Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Newsletter n.723
del 8 settembre 2016
di Stefano Fontana
Le difficoltà della giunta Raggi emerse in questi giorni e, più in generale, la vicenda politica del Movimento 5 Stelle, sollecitano una interpretazione non solo politica ma anche “transpolitica”, come direbbe Del Noce, che è poi il modo migliore per capire a fondo anche la politica, che è sempre qualcosa di più di se stessa.
I Grillini hanno sempre vantato una superiorità morale. I voti li hanno chiesti sì per le loro proposte amministrative o di governo, ma soprattutto in quanto persone oneste e trasparenti. Si sono sempre contrapposti alla casta, o al palazzo, o al sistema, o agli altri partiti intesi come “altro” da sé. Il cambiamento radicale della politica italiana che essi proponevano aveva una forte caratura morale.
Questa pretesa di una superiorità morale non è certamente nuova nella storia ideologica e politica del nostro Paese. Essa viene da lontano. Il comunismo italiano fece propria questa posizione, rifacendosi addirittura ai padri fondatori, Karl Marx e Antonio Gramsci. Per il primo, il partito comunista era espressione dell’unica classe che non combattesse per degli interessi di classe, e quindi particolari, ma per gli interessi dell’umanità.
Suo scopo, infatti, non sarebbe stato di creare un nuovo dominio di classe, ma di abolire le classi, realizzando l’essenza dell’uomo inteso come essere generico. Da qui la sua superiorità morale. Antonio Gramsci sosteneva che il comunismo era una “superiore forma di civiltà” che ricapitolava in sé tutto il processo storico della modernità. Le classi popolari italiane dovevano essere portate a questa superiore civiltà e il Partito – il “grande intellettuale” – aveva questo compito morale di emancipazione storica e di compimento.
La stessa idea di superiorità morale proveniva dal filone di pensiero politico di Piero Gobetti, che Gramsci conobbe a Torino negli anni dell’Ordine Nuovo. Da lui trae ispirazione il rigorismo morale laico del Partito d’Azione che, insieme al Partito Comunista, impresse alla Resistenza questa idea della superiorità morale che ebbe un momento particolare nella individuazione del Fascismo come il male supremo, come hanno messo in evidenza Furet, Del Noce e De Felice.
Tutto ciò fece sì che la sinistra italiana in generale coltivasse una specie di disprezzo morale per le altre forze politiche, accusate di essere sostanzialmente inferiori. Ancora all’epoca di Enrico Berlinguer questa presunzione era molto forte, rimanendo tale perfino nel 1991 con la segreteria di Achille Occhetto e la nascita del PdS. Si era alla vigilia di Tangentopoli e l’inchiesta mani pulite inspiegabilmente (o in modo spiegabilissimo secondo altri) avrebbe lambito, ma mai colpito il maggior partito della Sinistra, alimentando così ulteriormente il mito della superiorità genetica. La Sinistra italiana pensò sempre di essere una razza superiore, una parte politica illuminata, una fase eccellente nella storia dell’umanità. Per questo fu sempre anche sofisticata, intellettualistica e, più che borghese, aristocratica.
In forme minori, più pittoresche e da avanspettacolo, questo atteggiamento lo abbiamo poi ritrovato anche in Antonio di Pietro e nella sua “Italia dei Valori”, prima ancora ne “La Rete” di Leoluca Orlando o, dopo, nelle proposte del sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Allargandosi, ogni principio perde di intensità e l’idea di rappresentare una schiatta moralmente superiore in politica ora è approdato a Di Battista, Di Maio e alla Raggi.
Costoro sono epigoni forse inconsapevoli e certamente senza merito di un percorso a suo modo grande, anche se perverso. Il primo ad affermare che il cittadino era buono e l’apparato politico cattivo – come oggi dicono i Grillini – era stato Rousseau. Per lui l’uomo era nato buono e la società lo aveva corrotto. Oggi i Grillini dicono che i cittadini sono buoni e la casta li corrompe, che la società civile è innocente e il palazzo colpevole, che gli uomini sono naturalmente onesti e la politica li fa disonesti. Essi infatti hanno sempre chiesto il voto non perché fosse provato che sapessero fare qualcosa, dato che non avevano fatto ancora niente, ma per questa superiore purezza morale.
Siccome il male non starebbe nell’uomo ma nelle istituzioni, i buoni avrebbero dovuto cambiare le istituzioni in modo tale che tutti gli uomini potessero essere buoni d’ufficio, senza più combattere contro se stessi per esserlo. Anche a Roma, nel suo piccolo, il progetto era questo.
Una storia vecchia, quindi, che ogni tanto ripropone il proprio fallimento, perché la rogna è prima di tutto nel cuore dell’uomo. Rousseau e i Grillini – mi si perdoni l’accostamento temerario – negano il peccato originale e quindi pensano che il male venga sempre dal di fuori e mai dal di dentro. A dire il vero questo è l’errore di tutta la modernità, che assomiglia molto al rinnovamento del peccato dei nostri Progenitori. Negare il peccato originale pensando che l’uomo sia naturalmente buono significa infatti rinnovarlo, peccando appunto di nuovo di superbia.
Per questi motivi ho sempre pensato che non avrei mai dato il mio voto a chi me lo chiedesse presentandosi come “migliore”. Avrei visto in lui uno Gnostico, uno che pensa o di essere già salvo o di potersi salvare da solo. Uno che pensa di potersi dare ciò che non ha. Non che io ami votare i disonesti, ma so che l’onestà non garantisce la capacità politica. Inoltre chi vanta una propria superiorità morale alla fine rende inutile la politica. In un mondo di buoni e di santi come i Grillini la politica non serve più. Essa ha bisogno della morale, ma la morale ha bisogno che l’uomo lotti prima di tutto con se stesso. I buoni per natura o per vocazione pensano di non doverlo fare, così la politica rimane quello che è. Fino a che un nuovo partito non vanterà una nuova superiorità morale.