La politica tra realtà, utopia e gnosi

antipoliticawww.ragionpolitica.it 29 maggio 2003

di Gianteo Bordero

Il realismo genera politica, l’utopismo genera il suo contrario: l’antipolitica. Molto oggi si discute sullo scarso interesse dei giovani nei confronti della politica. Esso deriva, sostanzialmente, proprio dall’abbandono del realismo come criterio e cardine cultural-politico per eccellenza. Se oggi sussiste un impegno politico giovanile “di massa”, questo abita a sinistra, ma non come salvaguardia e propagazione delle ragioni della politica, bensì come distruzione di essa nel nome dell’anti-politica, cioè dell’utopismo. Il no-global è solo la punta dell’iceberg di questo diffuso sommovimento anti-realista, che affonda la sua visione politica in una concezione gnostica della realtà.

Se non si tiene conto del ritorno della gnosi non si comprende il sorgere, in questi anni, dei movimenti dell’antagonismo sociale. Lo gnosticismo (da “gnosis”, conoscenza) rovesciò, sin dal suo sorgere, l’idea greco-classica di un’originaria bontà di tutto ciò che è; Platone prima e Aristotele poi espressero questo pensiero col termine “kosmos”, ordine. Per l’universo concettuale dei Greci il mondo era conoscibile in quanto ordinato e armonico.

Per lo gnosticismo – come ha osservato in un suo saggio Hans Jonas – «il cosmo è ordine e legge, ma un ordine rigido e nemico, una legge tirannica e malvagia, priva di significato e di bontà, estranea agli scopi dell’uomo e alla sua essenza interna, non oggetto della sua comunicazione e affermazione».

Il concetto di ordine si era poi dilatato, presso i Greci, passando dalla sfera prettamente filosofico-concettuale a quella sociale e civile: nacque l’idea di “polis”: la città come convivenza fondata sul “kosmos”. Un ateniese del V secolo a.C. viveva la polis come dimensione essenziale del suo stesso essere, e l’agorà, la piazza, era proprio il luogo fisico espressivo di questa società fondata sull’ordine della realtà e sulla centralità della categoria aristotelica di “relazione” tra gli enti.

«Lo gnosticismo, con la sua teoria dell’inimicizia tra uomo e mondo (e col suo corrispettivo metafisico del dualismo tra Dio e mondo) metteva in crisi l’idea classica di polis: Il pensiero gnostico – scrive ancora Jonas – è ispirato alla scoperta angosciosa della solitudine cosmica dell’uomo».

Per lo gnosticismo non c’è dunque polis che tenga: l’uomo è un punto sperduto nell’universo, in lotta inimicale con tutto ciò che lo circonda. L’uomo non è più “animale razionale e politico”: piuttosto egli è definito dalla sua profonda solitudine: «L’io viene scoperto mediante una rottura col mondo.

Nello stesso tempo questo ripiegamento su di sé dall’estraneità cosmica porta ad una nuova accentuazione della “comunità” dell’uomo come unico campo che rimane di affinità, dove ci si trova uniti non soltanto per la comunità di origine, ma anche per l’uguaglianza della situazione in quanto stranieri nel mondo. Codesta “comunità” non si riferisce però all’aspetto sociale e naturale dell’uomo, ossia all’esistenza terrena dell’uomo, ma soltanto all’io interiore e acosmico e a ciò che riguarda la salvezza».

L’eco di questa concezione gnostica del reale e dell’esistenza la possiamo ritrovare oggi come cifra che contraddistingue tutti i movimenti di contestazione, dall’ambientalismo al pacifismo, passando per il no-global. Si capisce così come l’utopismo contemporaneo affondi le sue radici molto più nell’antico gnosticismo che non – paradossalmente – negli stessi scritti utopici del XVI secolo.

