II prof. Alessandro Catelani, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Siena, smonta con incalzanti argomentazioni la serpeggiante teoria secondo cui una parte della Costituzione sarebbe immodificabile perché accoglierebbe princìpi e valori assoluti. Se poi dovesse essere la Corte Costituzionale a stabilire quali sarebbero tali valori assoluti, verrebbe infranto il principio di sovranità popolare e si aprirebbe la strada a uno Stato teocratico. Non bisogna confondere il diritto naturale con l’ordinamento giuridico, quest’ultimo di per sé flessibile anche a livello costituzionale.
Alessandro Catalani
Alcuni princìpi sarebbero infinitamente superiori alle altre norme di rango costituzionale, e questo impedirebbe al Parlamento e al corpo elettorale di modificarli. La forma repubblicana dello Stato non può essere oggetto di revisione, perché questo è statuito dall’art. 139; ma, accanto a questo principio, altri vi sarebbero altrettanto intangibili, in quanto costituenti valori assoluti. Esisterebbero, secondo questa concezione, due livelli della Costituzione, oppure, se si preferisce, due Costituzioni: una rappresentata dai precetti costituzionali contenuti nella Carta, un’altra costituita da quei princìpi fondamentali che ne sono alla base, e che avrebbero carattere di intangibilità.
Costituzione a due livelli?
Il riferimento a princìpi costituzionali intangibili e immodificabili viene dunque a configurare una categoria di norme fondamentali che, a differenza degli altri precetti costituzionali, non potrebbero essere in alcun modo oggetto di revisione. Dalla Costituzione scritta, che può essere modificata, si distinguerebbe un nucleo centrale di norme, identificate con princìpi morali, le quali avrebbero valore assoluto. Le norme giuridiche appartenenti a questa categoria trarrebbero la loro superiore efficacia giuridica dal fatto di esprimere valori etici, come tali immodificabili.
La presenza della norma morale sarebbe determinante per attribuire ai precetti costituzionali, che con essa si identificano, una superiore efficacia giuridica. Al diritto positivo si contrappone dunque un complesso di princìpi morali che non può essere qualificato che come diritto naturale, identificato con quella parte della Costituzione che tutela diritti inviolabili, o che comunque a quelli si ricollega. All’interno della Carta Costituzionale vi sarebbero norme modificabili e norme superiori non modificabili.
L’accertamento e l’interpretazione di queste ultime sarebbero riservati alla Corte Costituzionale, la quale potrebbe anche disconoscere la volontà popolare, e quindi annullare una riforma costituzionale sulla base di un suo insindacabile giudizio, pur in presenza della procedura costituzionalmente garantita dall’art. 138.
La configurazione di un dualismo normativo a livello costituzionale non è certo nuova: alla Costituzione scritta si contrappose — e si contrappone tuttora — teorizzata dal Mortati, una Costituzione «materiale» non scritta, basata sulla volontà delle forze dominanti, secondo l’impostazione dovuta al sociologismo giuridico di Santi Romano, che privilegia l’effettivo assetto istituzionale dell’ordinamento, al quale si dovrebbe attribuire carattere di giuridicità, anche se in contrasto con il dato normativo della «Costituzione formale».
Alla Costituzione scritta si vuole ora contrapporre una nuova figura di Costituzione, rappresentata da quella parte dei suoi precetti che si identificano con il diritto naturale. Alle forze sociali richiamate dal Mortati, e identificate con il fenomeno giuridico, si va sostituendo il richiamo puro e semplice al diritto naturale, il quale solo rappresenterebbe la Costituzione vera, quel nucleo centrale della stessa avente valore assoluto, e come tale intangibile anche da parte del corpo elettorale.
