La procreazione è finita

Pistoia Palazzo dei Vescovi  5 Novembre 2010

LA PROCREAZIONE E’ FINITA: DALLA LEGGE 194 ALL’ABORTO “FAI-DA-TE”

procreaz

(conferenza organizzata da: Alleanza Cattolica e Associazione S. Ignazio di Loyola)

intervento di Aldo Ciappi

(presidente di Scienza&Vita Livorno-Pisa)

1. Breve storia dell’aborto.

Nella storia giuridica del nostro paese, come di tutti gli altri paesi con tradizioni cristiane (ma è così anche per gli ordinamenti dei paesi islamici), il procurato aborto è sempre stato considerato un fatto illecito penalmente sanzionato, in quanto azione consapevolmente diretta volontariamente a sopprimere la vita di un essere umano nell’utero materno.

Nell’antichità e in alcune culture pagane l’uccisione dei bambini, anche nel grembo materno, era spesso legata a pratiche magiche. Rituali di questo tipo sopravvivono ancora oggi in ampie aree del continente africano ma anche a Cuba (riti “woodoo”). L’aborto, tuttavia, veniva talvolta praticato, sebbene in violazione delle leggi civili e religiose, anche in paesi civilizzati e convertiti al cristianesimo da parte di soggetti, per lo più donne, poste ai margini della società con l’impiego di sostanze venefiche o allucinogene, oppure con strumenti spesso letali per chi vi si sottoponeva (cfr. Francesco Angoli, Storia dell’aborto nel mondo” Ed. Segno, Tavagnacco (UD) 2004, p. 8 e ss.).

L’aborto viene per la prima volta legalizzato nel 1917 (insieme all’introduzione del divorzio) con l’avvento del comunismo in Russia, in perfetta linea con l’ utopia marxista da cui esso promanava secondo cui la famiglia, così come la proprietà, il diritto ecc, è una mera costruzione del capitalismo borghese che è di ostacolo alla creazione di una società senza classi e senza divisioni di ruoli per cui deve essere sradicata per far posto alle libere unioni (cfr. Marx, Opere Filos. Giovanili, cit. in P.Giorgio Loiacono S.J., “Il marxismo”, Ed. Domin.Italiane, Napoli, 1967).

Dell’U.R.S.S. si ricorderanno, oltre ai milioni di morti per fame, per le “purghe” e nei famigerati “Gulag”,  anche i milioni di bambini lasciati a marcire negli orfanatrofi di Stato.

Nel 1937 l’aborto viene introdotto, e anche qui non è un caso, nella Germania nazionalsocialista come frutto coerente della politica eugenetica portata avanti con determinazione da Hitler e dal suo entourage fino alle sue estreme conseguenze a tutti note.

Nel dopoguerra l’aborto viene legalizzato in tutti i paesi della “cortina di ferro” in cui l’U.R.S.S. impone manu militari il suo “modello”.

Anche la Cina comunista si adegua nel 1957 e la sua politica di ossessiva “pianificazione” familiare la porterà, con una legge del 1979, a costringere all’aborto le donne in attesa del secondo figlio. Di questa politica hanno fatto le spese milioni di bambine, cui è stato negato di nascere, evidentemente ritenute meno utili alla società cinese (lo stesso fenomeno accade, peraltro, anche in India, altro paese soggetto a una dura pianificazione familiare); uno squilibrio, questo, che, nonostante l’attuale situazione di forte crescita economica di quel paese, non mancherà di farsi presto sentire (per conoscere in dettaglio le crudeltà praticate sulle donne incinte dal regime cinese si rinvia ai volumi: “Il genocidio censurato” di Antonio Socci, Piemme, Casale Monf. 2006, p. 18 e ss., e “Missione Cina, viaggio nell’impero tra mercato e repressione”, di Bernardo Cervelliera, Ancora, Milano, 2003).