I padri culturali degli attuali contestatori non sono Tommaso Moro, Francesco Bacone e Tommaso Campanella; sono piuttosto i grandi nomi del nichilismo ed esistenzialismo contemporanei: Sartre, Camus, Nietzsche, fautori di filosofie e teorie aventi stretta relazione – come Jonas ha messo in luce – con lo gnosticismo. Filosofie e teorie che postulano anch’esse l’ostilità della realtà nei confronti dell’uomo; un uomo concepito anche qui come angosciato dalla sua solitudine cosmica: «Nessuna filosofia si è occupata meno della natura di quanto abbia fatto l’esistenzialismo, il quale non concede ad essa alcuna dignità».

La conseguenza culturale di queste posizioni è l’abolizione della realtà, perpetrata nel nome di quella che Bennato chiamava “l’isola che non c’è”: se all’uomo non è data possibilità di felicità e realizzazione di sé passando attraverso il reale, non rimane che la fuga, l’evasione, il ripudio delle cose così come sono. E l’alternativa alla presuntuosa denuncia del non-senso di ciò che c’è termina nell’assurdo dell’affermazione della sensatezza di ciò che non c’è: il mondo migliore – questa specie di immaginario “asino con le ali” sognato dalle masse no-global.

Abolizione della realtà significa poi abolizione del valore del presente (e del passato come ciò da cui il presente scaturisce). Non riveste più la minima importanza l’uomo “qui ed ora” (e quindi il suo agire “qui ed ora), ma solo l’uomo “che sarà”, l’uomo futuribile, riscattato e liberato dal giogo dell’inimicizia con tutto ciò che lo circonda. Il presente diviene così la grande pietra d’inciampo, l’ostacolo maggiore al pieno svolgimento delle potenzialità e delle attese umane; e la redenzione si riduce alla mera cancellazione del mondo e dell’uomo, considerati intrinsecamente privi di significato, di meta, di scopo.

Tale atteggiamento culturale è bene descritto da questa osservazione di Teilhard de Chardin: «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame né la peste, è invece quella malattia spirituale, la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».

Infine è più chiaro perché l’utopismo non generi politica, ma semmai il suo contrario, l’anti-politica. L’alternativa radicale all’utopismo di matrice gnostica è – come abbiamo accennato – il realismo, autentico cardine di ciò che può chiamarsi “politica” nel senso classico del termine. Essa presuppone ed esalta la sensatezza e la positività della realtà e dell’uomo “qui ed ora”; dell’uomo valorizza la creatività e l’intraprendenza nel presente.

La politica non fiorisce e non può fiorire all’ombra del nichilismo strisciante, perché non può essere pensata senza la libertà e senza la realtà, cioè senza l’adeguata comprensione ed accettazione di quella che Tommaso d’Aquino chiamava la “gerarchia entis”: un ordine naturale (dell’essere, delle cose, dei valori) fondato da e su un ordine soprannaturale.

La “gerarchia entis” assegna ad ogni realtà – anche la più apparentemente insignificante – una completezza ontologica in sé, incomprensibile però se non in relazione al fine ultimo, ossia quell’Essere in cui essenza ed esistenza coincidono. Ma una volta che le cose partecipano (analogicamente) all’essere, non è più possibile sradicare da esse – come tentano di fare lo gnosticismo e i suoi derivati culturali e politici – quelle dimensioni (coestensive all’essere stesso) che l’Aquinate chiamava “trascendentali”: verità (conoscibilità), bontà (appetibilità) e bellezza.

Se c’è un ordine – ci dice san Tommaso sulla scia di Aristotele – c’è una meta, e c’è una “scala” con cui raggiungerla; e se c’è una meta (e se c’è la “scala”) l’uomo può camminare, costruire, desiderare, amare. E può fare politica. La lotta tra utopismo e realismo è infine la lotta tra kaos e kosmos, tra “nulla” ed “essere”; essa è la radicale alternativa culturale e politica del nostro tempo e di tutti i tempi: è come scegliere tra la donna ideale e la bella donna che ci transita innanzi. Noi realisti scegliamo, ovviamente, la bella donna che c’è e che ci passa davanti.