Tale richiamo al diritto naturale – e per di più in un’epoca che quei valori tende apertamente a disconoscere – ha avuto grande successo, e ha trovato ardenti sostenitori quando il giusnaturalismo sembrava – almeno per gli studiosi di diritto positivo – un retaggio del passato. Attraverso il richiamo alla Costituzione si fa valere una rinverdita concezione giusnaturalistica, che si vuole identificare con l’essenza più intima e genuina della Carta Costituzionale.
Unicità della Costituzione
Si deve osservare, riguardo a questa concezione, che i princìpi generali della Costituzione sono norme generali che si deducono dagli stessi precetti costituzionali, ma che non hanno natura, né formale né contenutistica, diversa dagli altri precetti giuridici che compongono la Costituzione scritta. Sono essi stessi precetti giuridici che hanno un contenuto più ampio delle disposizioni più specifiche dalle quali si deducono, ma che rappresentano disposizioni come tutte le altre che compongono la Carta Costituzionale.
Dal complesso dei precetti costituzionali si deducono in via interpretativa princìpi di carattere generale; ma questi princìpi sono anche essi norme giuridiche costituzionali, che hanno la stessa efficacia formale e giuridica dei singoli precetti, dai quali solo si differenziano perché hanno un contenuto più generale. Nella Costituzione non esistono diversi livelli di efficacia giuridica.
Tutta la Carta Costituzionale ha la medesima efficacia. E i princìpi supremi che legittimamente possono essere chiamati tali non sono che norme più generali, le quali si deducono in via interpretativa dalle più specifiche disposizioni costituzionali vigenti, rispetto alle quali non presentano un livello superiore.
Non esistono due Costituzioni, una rappresentata da norme giuridiche e l’altra da nonne giuridiche che coincidono con precetti morali. La norma morale non ha carattere giuridico, e non può di per sé identificarsi con un precetto costituzionale, né può attribuire a esso un carattere formalmente superiore. Tra le due entità normative, quella giuridica e quella morale, vi è un abisso incolmabile. La Costituzione è una e una sola, ed è quella costituita da un complesso di norme giuridiche. Ed è questa che la Corte Costituzionale è chiamata ad applicare.
La competenza della Corte Costituzionale
Affermando che esiste un duplice livello di princìpi costituzionali, dei quali uno sarebbe intoccabile da parte della collettività, si ammette anche che esistono, sugli atti legislativi, due distinte competenze dalla Corte Costituzionale, l’una all’altra contrapponentisi, ed estremamente diversificate: la prima sarebbe quella avente a oggetto il giudizio di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge, che è prevista dall’art. 134 della Costituzione, mentre l’altra, non contemplata dalla Carta Costituzionale, avrebbe a oggetto la stessa legge costituzionale approvata dal corpo elettorale secondo la procedura di cui all’art. 138, e si tradurrebbe nella valutazione della congruità della legge stessa rispetto a superiori e intangibili princìpi morali, rispetto a quei princìpi morali che la Corte ritenga di individuare nei precetti della Costituzione.
Una simile costruzione appare del tutto inattendibile, perché si traduce nel configurare una competenza aggiuntiva della Corte Costituzionale, che ne snatura completamente i caratteri di organo giudicante delle questioni di costituzionalità, quale risulta dai precetti costituzionali: la Corte Costituzionale verrebbe destinata a un compito al quale non è istituzionalmente preposta, quale è quello di interpretare, anziché norme giuridiche, princìpi morali.
Da garante della legalità, la Corte Costituzionale sarebbe trasformata in organo superiore alla legge, e in grado di giudicare la volontà collettiva secondo i princìpi del bene e del male. La competenza della Corte Costituzionale è fissata dall’ari. 134, secondo il quale «La Corte Costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni».
La competenza della Corte riguarda gli atti aventi efficacia legislativa, sia statali sia regionali, non la stessa Costituzione, la cui eventuale modifica è rimessa alla volontà popolare, che deve esprimerla secondo le modalità stabilite dall’alt. 138.