Ad aprire la lista dei paesi europei liberi, nel 1967, è stata l’Inghilterra, non a caso la patria di Aldous Huxley (figlio di un famoso biologo darwiniano e fratello di Julian, primo Direttore Generale dell’Unesco e instancabile fautore di politiche pianificazione e pro-aborto ancora oggi predominanti in tale organizzazione), autore de “Brave New World – Il Mondo Nuovo”, agghiacciante e profetico romanzo tradotto in tutto il mondo. Infatti, il R.U. è, oggi, la nazione  all’avanguardia nelle più spregiudicate tecniche di ricerca e sperimentazione sugli esseri umani nella primissima fase di vita: quella embrionale (per una disamina aggiornata cfr. “Un anno alla finestra” di Gianfranco Amato, Fede & Cultura, Verona, 2010).

Seguono la Francia e la Svezia nel 1974 (Legge Veil), l’Olanda, nel 1981, molto più tardi la Germania (1992), uno degli ultimi arrivati, il Portogallo nel 2007. Un recentissimo balzo in avanti, nella classifica della “fabbrica di angeli”, l’ha fatto la Spagna del socialista Zapatero, dove oggi è possibile abortire, senza alcuna restrizione e per motivi eugenetici, fino alla 22ma settimana e anche per le minorenni. In Europa l’aborto resta ancora vietato o consentito con forti limitazioni in Polonia, Irlanda, Malta.

Al 1973, risale l’introduzione dell’aborto degli U.S.A. con il famoso caso “Roe v. Vade”, fortemente pompato dai potenti mezzi di comunicazione schierati per l’aborto e grazie anche a ricostruzioni fattuali alterate che condizionarono il verdetto della Corte Suprema, come ha riconosciuto la Sig.ra Norma Mc Corvey, protagonista della vicenda, ex femminista oggi pentita e passata nelle file dei movimenti pro life americani, la quale all’epoca sostenne falsamente di essere stata violentata (cfr. Corriere della Sera 19.05.20909, p. 19).

Negli U.S.A., fino alla legge voluta dal Presidente G.W. Bush ed introdotta negli U.S.A. nel 2003, era ammesso il cd. “aborto a nascita parziale”, consistente nell’uccisione del bambino in fase avanzata di vita intrauterina mentre è estratto dall’utero della madre mediante aspirazione chirurgica del liquido cerebrale.

2. Lobbies neomalthusiane e antinataliste

Gli U.S.A., dopo la sentenza della Suprema Corte che autorizzò in tutti gli stati federali l’aboprto, diventarono sempre più il motore del movimento abortista internazionale attraverso potenti associazioni“onlus”, a carattere mondialista (come la Fondazione Rockfeller, l’ A.B.C.L. – American Birth Control League dell’attivista femminista Margaret Sander, che confluirà nell’ I.P.P.F – International Parenthood Planning Family), cui devono agiungersi alcune agenzie ONU (quali l’U.N.F.P.A. – United Nation Family Planning Aids, l’U.N.I.C.E.F.),  che a tutt’oggi promuovono le politiche di pianificazione e sterilizzazione di massa, con particolare riguardo nei paesi in via di sviluppo dove gli aiuti economici vengono condizionati alla loro adozione da parte dei rispettivi governi (anche l’Unione Europea, persino sotto la presidenza del cattolico Romano Prodi, adotta e finanzia politiche di pianificazione demografica verso i paesi del terzo mondo; cfr. Eugenia Roccella-Lucetta Scaraffia, “Contro il Cristianesimo-l’O.N.U. e l’U.E. come nuova ideologia”, p. 95 e ss., Piemme, Milano 2005).

