Intervista a Massimo Introvigne
di Emanuele Pozzolo
Nell’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI fissa tre principi fondamentali relativi alla questione dell’immigrazione, che – sottolinea – è «di gestione complessa», comporta «sfide drammatiche» e non tollera soluzioni sbrigative.
Può illustrarci in sintesi questi tre principi?
Il primo principio è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate». Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili» e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce». Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti «delle società di approdo degli stessi emigrati»: diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità.
Il terzo principio riguarda i diritti delle società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare»: anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione.
Quali sono gli atteggiamenti che maggiormente contrastano con questo orientamento?
Questi principi sono violati da due distinti atteggiamenti e ideologie. Il primo principio è negato dalla xenofobia cioè dalla convinzione che l’altro, lo straniero è per definizione inferiore a chi abita da sempre il Paese di approdo dell’emigrazione e può essere quindi discriminato in quanto straniero. Il secondo e il terzo principio sono violati dall’immigrazionismo – l’espressione è stata coniata dal politologo francese Pierre-André Taguieff e ripresa dal giornalista statunitense Christopher Caldwell – cioè dall’ideologia secondo cui l’immigrazione è sempre e comunque un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare che lo sia è di per sé manifestazione di xenofobia e di razzismo.
Pare che quest’ideologia immigrazionista stia facendo proseliti, non crede?
Senza dubbio. A differenza della xenofobia, l’immigrazionismo è sostenuto da argomenti di notevole impegno intellettuale. Non sarebbe dunque giustificata nell’esame del problema una par condicio nel criticare le due deviazioni – xenofobia e immigrazionismo – dai principi che la dottrina sociale fissa in tema d’immigrazione. Dal punto di vista intellettuale l’immigrazionismo è più insidioso, rischia di essere più persuasivo e dunque richiede una confutazione più articolata. Raramente la xenofobia è sostenuta da una elaborazione culturale, se non si vuole considerare tale il ritorno a vecchie teorie della razza da parte di qualche gruppuscolo neo-nazista.
La xenofobia si combatte, come notava Papa Giovanni Paolo II nel Messaggio per la 89a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2003 – e come ha ribadito recentemente Benedetto XVI, di cui peraltro consiglio di leggere sempre i testi integrali sul sito della Santa Sede e non i riassunti tendenziosi su certi quotidiani – con il richiamo alla figura naturale e cristiana della persona creata, voluta e amata da Dio qualunque siano la sua etnia, la sua lingua e la sua nazionalità.
Ci sono però dei «professionisti dell’anti-razzismo» che manipolano pericolosamente la lotta alla xenofobia sfruttandola per diffondere il relativismo culturale, cioè l’idea che tutte le culture sono uguali e che non esistono culture migliori o peggiori di altre. Questo «eclettismo culturale», che rischia di diffondersi anche a causa della globalizzazione che fa incontrare più spesso e più rapidamente le culture tra loro, sostiene – spiega la Caritas in veritate – che le culture sono «sostanzialmente equivalenti». Questa è un’opinione molto diffusa, ma è pure il cuore stesso del relativismo, che la Chiesa non può accettare.
Quindi è cristianamente lecito sostenere che non tutte le culture hanno lo stesso valore?
Le culture non sono affatto tutte dello stesso valore. Vanno giudicate alla luce della loro capacità di servire il bene comune e i veri diritti della persona, che non tutte le culture rispettano nello stesso modo. Una cultura fondata sulla poligamia e una fondata sul matrimonio monogamico non sono «equivalenti». Alla luce non solo della religione ma anzitutto del diritto naturale, che s’impone a tutti sulla base della ragione, la poligamia è sbagliata e la monogamia è giusta. Sono affermazioni poco «politicamente corrette», ma che vanno assolutamente mantenute se si vogliono difendere i diritti della verità ed evitare di promuovere il relativismo.
Oggi stiamo aprendo le porte delle nostre patrie europee a milioni di persone che appartengono a culture radicalmente diverse dalla nostra e taluni politici parlano addirittura di concessione veloce della cittadinanza a questi migranti. lei che ne pensa?
Accogliere grandi quantità d’immigrati, si dice, è un imperativo morale. Lo affermano politici di sinistra e talora di destra, e anche ecclesiastici. Si afferma che questo è il contributo moralmente obbligatorio dell’Unione Europea – anche come penitenza per i peccati del colonialismo – per risolvere i problemi della fame del mondo e del sottosviluppo. Ma, a prescindere dal fatto che presentare il colonialismo come soltanto dannoso e malvagio è piuttosto unilaterale e storicamente discutibile, non c’è nessuna prova convincente che sia meno costoso per l’Europa e più proficuo per il Terzo Mondo trasferire da noi milioni d’immigrati extra-comunitari piuttosto che destinare le stesse risorse ad aiutarli nei loro Paesi d’origine. Ci sono anzi fondati indizi del contrario.
Chi afferma che molti immigrati sono ottimi candidati alla cittadinanza ci racconta spesso quanti geni dell’informatica, ottime infermiere e bravi medici vengono dai Paesi del Terzo Mondo. Ma non riflette sul costo etico costituito dal fatto che così facendo si sottraggono ai Paesi d’origine proprio quelle élite che sarebbero loro indispensabili per uscire dal sottosviluppo. L’infermiera ugandese che viene in Italia è sottratta all’Uganda, dove servirebbe come il pane per combattere le epidemie.
