La Shoah ha acquistato una dimensione metafisica, quasi a dover svolge il ruolo, nella nuova religione secolare, dell’elezione del popolo ebraico nella religione tradizionale. Attraverso la vittimizzazione immunizza l’ebreo e lo stesso Israele contro ogni critica. Guai a coloro che infrangono questa regola, subito trattati da antisemiti
di Augusto Zuliani
Pur nella loro semplificazione propagandistica le argomentazioni di alcuni esponenti iraniani, che considerano risibile affermare la libertà di stampa per i vignettisti e nel contempo negarla a uno storico, hanno evidenziato l’attuale nodo della coscienza europea, cioè il progressivo slittamento dall’uso strumentale della «verità storica» – fenomeno non certo nuovo, né, se vogliamo, particolarmente scandaloso, visto che da sempre si fa un uso politico della storia – alla sua codificazione giuridica con ampi margini di discrezionalità, questa si novità assoluta in regimi democratici.
Non a caso il processo Irving ha suscitato perplessità presso studiosi e ambienti non certo simpatizzanti del nazionalsocialismo, ma che considerano un grave errore sanzionare penalmente le idee.
Si tratta di un rilievo condivisibile, che tuttavia non mette a fuoco il cuore del problema: in che modo un evento storico – la Shoah (1) che nella seconda guerra mondiale travolse le comunità ebraiche europee, in particolare quelle orientali, molto più numerose, che abitavano il cosiddetto yiddishland – abbia acquisito una dimensione metafisica e come mai tale dimensione sia riuscita ad affermarsi anche in campo giuridico.
Un percorso dove la storia e la sua rappresentazione giocano un ruolo centrale, per cui è necessario un lavorio di scansione che evidenzi sia le reali dimensioni degli avvenimenti, sia il contesto in cui essi si svolsero. In tale prospettiva è significativo il fatto che uno studioso vicino al mondo ebraico scrivesse dieci anni fa: «Bisogna ammettere che la cifra di un milione di morti ad Auschwitz è un’ipotesi molto più ragionevole dei quattro milioni riportati su una targa commemorativa all’ingresso del campo» (2).
In effetti era un dato talmente enorme – imposto dai sovietici, abituati come sappiamo a lavorare sui grandi numeri – che rischiava di minare la stessa credibilità dell’impianto storiografico che regge la Shoah, per cui in anni recenti la cifra è stata drasticamente ridimensionata a un milione.
Un gioco macabro
Questo intervento riduttivo tuttavia non elimina affatto il sospetto che, dopo il 1945, più di uno abbia svolto un gioco macabro sul numero delle vittime, strumentalizzando la Shoah, come peraltro denunciato da più parti, basti ricordare l’onesto lavoro dello storico ebreo americano NormanG.Finkelstein (3). Risulta quindi difficilmente comprensibile l’atteggiamento di chi fa della Shoah l’ipostasi del «male assoluto» con un’operazione tipica del linguaggio letterario, ma non della ricerca storica che indaga proprio sui fatti i quali non appartengono al regno della fede, ma al terreno della conoscenza razionale ed empirica, quindi sottoposti a costante verifica, approfondimento e interpretazione.
Voler stabilire in termini giuridici penalmente rilevanti che un certo avvenimento deve essere salvaguardato da ogni esame critico, pena l’accusa di «revisionismo» o peggio «negazionismo». altro termine della neolingua inventato dai cultori dello storiograficamente corretto, significa compiere un salto di paradigma, entrando in una dimensione religioso-dogmatica, il che ricorda in modo curioso l’operazione con cui gli ulama dichiararono dopo il XII secolo che erano chiuse le porte alla ijtihad (la riflessione e interpretazione giuridico-normativa del testo coranico e degli hadith).