La diffusione della mentalità antinatalista e abortista, oltre che ad un femminismo ideologizzato di matrice comunista e radicale, resta legata anche all’azione capillare e costante di alcuni influenti circoli “neomalthusiani” (dal Rev. Thomas Robert Malthus – 1776-1834) di cui merita far menzione almeno il “Club di Roma”, che nel 1972 presentò un famoso studio (“The limits of Growth”) basato su una simulazione al computer che ebbe una risonanza mondiale, benché fosse stato scientificamente stroncato dal pur schierato, in senso “progressista”, The Economist (cfr. Colin Clarks “Il mito dell’esplosione demografica”, p. 41-42, Ares, Milano 1973).

Questi circoli, i cui componenti erano infiltrati nei gangli del potere, sono riusciti pian piano a creare nell’opinione pubblica occidentale una vera e propria psicosi della “bomba demografica”, giungendo ad influenzare, prima nei paesi avanzati e poi in quelli sottosviluppati, decisioni politiche in materia familiare in senso fortemente antinatalista e di controllo demografico.

In questo pesante clima culturale, sostenuto da questi centri di potere, dalla stampa, dai radicali di Pannella, Bonino, Rutelli & c., grazie ad una propaganda ossessiva fondata su dati enormemente gonfiati sull’aborto clandestino e sulla mortalità femminile, e grazie anche ad un atteggiamento quantomeno remissivo di una parte non marginale del mondo politico cattolico (cfr. F. Angoli, op. cit. 22 e ss.), l’aborto approda anche in Italia con la legge n. 194 del 22 maggio 1978, intitolata: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” e che porta la firma in calce di tre politici democristiani (Giovanni Leone, Presidente della Repubblica, Giulio Andreotti Presidente del Consiglio e Francesco Paolo Bonifacio Ministro di Grazia e Giustizia).

3. L’aborto in Italia: le “premesse” della Corte Costituzionale e la L. 194/1978

L’aborto procurato, in Italia, era sanzionato dalle norme di cui al titolo X° (“Dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”) del libro II° del codice penale, risalente al 1930, espressamente abrogate dall’art. 22 della L. 194/78.

La giurisprudenza, ricorrendo ampiamente all’istituto dello “stato di necessità”, dichiarava tuttavia, non senza una talvolta eccessiva “larghezza di vedute”, non punibile l’ aborto quando esso era ritenuto necessario per salvare la vita o la salute della madre in grave pericolo.

Nel 1975 la Corte Costituzionale, presieduta dallo stesso Prof. Bonifacio, che diventerà più tardi Ministro della Giustizia, aveva preparato il terreno con un’ importante sentenza (la n. 27 del 18.02.1975) nella quale, pur confermando il fondamento costituzionale della tutela del concepito ai sensi dell’art. 2 (diritti inviolabili dell’uomo…), si affermava che “… non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”, così aprendo alla possibilità che la gravidanza venisse interrotta ogni volta che la sua prosecuzione “implichi il danno o pericolo grave, medicalmente accertato … e non altrimenti evitabile, per la salute della donna”, con la conseguente dilatazione della nozione di “stato di necessità” (non più legato alla rigorosa condizione dell’attualità del pericolo ed al presupposto di un’equivalenza delle posizioni giuridiche da tutelarsi) come causa di non punibilità dell’aborto (cfr. Alfredo Mantovano, “L’aborto nell’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana”, in “Voci per un dizionario del pensiero forte”, a cura di Giovanni Cantoni, p. 15 e ss., ed. Cristianità, 1997).

La legge 194 del 28.ì maggio 1978, sotto l’acronimo politicamente corretto di “I.V.G.” (“interruzione volontaria della gravidanza”), disciplina l’aborto suddividendo “in modo del tutto arbitrario la vita intrauterina in tre periodi e fissando per ciascuno di essi una differente disciplina e avendo come esclusivo criterio di riferimento i rischi per la salute della donna”  (cfr. Mantovano, op. cit. p. 16).

