In Italia come in Francia il mito partigiano poggia su basi molto fragili. La storia infatti racconta altro: città liberate dai fotografi, comunisti e nazisti a braccetto, le colpe di Stalin…
di Franco Bandini
Mobilitò i suoi aiuti, gli stampatori, i ritoccatori, i distributori, e se li tirò dietro sui tetti, agli angoli delle strade, nei portoni, ovunque la sua fantasia di giornalista gli suggerì: nacque così un rullo di immagini straordinarie, che l’Unità pubblicò il 28 con un corsivo delirante, e che poi furono ripubblicate forse migliaia di volte per ricordare la liberazione di Milano. Per il 26 aprile, non ve ne sono altre. Tantoché lo storico del futuro, potrà concludere che Milano sia stata liberata dal solo Carrese.
Su questa storia minore (non poi tanto minore) non esiste dubbio per molti motivi, il primo dei quali è che la appresi un paio di giorni dopo proprio da Vincenzo, che è e rimane uno dei più grandi fotografi di quell’epoca. E poi perché il suo volto un po’ chiuso e serio, nonché dei suoi reporter, è facilmente riconoscibile nelle fotografie. Ed infine, perché a mio padre capitò la stessa avventura.
Alle otto del mattino di quel giorno, divorato dalla curiosità del vecchio combattente, fermò i pantaloni, in basso, con le molle d’acciaio che impedivano di bloccarseli nelle moltipliche delle biciclette, e fece il giro della città, senza immaginare l’enormità del rischio che stava correndo. Tornò alle dieci, mise via la bicicletta e disse che gli era sembrato Ferragosto: in giro non c’era nessuno.
A mezzogiorno andai a farmi la barba in via Vitruvio. Agli angoli c’era qualche capannello di gente che confabulava. Poi, da Corso Buenos Aires giunse una lunga, terrosa colonna di soldati della “Wehrmacht”. Ragazzi di forse 17 o 18 anni, schiacciati dall’elmo pesante, stanchi di morire. Camminavano verso la stazione in due file, una sul marciapiede di destra e una su quello di sinistra, rasente i muri, con gli occhi puntati alle finestre. passarono in silenzio, senza guardare, attentissimi.
Alle tre, finalmente, comparve una macchina col cofano coperto dal tricolore. ne scese un partigiano tracagnotto che levò la faccia verso i balconi gremiti e gridò in dialetto: «Porci sciüri, avete finito di mangiare pane bianco». Ci guardammo allibiti, perché venivamo da un inverno di fame, durante il quale l’unico cibo era stato il riso bollito, condito con un infame olio di macchina che si chiamava “Olital”.
Il bello è che la sera del 26 nessuno sapeva che Milano era stata effettivamente “liberata” all’alba, ma non dai partigiani, bensì dai 430 uomini della Guardia di Finanza del colonnello Alfredo Malgari. Con abilità e prudenza questo magro e silenzioso ufficiale aveva mantenuto intese clandestine con Cadorna e il Cvl, organizzando un “ufficio falsi” col quale potè dotare i capi della Resistenza di documenti, e divise, a prova di bomba. nell’imminenza dell’aprile 1945, aveva rifiutato di scendere in piazza con le sue poche forze per dare inizio all’insurrezione, così come pressantemente chiedeva il Comitato di Liberazione secondo il quale «il popolo avrebbe seguito».
Ma alle due del mattino di quel 26 aprile, quando gli venne telefonato che «bisognava osare», si rassegnò: fece battere l’adunata, distribuì caffè e sigarette, chiese agli ufficiali di andare o restare, secondo coscienza, e poi mosse con quattro smilze colonne da Porta Volta sulla Prefettura, sulla Stipel, sulla radio e sulle sedi dei giornali.