La Costituzione prevede con chiarezza la procedura di revisione delle proprie norme e di approvazione di nuove leggi costituzionali nell’ari. 138, rimettendo ogni decisione al riguardo alla volontà popolare, se pure attraverso una procedura particolarmente aggravata, che ha lo scopo di garantire la rigidità del testo costituzionale e di evitare modifiche che non siano largamente condivise, ma siano effettuate da maggioranze occasionali.
E introduce come unica eccezione a tale normativa il divieto di cambiare il regime repubblicano dello Stato – evidentemente per la presenza di un preciso referendum istituzionale antecedente alla stessa Costituzione, che non si vuole ulteriormente ripetere.
La Costituzione ha ammesso la modifica delle sue disposizioni con il solo limite del divieto di introdurre nuovamente la monarchia. L’art. 1 della Costituzione ha statuito che: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (2 comma). Le norme costituzionali che disciplinano le modifiche della Carta Costituzionale sono contenute nell’art. 138, al quale l’art. 1 espressamente rinvia. Il principio di fondo, al quale si ispira la nostra Carta Costituzionale, è quello, enunciato nel 2 comma dell’ari. 1, della sovranità popolare. Questa è l’essenza della democrazia, che è alla base della tutela di ogni diritto di libertà; e tale principio verrebbe violato qualora si trasferisse il potere di approvazione delle leggi costituzionali dal corpo elettorale alla stessa Corte Costituzionale.
Ammettere un sindacato della Corte sugli stessi precetti costituzionali significherebbe trasferire il potere di decidere su tali precetti dalla volontà popolare alla stessa Corte Costituzionale, la quale si affogherebbe un potere che la Costituzione non le conferisce, e che pertanto non le compete.
La Corte, come organo garante della Carta Costituzionale, ha il compito di applicare e di interpretare la Costituzione, non di crearla o di modificarla. Un sindacato della volontà popolare è ammesso da parte della Corte, ma solo nel giudizio di costituzionalità delle leggi, in quanto esercita allora le sue funzioni di garante e di custode della Costituzione. Ma l’elaborazione di quest’ultima, come ogni sua modifica, è invece affidata al corpo elettorale.
Violazione del principio di legalità
Qualora una riforma della Costituzione fosse rimessa, anziché al corpo elettorale, al giudizio insindacabile della Corte, necessariamente una dichiarazione di inammissibilità verrebbe a identificarsi con la volontà politica dell’opposizione, rappresentante la minoranza della popolazione, la quale sarebbe in grado di imporre la propria volontà alla maggioranza, in aperto contrasto con la democraticità dell’ordinamento, che la Costituzione garantisce nell’art. 1, e che costituisce il cardine delle nostre libere istituzioni.
Un’inedita concezione giusnaturalistica della Costituzione consentirebbe di contrastare ogni cambiamento che non sia gradito e accetto a coloro che di questi valori e idealità affermano di essere portatori. Spacciata per diritto naturale, la volontà politica di una minoranza può stravolgere le libere istituzioni, trasformandole in uno Stato nel quale domina la volontà politica non della maggioranza, ma di una minoranza. Un legge costituzionale, che è la massima espressione della volontà popolare, verrebbe condizionata da una fazione politica minoritaria.
Verrebbe in tal modo violato il principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto. Lo Stato di diritto si basa sulla legge per tutelare i diritti umani, in quanto la legge è espressione della sovranità popolare, e non dell’arbitrio del potere pubblico. Venendo meno questo presupposto, verrebbe meno il fondamento stesso dello Stato di diritto, e la conseguente tutela dei diritti umani che su di essi si basa.
Potere pubblico & sovranità popolare
L’applicazione della norma morale qualora avvenisse – se così si può dire – allo stato puro, sarebbe propria dello Stato teocratico, che di fatto attribuisce ai sacerdoti dell’assoluto il potere arbitrario di dominare la collettività.