Nei primi 90 gg. di gestazione (art. 4 e 5) l’aborto, di fatto, è ammesso senza limiti: basta la semplice dichiarazione della donna raccolta dal consultorio, dalla struttura sanitaria o dallo stesso medico di fiducia, di voler interrompere la gravidanza in atto per una qualsiasi ragione, oggettiva o soggettiva, che implichi un serio pericolo” – che nessuno ha mai accertato e che, probabilmente, nessuno potrebbe mai accertare, data l’assoluta genericità dell’aggettivo associabile a qualunque interpretazione soggettiva; cfr. Massimo Ermini, “Regole di Bioetica”, Plus, Pisa, 2005, p. 135 e ss. – per la propria salute fisica o psichica affinché la richiesta sia senz’altro accolta.

Nel secondo periodo (tra il quarto mese di gravidanza e la possibilità di vita autonoma del feto) è consentito l’aborto cd. “terapeutico”, inteso in un senso molto lato, ovvero per motivi legati alla salute anche psichica della donna che potrebbe venir  messa in pericolo, per esempio, dalla notizia di un’eventuale malformazione del “feto”.

Nel terzo periodo, che va dalla possibilità di vita autonoma alla nascita, l’aborto è consentito solo se è in pericolo la vita della donna.

Questa legge si riproponeva (demagogicamente) “di azzerare gli aborti terapeutici, di ridurre gli aborti spontanei, di assistere quelli clandestini (…) di aiutare la maternità e tutelare la vita umana sin dall’inizio” (cfr. la relazione alla legge dall’On. Giovanni Berlinguer), offrendo con i consultori ogni tipo di aiuto atto “a rimuovere le cause che la potrebbero indurre la donna alla interruzione della gravidanza… (v. art. 2, lett. d).

Sappiamo bene che, nella prassi corrente, ad oltre 30 anni dalla sua entrata in vigore, questa parte della legge non solo non è mai stata applicata ma non è stata neppure presa in considerazione dalle strutture pubbliche. I C.A.V., come tutti sanno, sono lasciati fuori dai consultori perché potrebbero influenzare la decisione della donna (sic!)

Tralasciando quelli clandestini che, a migliaia ogni anno, continuano a praticarsi nell’indifferenza generale in rispettabili cliniche private frequentate dalle signore V.I.P. che, ovviamente, preferiscono mantenere l’anonimato, le statistiche ufficiali annualmente aggiornate fornite dal Ministero della Salute parlano di oltre 5.000.000 aborti: un popolo che manca all’appello sparito nel nulla, o meglio nelle discariche dei rifiuti speciali, all’origine del collasso demografico di questo paese.

L’applicazione giurisprudenziale di questa legge ha poi modellato nel tempo l’ “interruzione volontaria della gravidanza” come vero e proprio diritto soggettivo insindacabile della donna la cui violazione, ad esempio a seguito di un errore o una svista del medico che non abbia rilevato tempestivamente l’esistenza di una malformazione del feto impedendone così la soppressione, ha come conseguenza, per esso, la condanna ad un pesante risarcimento danni a favore della donna “costretta” ad accettare una vita non voluta (tra le tante, v. Cass. civ. Sez. III, 04-01-2010, n. 13, in “Contratti”, 2010, 7, 662 nota di DE FEO, secondo cui l’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza).

4. La “banalizzazione” dell’aborto, strumento di controllo delle nascite.

Ovviamente, come era intuibile, la prassi dell’aborto clandestino, purtroppo presente, anche se non certo con i numeri della propaganda abortista, in taluni ambienti sociali e culturali (tra l’altro, spesso, tra loro disomogenei), ritenuta comunque illecita in gran parte della coscienza sociale, dopo la liberalizzazione è stata accettata, via via, come una cosa del tutto normale sul presupposto che ciò che è consentito dalla legge coincide alla fine con ciò che è legittimo e quindi giusto fare.

Per fare un esempio banale: la violazione delle leggi fiscali, come ognuno sa, è un fenomeno assai diffuso a tutte le latitudini e tuttavia a nessuno, solo per questo, è venuto mai in mente di abolirle.