Una metamorfosi la cui finalità religiosa è stata ben colta da Hsther Benbassa, che rileva: «[la Shoah] svolge un po’ il ruolo, in questa nuova religione secolare, dell’elezione del popolo ebraico nella religione tradizionale; [attraverso la] vittimizzazione immunizza l’ebreo e lo stesso Israele contro ogni critica. Guai a coloro che infrangono questa regola, subito trattati da antisemiti» (4).
Questa metamorfosi sembra sfuggire a Claude Lanzmann, direttore di Les Temps Modernes, che nel fare l’apologia della legge Fabius – Gayssot (5) contro i «delitti di opinione», scrive: «II negazionismo fu il motore e l’arma del crimine nazista che cancellava le sue tracce proprio mentre si realizzava. In un certo senso il crimine perfetto è stato compiuto e coloro che lo negano sono gli credi diretti degli assassini» (6).
In realtà Laizmann è ben consapevole che l’operazione storico-culturale intorno alla Shoah riveste una dimensione metafisica, perché si vuoi fare di questa rispettabile «memoria etnica» (7), una «memoria universale», come testimonia, tra le altre, l’iniziativa paradossale di una delegazione ebraica recatasi in Cina – con la quale Israele ha allaccialo rapporti diplomatici solo nel 1992 – per svolgere un’attività pedagogica sulla Shoah, mentre il popolo cinese dove ancora elaborare il lutto per i milioni ili vittime del delirio maoista.
Trasformare il «culto della Shoah» in una sorta di religione di Stato, garantita dalla legge, significa assegnare agli ebrei, un popolo «metafamiglia». cosi come lo definisce il rabbino Sleinsallz (8), il primato a un tempo della sofferenza e dell’innocenza assoluta, primato che lo stesso Lanzmann. autore nel 1995 di un film intitolato per l’appunto Shoah (9) aveva già espresso nel 1993 con termini molto chiari lanciando una sfida radicale al cristianesimo: «Se Ausehwìtz è vera allora siamo in presenza di una sofferenza umana che non si può assolutamente paragonare a quella del Cristo. In tal caso il Cristo è falso e la salvezza non giungerà da lui» (10).
In realtà questa nuova religione laica è l’esito finale di un’operazione ideologica scandita dalle vicende politiche i cui protagonisti sono da un lato lo Stato israeliano nei suoi circa sessanta anni di tormentala, epica esistenza, dall’altro le comunità della diaspora, in particolare quella statunitense, alla continua ricerca ed elaborazione di un’identità parallela, ma diversa da quella di Heretz Israel.
In questa operazione storia e memoria sono state utilizzate con un processo alchemico, mescolando due registri diversi; perché mentre la prima cerca di illuminare gli avvenimenti del passato e costruire un ordine razionale adeguato per comprenderli, la seconda cerea di fondare il passato modellandolo, come fa la tradizione, ed è attraversata dal disordine delle passioni, delle emozioni e degli affetti. Entrambe hanno un molo importarne nella costruzione di una identità Stato-nazionale, ma se prevale la seconda insidiando costantemente la prima, questa stessa identità è sottoposta a pericolose sollecitazioni che ne minano le basi.
Come scriveva lo studioso Avneri, il culto della Shoah ha «colmato il vuoto spirituale degli ebrei non religiosi […] diventando un nuovo simbolo nazionale che elimina tutti gli altri», aggiungendo: «Se non supereremo il trauma di Auschwitz non ritorneremo mai a essere un popolo normale» (11).
Consapevolezza pienamente condivisa da Steinsaltz che, dopo aver rilevato come la Shoah non abbia alcuna influenza nella definizione dell’identità ebraica, afferma: «La religione della Shoah, locuzione che è del tutto irriverente, è la religione della vittima, e per me rappresenta un’offesa, perchè l’essenza dall’ebreo sarebbe quella di essere morto» (12). Una denuncia che, nella sua brutale chiarezza, esprime l’insofferenza di una parte crescente del mondo ebraico verso tutti coloro, ebrei e non, che per tanti anni si sono serviti di quella Catastrofe come dì un taxi per raggiungere i loro obiettivi economici o politici, personali o di clan.