La maggiore difficoltà dello Stato di diritto è quella di rendere concretamente vigenti ed effettive, applicandole correttamente, le norme giuridiche, in quanto vi è il pericolo che gli organi giudicanti si sostituiscano al legislatore, disconoscendole o creandone arbitrariamente di nuove. Questa tendenza, che finora ha riguardato la Magistratura, verrebbe a compiere – se così si può dire — un salto di qualità, perché investirebbe la stessa Corte Costituzionale, la quale sarebbe chiamata a sostituirsi al popolo nell’elaborazione dei precetti costituzionali, giudicando quali leggi costituzionali siano ammissibili e quali no.
Qualora alla Corte Costituzionale spettasse non soltanto il compito di garantire l’applicazione della Costituzione, ma anche di valutare princìpi morali in maniera del tutto svincolata dal diritto positivo, la loro valutazione sarebbe lasciata all’arbitrio di un organo tecnico, al quale la Costituzione espressamente lo sottrae, sulla base dei princìpi di libertà e di democrazia, ai quali il nostro ordinamento si ispira.
Il diritto positivo è sempre opera umana, e anche i diritti inviolabili sono norme positive; per cui è impossibile tutelarli attraverso il diniego della sovranità popolare. Il richiamo al diritto naturale, quando venga prospettato quale entità superiore al diritto positivo, e in contrapposizione a esso, lungi dall’essere espressione -come avrebbe la pretesa – di rigore morale, costituisce invece lo strumento che può scardinare le fondamenta dello Stato di diritto, aprendo la porta alla costruzione di uno Stato totalitario.
La volontà popolare non sarebbe – così come viene sempre più spesso definita secondo questa concezione – che «la forza del numero» – espressione dispregiativa che riecheggia i «ludi cartacei» di mussoliniana memoria -, alla quale si vorrebbero contrapporre i princìpi giusnaturalistici, quali dati infinitamente superiori, che giustificherebbero il prevalere della volontà della minoranza su quella della maggioranza, secondo l’impostazione tipica dello Stato assoluto.
Se pretende di infrangere il principio di legalità, il giusnaturalismo, lungi dall’avere una funzione garantista, svolge il compito opposto di legittimazione di qualunque sopruso. Tutte le leggi – e in particolare, in primo luogo, le norme costituzionali — devono essere rispettate e non violate in nome di princìpi che si assumono superiori. Se si disconoscesse il principio di legalità, il governo della collettività non sarebbe rimesso alla volontà popolare, ma alla legge del più forte.
Sempre le rivoluzioni e gli Stati totalitari sono stati realizzati con la violenza da persone che si reputavano superiori alle altre, in quanto portatoci di valori assoluti. Il governo diventa totalitario quando disconosce, sulla base di una certa ideologia, il volere della collettività. Ma una concezione del genere disconoscerebbe i diritti inviolabili, e sarebbe all’antitesi del diritto naturale correttamente inteso.
Nel tentativo di dare un fondamento di diritto positivo a questa opinione si è anche affermato che l’art. 139, che vieta l’introduzione dell’istituto monarchico nel nostro ordinamento, garantisce non solo la Repubblica, ma anche tutti quei valori morali che sono a essa connaturati, i quali, in quanto tali, diventerebbero, congiuntamente alla forma repubblicana, ugualmente intoccabili.
Ma un’affermazione del genere non cambia minimamente i termini del problema, perché i princìpi morali sono sempre intoccabili, e non lo diventano certo solo per il richiamo dell’ari. 139. Si riafferma invece in pieno, secondo quella concezione, quel concetto giusnaturalistico di Costituzione che si contrappone alla Carta Costituzionale come testo scritto, e che appare del tutto inaccettabile.
Neppure si potrebbe intendere il riferimento ai princìpi morali garantiti dall’art. 139 come riguardante solo una parte dei valori etici fatti propri dalla Costituzione, quali sono quelli che attengono alla forma repubblicana dello Stato. I princìpi morali relativi ai rapporti intersoggettivi, nei quali si traduce il diritto naturale, devono essere necessariamente seguiti da tutte le norme costituzionali in quanto hanno, come tali, valore assoluto; onde una loro interpretazione riduttiva sarebbe doppiamente inaccettabile.