Ma se, per pura ipotesi, ciò accadesse, certamente ben pochi continuerebbero a sostenere le casse dello Stato in base ad un mero imperativo morale (non fosse altro che in ragione della pessima qualità dei servizi da esso resi).

La funzione della legge, dunque, è quello di promuovere un modello di condotta etica oggettivamente positivo e degno di tutela. Se cade la legge viene meno anche il principio e, con esso, gradualmente, la percezione etica e che tale norma evidenziava (cfr. Massimi Ermini, op. cit. p. 135 e ss.).

Un gravissimo vulnus, pertanto, è stato arrecato dalla legge 194 nella percezione della generalità su che cosa sia, ontologicamente, un aborto.

Esso, da drammatica realtà di una vita ai suoi albori spezzata per sempre, è stato relegato a seriale operazione chirurgica sbrigata nel grigiore di una stanza di ospedale da distratti dipendenti sanitari in camice bianco.

Di fatto, la pratica dell’aborto sin dall’inizio è rimasta svincolata da ogni serio controllo sia dal punto di vista  sanitario che dal punto di vista giuridico, ed è, pertanto, divenuto uno strumento estremo di controllo delle nascite cui si può ricorrere in libertà ogni qual volta vi sia una gravidanza indesiderata, senza che si debba addurre alcuna specifica motivazione.

Questo ormai consolidato stadio di “banalizzazione” della morte nella coscienza individuale – da tutti sperimentabile ogni giorno, non solo con riguardo all’aborto, ma più in generale, nella crescente indifferenza di fronte all’incalzare di episodi di cronaca sempre più agghiaccianti – sta compiendo, però, un ulteriore salto di qualità, ovviamente in peggio, con il ricorso all’aborto farmacologico (RU486), e con la cd. “contraccezione di emergenza”.

5. L’aborto farmacologico: RU486, Norlevo, Ella One.

L’ “RU486” è un ritrovato abortivo, inventato da un medico francese (Etienne Emile Baulieu), che non prevede alcun intervento diretto del personale medico sul corpo della donna, la quale si limita ad assumere, su prescrizione del medico nella struttura sanitaria, un potente veleno (mifepristone) che causa la morte dell’embrione nelle primissime fasi del suo sviluppo cui segue, previa assunzione di una seconda pillola a base di prostraglandine), la sua espulsione, talvolta a distanza anche di parecchi giorni e con dolorose contrazioni e sanguinamenti (salvo complicazioni in alcuni casi addirittura letali; cfr. Renzo Puccetti, “L’uomo indesiderato”, p. 103 e ss., S.E.F. 2008).

Con questo sistema, senza neppure la contropartita di una maggiore sicurezza dal punto di vista della propria salute (secondo dati del New England Journal of Medicine, la mortalità è ben 10 volte superiore a quella di un aborto chirurgico; cfr. Renzo Puccetti op. ult. citata, p. 107,), si tenta di far credere alle donne di poter “tranquillamente” abortire tra le mura domestiche. Ma questo non è vero.

Si deve qui accennare, sia pure en passant, alle vicende che hanno preceduto l’ingresso in Italia della RU486, tra cui la cessione gratuita del brevetto del farmaco da parte della casa farmaceutica Exelgyn per il timore di nuove cause civili alla stessa intentate negli USA, ma soprattutto gli almeno 15 casi accertati di donne decedute per gli effetti “collaterali” della sua assunzione. Per una più ampia esposizione si rinvia a: “La favola dell’aborto facile, miti e realtà della pillola RU486”, di Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella, Angeli, 2007).

Ancora una volta certi professionisti della mistificazione, che un tempo affermavano di voler sconfiggere l’aborto clandestino portandolo alla luce del sole, questa volta si sono riposizionati su uno slogan di segno esattamente opposto: l’aborto deve essere ricondotto ad un fatto privato della donna, da consumarsi nell’ anonimato.