Un altro argomento molto utilizzato dagli “immigrazionisti” è il diritto d’asilo …
Sì, è un argomento etico molto usato anche in Italia quello che si riferisce al diritto d’asilo. Tuttavia questo diritto è di rado definito in modo rigoroso, e talora è ridotto a una semplice farsa. Chiunque non si trovi bene in un Paese non democratico o sia vittima di gravi sperequazioni economiche avrebbe diritto a chiedere asilo politico: insomma, la stragrande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo avrebbe questo diritto.
Oltre all’argomentazione sul diritto d’asilo orami è luogo comune ritenere l’immigrazione assolutamente doverosa perché si dice che gli immigrati fanno quei lavori che gli italiani non fanno più. e’ vero?
I «lavori che nessun europeo vuole» sono spesso «lavori che nessun europeo vuole se il salario non è attraente». Esistono pochissimi lavori che gli europei si rifiutano di fare «qualunque sia il salario». La verità è un’altra: ci sono datori di lavoro che preferiscono impiegare per certi lavori gli immigrati, i quali costano meno. Questo altera e distorce il mercato del lavoro, e viola i diritti dei cittadini disoccupati che si vedono passare davanti immigrati disposti a lavorare a basso costo. Si assiste al paradosso per cui in alcuni Paesi, mentre aumenta la disoccupazione, aumenta contemporaneamente anche l’immigrazione.
Per amore di equità, si deve peraltro riconoscere che non tutto in questo argomento degli immigrazionisti è falso. Ci sono settori dove effettivamente senza gli immigrati i problemi almeno a breve termine sembrano di difficile soluzione: il caso delle badanti in Italia sembra, qui, pertinente. Ma l’esempio può essere occasione di distinguere fra immigrati extra-comunitari e intra-comunitari.
Su cinquecento milioni di residenti nell’Unione Europea, come accennato, cinquanta milioni sono immigrati. Ma di questi circa venti milioni sono abitanti di un Paese dell’Unione che si sono spostati in un altro. Benché, come sanno gli italiani, questi spostamenti non siano privi di problemi, l’immigrazione intra-comunitaria è di norma più facile da assorbire di quella extra-comunitaria per ragioni giuridiche e anche culturali. Dopo tutto, ci sono molte badanti romene e poche marocchine, cinesi o tunisine.
Molti sostengono che sono gli immigrati che oggi stanno pagando, con i loro contributi, le pensioni degli italiani. e’ una tesi solida?
Le cose non stanno proprio così. Ancora una volta ci si propone una fotografia, mentre per capire abbiamo bisogno di un film. Sarà forse una novità per qualche immigrazionista, ma dovrà farsene una ragione: anche gli immigrati invecchiano e un giorno diventeranno pensionati. In Italia l’immigrazione è un fenomeno relativamente recente e gli emigrati pensionati sono pochi. Ma sono destinati fatalmente ad aumentare. Gli immigrati inoltre di solito hanno lavori poco remunerati, dunque pagano contributi relativamente bassi. Inoltre, fin da subito, sia loro sia i loro figli hanno come chiunque problemi di salute di cui la previdenza sociale si deve fare carico.
Una soluzione a tal proposito, per la verità, ci sarebbe, e qualcuno – non in Italia – l’ha anche seriamente sostenuta, senza neppure farsi dare del nazista: considerare gli immigrati «lavoratori ospiti» e rimandarli a casa quando hanno finito di lavorare, far pagare i contributi oggi ma non versare alcuna pensione domani. La soluzione provocherebbe tensioni tali da non potere essere presa davvero in considerazione da nessuno. E manderebbe anche alla rovina qualunque argomento etico degli immigrazionisti.
Uno dei problemi più delicati riguarda l’immigrazione islamica: è davvero pensabile una convivenza pacifica, nell’Europa di domani, tra gli occidentali e gli islamici?
Ogni tanto qualcuno lo dice esplicitamente: siamo laici, e dobbiamo affrontare il problema immigrazione senza tenere conto della religione, di cui potrà occuparsi al massimo la Chiesa. Ma si tratta di una sciocchezza. Anche il più ateo degli osservatori non può non riconoscere che la religione esiste e ha delle conseguenze sociali. Se a Torino, come avviene periodicamente, migliaia di peruviani portano in processione le loro statue della Madonna la gente applaude e i giornalisti manifestano una benevola curiosità.
Se migliaia di musulmani occupano il suolo pubblico con le loro stuoie e magari mescolano alla preghiera invettive contro gli Stati Uniti e l’Occidente la gente e i media si spaventano. Denunciare queste reazioni come xenofobe non risolve il problema. Certamente – anche tra gli immigrati – ci sono molti islam, e alcuni sono meno lontani dai valori prevalenti in Europa di altri.
Ma se da questa premessa – corretta – si arriva alla conclusione che non esistono caratteristiche specifiche dell’islam si cade nel più completo relativismo, forse di moda in un contesto culturale postmoderno, ma privo di senso. Esistono gli islam ma esiste anche l’islam. Che è difficile assimilare alla cultura europea su punti fondamentali che riguardano i rapporti fra fede e ragione, fra religione e violenza, fra maggioranze e minoranze religiose, fra uomini e donne.
Certo, processi di assimilazione d’immigrati islamici, singoli e gruppi, non sono impossibili. Ma in verità nessuna civiltà nella storia è riuscita a fronteggiare senza esserne distrutta l’arrivo in così poco tempo di così tante persone portatrici di una cultura e di una religione sia radicalmente diverse sia forti. Diverso era il caso dei barbari, che portavano in Europa una cultura debole; o degli irlandesi emigrati nel XIX secolo negli Stati Uniti il cui cattolicesimo era diverso dal protestantesimo maggioritario in America: ma non così radicalmente diverso com’è l’islam rispetto all’ethos europeo contemporaneo.