Una guerra contro il popolo
II percorso attraverso il quale la Shoah e andata assumendo progressivamente una connotazione universalista e a un tempo metafisica, risale agli esiti della seconda guerra mondiale e ai criteri in base ai quali vennero condannati gli alti esponenti del III Reich dal Tribunale militare internazionale (Tmi): giurisdizione interalleata con sede a Norimberga, il cui statuto era stato definito a Londra l’8 agosto 1945 dai governi di Usa, Urss, Regno Unito e dal governo provvisorio della Repubblica francese.
Si trattava di un «accordo intergovernativo», non di una convenzione, o di un trattato internazionale da sottoporre a ratifica parlamentare; di uno strumento da utilizzare in quella sola occasione, nel quadro della dittatura militare interalleata su una Germania priva di istituzioni sovrane tra il 1945 e il 1949. L’eccezionalità dell’evento era sottolineata dal procuratore americano Robert H. Jackson, ex ministro della Giustizia nel governo Roosevelt, giudice presso la Corte suprema degli Stati Uniti, artefice dello statuto del Tmi che dichiarava a Norimberga il 26 luglio 1946: «La Germania si è arresa senza condizioni, ma non è stato formulato o deciso nessun trattato di pace, per cui gli Alleati tecnicamente sono ancora in stato di guerra con la Germania, benché le istituzioni politiche e militari del nemico siano scomparse. In quanto Tribunale internazionale non siamo tenuti a seguire i criteri procedurali dei nostri rispettivi sistemi costituzionali o giuridici, e le nostre regole non costituiranno dei precedenti nel sistema interno o nella giustizia civile di nessun Paese».
Con questa affermazione Jackson confessava però implicitamente che il Tmi stesso, emanazione diretta dei governi alleati, era in guerra non più contro lo Stato tedesco di fatto inesistente, ma contro il popolo tedesco attraverso i suoi più alti rappresentanti messi sul banco degli accusati. Si apriva cosi la strada a quell’imputazione di responsabilità collettiva che verrà ampiamente utilizzata nei processi per risarcimento intentati alla Repubblica federale tedesca da varie associazioni ebraiche soprattutto americane (13).
Lo statuto del Tmi che giuridicamente poteva apparire un dispositivo pragmatico, utile solo alla liquidazione politica, morale e fisica dei principali esponenti del III Reich, assumerà nel corso del tempo una valenza ben più ampia, proprio perché a Norimberga vennero create delle incriminazioni formalmente retroattive, in particolare quella di «crimine contro l’umanità», che servirà da principio ispiratore per la costruzione del «nemico assoluto», identificato poi nel «male assoluto» assurto a una dimensione metafisica.
Il pesce pilota per introdurre il reato di «crimine contro l’umanità» fu il concetto di genocidio elaborato da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica che giunto fortunosamente negli Stati Uniti nel 1941 partecipò in qualità di consulente giuridico di Jackson ai processi di Norimberga.
Questo disegno, la cui realizzazione fu possibile grazie all’adozione in quella sede della common lav anglosassone che rendeva caduco il principio di non retroattività delle leggi valido nel diritto europeo continentale, avrebbe poi favorito lo sviluppo progressivo di una guilty cultur, in realtà un vero e proprio complesso di colpa alimentato dal sistema mediatico-spettacolare e, in tempi recenti, dagli stessi apparati istituzionali, che dalla Germania si è poi diffuso nel resto dell’Europa fino a contaminare oggi rutto l’Occidente, moltiplicando i responsabili di «crimini contro l’umanità», magari compiuti nei secoli passati nei confronti di qualche remota tribù tropicale.
