno precedente un altro religioso, padre Premysl Coufal, fu trovato morto nella sua abitazione. Sul corpo erano ben visibili i segni di pestaggi e torture. Bisognerà attendere il 1989 per vedere riaffermata la libertà della Chiesa. Fino alla cosiddetta “Rivoluzione di velluto”, che portò alla caduta del regime comunista nel 1989, molte diocesi erano prive di vescovi, tutti i sacerdoti non in carcere non potevano esercitare il loro ministero al di fuori delle mura della loro chiesa e la stampa cattolica era fortemente limitata e censurata dalle autorità.
In Ungheria, la rivolta di Budapest del 1956, repressa nel sangue, portò alla liberazione del cardinale Jozsef Mindszenty, rifugiatesi nell’ambasciata Usa dalla quale uscirà solo nel 1971 per recarsi prima a Roma e poi a Vienna, dove morì nel 1975, privato del titolo di arcivescovo di Esztergom contro la sua volontà.
Gli anni Sessanta videro il tentativo di trovare qualche accordo tra Santa Sede e governi comunisti (Polonia, Ungheria, Jugoslavia) per quella che passerà alla storia con il nome di “Ostpolitik” vaticana (contestata da molti vescovi della Chiesa perseguitata). Tali accordi portarono in Ungheria alla possibilità di nominare vescovi che godevano anche del gradimento del regime, ma non della maggioranza del popolo cattolico, che si organizzò in migliaia di “Comunità di Base”, ostili al comunismo. Dopo la caduta del regime, la Chiesa venne circondata da sostanziale indifferenza.
In Polonia si trovava la più forte comunità cattolica di tutta l’Europa centro-orientale e per tale ragione non fu possibile ai dittatori rossi eliminarla completamente. L’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, nel 1978, ebbe conseguenze decisive per la libertà della Chiesa e per la caduta dei regimi comunisti, non solo della sua Polonia.
Qui, anche sull’onda della prima visita del pontefice, nel giugno del 1979, nacque il sindacato Solidarnosc. guidato dall’elettricista Lech Walesa. Un movimento di popolo, che raccolse fino a 10 milioni di iscritti, al quale la Chiesa polacca guardò con simpatia offrendogli un forte sostegno. Uno dei cappellani di Solidarnosc, don Jerzy Popieluszko, fu assassinato da sicari della polizia nel 1984.
L’attentato a Giovanni Paolo 11 nel maggio del 1981 fu quasi certamente pianificato per cercare di chiudere la crepa apertasi nella Cortina di ferro con l’elezione di un Papa slavo. Fallì, secondo il Santo Padre, per l’intervento miracoloso di Maria, cui il Papa aveva consacrato il suo pontificato: avvenne infatti il 13 maggio, anniversario delle apparizioni della Madonna a Fatima e proprio nel santuario portoghese il Pontefice porterà, nei corso dell’anno seguente, la pallottola dalla quale la Madre di Dio lo aveva protetto. In Bulgaria e in Jugoslavia e nella stessa Germania orientale si dovrà attendere la caduta del muro di Berlino per vedere riaffermata la libertà della Chiesa. Talvolta pagando un duro prezzo, come lo scoppio della guerra civile nelle repubbliche della ex-Jugoslava.
La storia della persecuzione subita dalla Chiesa nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Est europeo dalla fine della seconda Guerra mondiale al 1989 va doverosamente ricordata, principalmente perché in essa si trovano pagine gloriose scritte da una quantità sbalorditiva di autentici martiri, la cui fedeltà a Cristo e alla Chiesa non mancherà di dare frutti.