Avvenire giovedì 18 febbraio 2016
Dal convegno di Washington della prestigiosa «American Association for the Advancement of Science» escono le prime, argomentate perplessità sulle possibili conseguenze future del ricorso alla procreazione artificiale per l’uomo
di Carlo Bellieni
Parlando a Washington al convegno della prestigiosa American Association for the Advancement of Science, da cui dipende la nota rivista Science, Pascal Gagneux, biologo dell’Università di California, ha messo in guardia: fecondare un ovocita fuori del luogo usuale, cioè la tuba ovarica, può portare rischi a lungo termine. Il ragionamento è semplice: nella fecondazione in vitro l’ovocita è assalito da nugoli di spermatozoi; nella fecondazione tubarica c’è un solo spermatozoo per ovocita, una selezione che lo scienziato definisce «la scelta criptica femminile », che la fecondazione in vitro elude esponendo al maggior pericolo di lasciar passare spermatozoi con fattori di rischio.
«Mi sembra un colossale esperimento evoluzionistico: come l’introduzione del fruttosio, o dei fast food negli Usa. Ci sono voluti 50 anni: sembrava fantastico, tutti pareva fossero più alti e più sani, e invece ora siamo la prima generazione più bassa e che muore più giovane. Ma ci sono voluti 50 anni».
Gagneux si basa sui dati forniti da test su animali che mostrano come, invecchiando, i soggetti nati da fecondazione artificiale mostrerebbero una «sindrome metabolica» se femmine e alterazioni ormonali se maschi. Ma dati su problemi epigenetici e su alterazioni alla nascita erano già presenti da anni nei nati da procreazione medicalmente assistita comparati con la popolazione generale. Basti pensare che i malumori iniziarono a sorgere nel 2002 con le prime analisi apparse sulla letteratura scientifica in Svezia e negli Stati Uniti sui nati da fecondazione in vitro, sintetizzati nella rivista americana Nature col titolo significativo «Trattamenti per la fertilità: semi di dubbio».
Dunque la novità è che ora se ne parla non solo con i dati ma con l’analisi dei dati guardando il futuro. E non è allora un problema di opposte visioni morali: basti osservare il dibattito scientifico in cui, per esempio, gli evoluzionisti, i biologi che si occupano di epigenetica e i neonatologi che osservano le nascite descrivono fattori di allarme. Ecco allora che il criterio scientifico della precauzione entra nel dibattito: mettere le mani, certamente in buona fede, nel processo riproduttivo non richiedeva forse più cautela, più esperimenti su modelli animali e più anni per vedere se negli animali, generazione dopo generazione, avveniva qualche effetto avverso? Tutto qui, come aveva preconizzato il chimico ed ecologista Enzo Tiezzi.
Perché si pretendono giustamente tante cautele e rassicurazioni nel caso dell’esposizione ai campi elettromagnetici o agli Ogm prima di metterli in commercio e invece si vede che gli aggiustamenti tecnici per diminuire gli esiti insoddisfacenti sulla salute nel caso della procreazione medicalmente assistita si fanno in corso d’opera, quando le varie tecniche già sono in commercio?
C’è qualcosa che non va in tanta sollecitudine, quando non persino fretta. Vedere che finalmente se ne parla in un consesso di altissimo livello ci porta a sperare in qualche maggiore cautela: certe volte più che dibattiti sui princìpi andrebbero promossi e compiuti confronti sulla reale efficacia e sicurezza di innovazioni che vanno a interessare la sfera più delicata della vita umana.