A mettere un freno alla pillola abortiva (il “pesticida umano” come lo definì Jerome Lejeune) è stato il Consiglio Superiore della Sanità, con un parere del 18.03.2010, il quale ha affermato che tale metodo abortivo non può aggirare le regole imposte dalla L. 194 secondo cui l’intero iter di ogni interruzione della gravidanza deve avvenire all’interno della struttura sanitaria e sotto il diretto controllo del personale medico, a tutela della salute della donna, pena severe sanzioni (cfr. artt. 5, 8, 19).

Si sa bene, invece, che ciò non avviene. Nella maggior parte dei casi, infatti, si fa firmare alla donna una dichiarazione con cui la stessa, dimettendosi, si assume ogni responsabilità nei confronti del servizio sanitario per il caso di complicazioni.

Alle donne, che una volta si diceva di voler liberare dalle “mammane”, oggi si vuol far credere che possono da sole risolvere il “problema”; bastano un paio di compresse e op-là! Il figlio non c’è più.

A che servono, infatti, tante formalità, si chiedono gli abortisti. Perché dover arrossire davanti alla caposala pettegola del vicino ospedale? Perché incrociare il callido sguardo del medico pagato per spegnere vite umane quando si può fare tutto nel silenzio del bagno di casa propria, senza che lo sappia nessuno?

Si cerca di minimizzare l’aborto relegandolo nel chiuso delle quattro mura domestiche come se il semplice gesto di ingoiare una pillola di veleno potesse esorcizzare la realtà dell’annullamento di una vita al suo incipit che tale gesto comporta.

Ma ogni donna, in cuor suo, sa che così non è, e se cade nell’ inganno ciò è dovuto anche ai condizionamenti di una società che ha perduto il senso del male e del peccato e che ha in odio il grandioso compito che la natura le ha affidato: formare una nuova vita.

Non pùò esistere, quindi, aborto “facile”, come pure non esiste se non nella neolingua orwelliana, una “contraccezione di emergenza”, ovvero la cd. “pillola del giorno dopo” “(Norlevo” o “Ella One”, l’ultimo ritrovato farmacologico).

Questa altro non è che una ancor più camuffata forma di aborto (eventuale, perché la sostanza viene assunta, poco tempo dopo il rapporto sessuale, “al buio”, ossia senza fare prima il test di gravidanza) di un essere umano che ha appena iniziato il suo viaggio nella vita il quale viene, però, stoppato al momento di annidarsi nell’utero materno ed espulso nel più completo anonimato.

6. Conclusioni.

Questi sempre più sofisticati strumenti di morte rischiano di lasciare sempre più sola la donna nel dramma interiore di un atto disperato e innaturale le cui conseguenze, sul piano psicologico, ella si porterà dietro per sempre come comprovano recenti studi statistici condotti su donne che hanno abortito (cfr. Renzo Puccetti. “Anche la donna è vittima”, Il Timone, n., 86 sett.ott.. 2009).

Solo la ritrovata cultura dell’accoglienza responsabile verso ogni nuova vita e la coscienza del ruolo fondamentale della genitorialità, che le istituzioni devono proteggere e sostenere prima di ogni altra cosa, potranno salvare la nostra società dal collasso demografico in atto, frutto proprio di una mentalità anti-natalista lentamente permeata nel profondo delle coscienze degli italiani.

Un primo passo, decisivo ed urgente, nella direzione suddetta, è quello diretto ad introdurre una legge che riconosca la capacità giuridica al concepito, così modificando l’attuale formulazione dell’ articolo 1 del codice civile, risalente all’ormai lontano 1942, che la subordina all’evento della nascita; modifica per la quale vi sono già proposte di legge giacenti in Parlamento in attesa di essere discusse (cfr. disegno legge S. 1915 del 1.12.2009, presentato sai Sen. Gasparri, Quagliarello e Bianconi).