di Vittorio Messori
Le molte cose –libri, articoli, interviste– di Sergio Romano si leggono con gusto e, non di rado, con ammirazione: i problemi storici più complessi sono presentati con linguaggio elegante e piano, in una sintesi che non è mai semplificazione. Certo: un cattolico trova in lui un interlocutore critico, magari un’antagonista. Ma, tra tante sciatterie, è un sollievo poter confrontarsi con quest ’ultimo rappresentante della “Destra Storica“ risorgimentale che conosce bene (oltre alla buona educazione) i problemi e non trucca le fonti. E’ in questa linea anche l’ultimo libro di Romano che ha per titolo un ritocco malizioso della celebre frase attribuita a Cavour (mentre è di Charles de Montalembert): Libera Chiesa. Libero Stato?
Va riconosciuto a Romano che – a differenza di quei troppi ripetitori – riporta la frase intera, improvvisata a caldo, ricevendo professori e allievi della Università Cattolica, tre giorni dopo la firma, e che così esattamente suona: «Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi»
C’è differenza tra un secco “uomo della Provvidenza” e un ben più sfumato -e preceduto da un “forse“- “uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare“. Ma dovere dello storico è inquadrare nel loro contesto le parole dei protagonisti. Per ben capire, dunque, occorrerebbe ricordare che i colloqui tra Santa Sede e Stato italiano cominciarono nel 1926 e si protrassero per anni.
In effetti, il marchese Francesco Pacelli, rappresentante del pontefice, aveva come interlocutore il rappresentante di Mussolini, il professor Domenico Barone. Questi era un puntiglioso, un po’ fanatico esponente del liberalismo ottocentesco, per il quale la sola sovranità ammissibile era quello dello Stato. Dunque lo Stato, magnanimo, poteva concedere garanzie di liberta, di rispetto, magari di finanziamento alla Chiesa, purché questa non presumesse di essere un soggetto alla pari.
Ciò che atteneva alla religione, poteva essere solo oggetto della politica ecclesiastica statale. E’ la prospettiva che aveva ispirato la Legge delle Guarentigie, che escludeva recisamente una sovranità della Santa Sede. Questa, invece, era convinta che soltanto una sovranità propria, un essere “alla pari” con lo Stato, poteva garantire l’indipendenza della Chiesa.
Insomma, oltre mezzo secolo dopo Porta Pia, il rappresentante italiano era saldo in quella sua prospettiva. Le trattative tra i due si svolgevano in un clima di rispetto; anzi, di cortese amicizia, ma sembravano ormai definitivamente arenate. Quella volta non era il Papa ma il professor Barone, il vecchio liberale (un cattolico, tra l’altro, ma secondo la scuola risorgimentale) ad opporre un insormontabile non possumus alla richiesta di un territorio minuscolo, il più piccolo Stato del mondo, ma dentro le cui mura la Catholica fosse in casa sua, non temendo ingerenze statali.
Dopo due anni di quegli incontri sterili, Domenico Barone morì improvvisamente. Si giunse, così, al colpo di scena: invece di nominare un altro giurista che lo rappresentasse, Mussolini decise di condurre di persona la trattativa. Venendo da ben altra scuola e non avendo dogmi da liberale ottocentesco (quelli che Pio XI chiamerà “feticci”) il Benito tolse di mezzo il divieto di parlare di una “sovranità” della Santa Sede alla pari di quella dello Stato. Così, in pochi mesi, l’incancrenita “questione romana” fu risolta, con la firma dei documenti l’11 febbraio, nel giorno anniversario delle apparizioni di Lourdes.
Questo, dunque, il contesto. Precisandolo, sarà forse più agevole capire che cosa intese dire davvero il pontefice in quel discorso in cui a Mussoolini sarebbe stato concesso il “brevetto“ (per usare l’espressione di Romano) di «uomo della Provvidenza». Come sempre nella storia -e come ben sa il nostro interlocutore– la complessità delle vicende umane esige un inquadramento preciso.