Manipolazione mediatica
Tale strategia per funzionare con efficacia deve poggiare, oltre che su un apparato giudiziario ideologicamente e culturalmente devoto, anche su una manipolazione mediatica a livello internazionale. Anticipazione esemplare al riguardo fu il processo Eichmann (14), con il quale gli ispiratori ottennero una serie di clamorosi risultati: sul piano interno il rafforzamento dell’identità nazionale israeliana; sul piano internazionale dimostrare alla potenza protettrice, gli Stati Uniti, la totale autonomia politica e operativa di Israele; a fronte del consesso mondiale affermare la propria impunità nel violare le sovranità degli altri Stati (nell’occasione l’Argentina); nel teatro europeo costringere nuovamente a Canossa una Germania che era in pieno boom economico.
Vi era però un altro aspetto sottaciuto durante tutto l’«affaire Eichmann»: la volontà da parte del sionismo laico, attore decisivo nella fondazione dello Stato israeliano, di chiudere il capitolo sul ruolo da esso svolto prima e durante la seconda guerra mondiale, trattando con entrambi gli schieramenti in conflitto e facendo pagare per i propri errori un prezzo altissimo alle comunità ebraiche europee (15).
Con l’operazione Eichmann la leadership storica israeliana voleva saldare i conti con il proprio passato e in qualche modo pacificarsi con il suo popolo, ma sul versante della diaspora si apriva un altro fronte, quello europeo. Anche questa volta lo strumento ideologico-operativo era costituito dai «crimini contro l’umanità»: il «male assoluto» è imprescrittibile, dovunque si sia manifestato va perseguito e le sue incarnazioni punite senza indugio; solo in tal modo si costruisce l’«ordine morale universale».
Un dispositivo ormai rodato che avrebbe colpito nella Repubblica federale tedesca, a partire dal 1964, diversi ex esponenti minori del III Reich, e più tardi in Francia, dove, tramontato il gollismo e la sua versione mitterrandiana, vennero processati ex esponenti del governo di Vichy che avevano ricoperto incarichi importanti anche in seguito, come Maurice Papon, prefetto di polizia di Parigi durante la guerra d’Algeria, poi deputato e ministro del Bilancio nei governi Barre dal 1978 al 1981 e processato per «crimini contro l’umanità» nel 1997.
Uno dei casi più clamorosi fu quello che riguardò Kurt Waldheim. segretario generale delle Nazioni Unite dal 1972 al 1981 e poi nel 1986 candidato alla carica di presidente austriaco, quando venne accusato dalla stampa internazionale e dal World Jewish Congress di aver commesso «crimini contro l’umanità», operando con la sua unità militare in Grecia durante la seconda guerra mondiale. Una commissione internazionale nominata dal governo di Vienna per verificare la fondatezza delle accuse, avrebbe poi scagionato Waldheim, ma l’«Internazionale mediatica» aveva ancora una volta dato prova della sua micidiale efficienza, rivelando quanto fosse pericolosa per la stessa vita democratica (16).
Una minaccia che nel corso degli anni si è fatta sempre più grave operando su scala mondiale, di conserva con un apparato giudiziario auto-investitosi di sacralità morale e producendo una metafisica del diritto; in realtà travestimento di precisi interessi e quindi di scelte politiche, come giustamente sottolineava il grande giurista Hans Kelsen: «Quando si vuole definire il rapporto tra diritto internazionale e diritto statale, bisogna accettare necessariamente entrambi i sistemi di riferimento.
Ma la decisione stessa si pone fuori dalla scienza del diritto, e risulta da considerazioni che non sono scientifiche, ma determinate da considerazioni politiche». La cosiddetta «ingerenza umanitaria» tende così a coniugarsi con l’ «ingerenza giudiziaria», con il rischio della virtuale disintegrazione della «comunità internazionale» (17). Resta tuttavia da chiedersi se proprio questo non sia il reale obiettivo di potenti forze che agiscono a livello planetario usando con spietata efficienza tutti gli strumenti possibili.
Note
1) II termine Shoah significa catastrofe, per cause sia naturali sia umane, e non distruzione o sterminio, che in ebraico si esprime con la parola hurban.