Come attuare il diritto naturale?
A tali considerazioni si potrebbe obiettare che l’applicazione dei princìpi morali è infinitamente superiore e assai più valida di quella che ha a oggetto il diritto positivo. Ma una tale obiezione non terrebbe conto della reale natura del diritto naturale. Il diritto naturale è una realtà ideale, costituita da princìpi morali che hanno a oggetto i rapporti intersoggettivi, e che hanno, come tali, valore assoluto; e che non sono invece da identificare con il comportamento umano nella sua concretezza e nella sua tangibilità.
La difficoltà del diritto naturale è quella della sua pratica e concreta attuazione. Giudicando secondo il diritto naturale ciascuno dovrebbe agire secondo coscienza; ma la coscienza umana non può essere un metro assoluto del comportamento da tenere. Nell’uomo si rinvengono sentimenti e inclinazioni di ogni tipo, nell’ambito dei quali ciascuno deve scegliere quelli che tendono al bene anziché al male, secondo una valutazione che non può essere effettuata che alla luce di valori spirituali e soprannaturali.
Non è vero che l’uomo sia per natura inclinato al bene, e che per fare il bene sia sufficiente seguire gli impulsi naturali; nella natura umana si rinvengono inclinazioni rivolte sia al bene sia al male, e la scelta fra le une e le altre è determinata da princìpi etici costruiti sulla base di una metafisica, e non di una realtà materiale, quale è la natura.
Sulla base di quello che accade in rerum natura si giustifica qualunque comportamento. E se si è elaborata una morale, ciò è accaduto non perché di per sé abbia valore il dato materiale dei comportamenti umani comunque essi siano, bensì perché si sono valorizzati princìpi morali, quali risultano ai sensi di una metafisica, che si accoglie e si ritiene valida. Un giudizio rimesso integralmente alla coscienza di chi lo compie non da nessuna garanzia di obiettività e di imparzialità.
La norma morale, in quanto promanante dalla Divinità, non è applicabile in via immediata e diretta nei rapporti tra i consociati: essa non è applicabile – se così si può dire – allo stato puro, perché la sua attuazione che pretenderebbe essere opera divina è invece opera umana, con tutti i limiti e le manchevolezze che le sono necessariamente connaturate. Il giudizio basato sulla coscienza del singolo non può essere espressione di valori assoluti.
Qualora si pretenda, non tenendo conto del diritto positivo, di fare un passo avanti per realizzare finalmente la giustizia, non ci si rende conto che ogni valutazione, se è svincolata da schemi normativi precostituiti, non solo non è perfetta, come pretenderebbe di essere, ma è anche, rispetto all’altra, infinitamente più arbitraria.
Un totale relativismo si riscontra sia nel sentimento sia nella ragione. Non solo il richiamo al sentimento, ma anche alla ragione non da alcuna certezza: l’uso della logica può condurre a qualunque risultato, e il giudizio di ciascuno è un dato estremamente soggettivo. Ogni ragionamento può essere corretto come può non esserlo; e non è sufficiente il richiamo alla ragione in sé considerata a condurre a risultati sicuri.
Svincolare una decisione da una fattispecie normativa, e affidarla esclusivamente alla coscienza di chi giudica, significa facilitare decisioni arbitrarie e scorrette. Queste ultime sono sempre possibili, anche in presenza di una disciplina normativa valida e perfezionata; ma lo svincolare una decisione dalla norma positiva indubbiamente facilita ogni eventuale abuso, invece di evitarlo.
Flessibilità & contingenza dei precetti costituzionali
Ogni modifica della Costituzione, se rimessa unicamente alla coscienza di un organo giudicante, diventerebbe dunque arbitraria. D’altra parte, la necessità di apportare modifiche alla Carta Costituzionale, secondo la procedura prescritta dalla stessa Costituzione nell’art. 138, appare ineludibile.
La società si evolve con il passare del tempo, le sue esigenze cambiano, e i suoi presupposti normativi richiedono di essere oggetto di modifiche in relazione alle necessità peculiari della collettività, che in essa si manifestano. Bisogna sempre distinguere tra valori assoluti e realtà concreta delle norme che, anche se a livello costituzionale, sono destinate a variare.
Le Costituzioni, pur essendo tutte eticamente valide se si ispirano ai princìpi di libertà e democrazia, e a ogni altro valore morale che abbia a oggetto i rapporti intersoggettivi, sono necessariamente diversificate nei singoli ordinamenti, e devono essere adattate alle distinte esigenze che, all’interno delle varie collettività, si manifestano.
Non bisogna confondere l’assolutezza e l’intangibilità dei princìpi morali con le norme positive che a essi danno attuazione, perché si tratta di entità radicalmente diverse: i princìpi morali sono immodificabili, mentre ogni norma giuridica positiva, anche se eticamente valida, è necessariamente contingente e può essere cambiata.
Le norme morali sono eterne, mentre quelle positive, quali sono anche le norme costituzionali, non solo possono essere perfezionate da un punto di vista tecnico, e aggiornate – per non richiamare, a titolo di esempio, che alcune situazioni di assoluta evidenza, manca, nella Carta Costituzionale, a proposito della libertà di manifestazione del pensiero, ogni riferimento al servizio televisivo, perché all’epoca in cui è stata elaborata la Costituzione la televisione non esisteva, così come non esistono norme sulla tutela della privacy e su quella dei consumatori, che sarebbero utili e necessarie -, ma possono essere anche modificate perché sono un fatto contingente, che può cambiare a seconda delle mutate esigenze della collettività.
Sarebbe un grave errore ritenere che la tutela dei diritti umani si debba realizzare nell’uniformità. Ogni tutela di tali diritti, per essere correttamente attuata, deve tenere conto non solo della caratteristiche culturali e delle concrete istanze di ciascun popolo, ma anche dell’interesse collettivo quale cambia nel corso del tempo, e quale può essere correttamente valutato solo dagli organi esponenziali di una società organizzata. La tutela dei diritti umani deve avvenire con modalità che non sono per loro natura fisse e immutabili, ma che sono destinate a variare nel tempo e nello spazio.
La tutela dei diritti umani pur dovendo essere, all’interno di ogni Stato, piena e incondizionata, non solo non può, ma neppure deve essere uguale per ogni ordinamento. Se le norme morali sono universalmente valide, il diritto positivo necessariamente varia a seconda delle differenti caratteristiche giuridiche di ciascuna collettività organizzata; le quali a loro volta sono consequenziali alle diversità culturali di ciascuna popolazione, così come alle diverse esigenze di quest’ultima, quali si manifestano nel corso del tempo.
La diversità di regolamentazione giuridica non viola i diritti umani, quando le nonne adottate siano moralmente valide, ma si traduce in una flessibilità che deve ritenersi connaturata alla elaborazione dei precetti che si rinvengono in ogni Carta Costituzionale. La tutela dei diritti umani avviene attraverso il rispetto della legalità. E il rispetto della legalità si identifica con quello del diritto positivo proprio di ciascun ordinamento giuridico, così come appare nella sua realtà diversificata in rapporto alle esigenze di ciascuna collettività della quale lo Stato, al quale il cittadino appartiene, abbia carattere rappresentativo.
La corrispondenza rispetto ai precetti morali ammette una pluralità di soluzioni; e la flessibilità e la contingenza non sono concetti riduttivi, ma requisiti indispensabili perché vengano emesse leggi giuste, che corrispondano a criteri di giustizia sostanziale.