Gli andò bene. Sul suo cammino, malgari non incontrò anima viva, e gli obiettivi furono conquistati quasi senza sparare un colpo, all’alba. Alle otto, fece suonare le sirene, e poi si mise ad attendere i capi della Resistenza che, per la verità, avevano promesso di accompagnare le colonne nella notte, ma che non si erano visti. Alle dieci arrivarono Valiani e Lombardi: baciarono e abbracciarono Malgari, chiudendo in fretta questo curioso capitolo tutto italiano di una grande città restituita alla libertà dai soldati di un Corpo più celebre per i suoi “verbali di accertamento” che per gli assalti all’arma bianca.
Sui giornali della Liberazione, comunque, il nome di Malgieri e dei suoi soldati non comparve: il «mai così tanti dovettero tanto a così pochi» pare abbia funzionato soltanto per i piloti da caccia delle Battaglie d’Inghilterra. E’ giusto raccontare queste cose oggi, sia perché mi sembra molto strano ed indicativo che nessuno – fino ad ora – abbia ritenuto moralmente obbligante tramandare queste verità, sia per una ragione più sottile.
Qualche politologo spiega, ora, che l’asserito sfascio della nostra Nazione dipende dalla “menzogna collettiva” della quale abbiamo vissuto, amministratori ed amministrati, per gli ultimi venti o trent’anni. E’ vero, ma è anche vero che abbiamo imparato a mentire da un tempo ben maggiore, perché le menzogne hanno questo enorme vantaggio, che fanno comodo, mentre la verità è aspra, difficile da digerire e soprattutto non manipolabile in funzione dei propri interessi. La resistenza in questo quadro non fa davvero eccezione, come ben sanno tutti coloro che l’hanno vissuta in prima persona.
La verità non va cercata solo nel periodo settembre ‘43/aprile ’45. Dobbiamo invece cominciare da quell’agosto 1939 in cui il secondo conflitto mondiale, la cui totale responsabilità, come si legge sui libri di scuola, ricade nella cupa volontà di dominazione mondiale di Hitler. Beh, non è vero. deve ancora nascere lo storico il quale riesca a dimostrare che Hitler avrebbe davvero attaccato la Polonia se non avesse avuto intasca la connivenza, ed addirittura l’amicizia, di Stalin.
Sfugge difatti e pur sempre, che le Potenze “proletarie” interessate alla distruzione dell’edificio eretto a Versailles non erano soltanto la Germania e l’Italia, ma principalmente l’Unione Sovietica, anelante a riprendersi i vastissimi territori perduti, ad installare basi militari ai Dardanelli, ad aprirsi la strada verso l’Atlantico, passando sulla pancia della Finlandia, della Svezia e della Norvegia. Abbiamo oggi prove indubbie del lento avvicinamento tra i due dittatori a partire dal 1937: e che l’uno fosse intenzionato a servirsi cinicamente dell’altro fa poca differenza, quanto al risultato finale.
Ai grezzi estensori delle storie di comodo sfugge – in più – che la Germania di Hitler, come del resto qualsiasi altra dittatura passata e moderna, non era e non fu mai un cieco “robot” di grandi dimensioni, pilotabile a capriccio verso un qualunque folle obiettivo. Vi furono diciassette congiure contro Hitler, quasi tutte nate all’interno delle Forze Armate: va detto con assoluta chiarezza, che quella dell’agosto 1939 fu silurata e spedita a fondo proprio dal “fatto nuovo” del Patto Hitler-Stalin.
Esso non soltanto mutò radicalmente il quadro generale ma venne incontro alla potente “ala russa” dell’Alto Comando che dalla fine della prima guerra mondiale aveva visto nell’Unione Sovietica l’unico possibile alleato per la rinascita tedesca. La “Wehrmacht” di Hitler era nata in Russia, con l’aiuto dell’Armata Rossa, e lo stesso Hitler aveva scalato il potere con la connivenza essenziale del Partito Comunista.
Qualunque contorsione mentale si faccia, sta ed è di fatto che la responsabilità storica del secondo conflitto è almeno doppia, tedesca e sovietica: ma forse prevalentemente sovietica, poiché non si può dimenticare che i piani “veri” di Hitler, nel 1939, non contemplavano altro che operazioni limitate alla Polonia. Egli contava, anzi, di piegarla senza combattere, e fu il primo ad essere stupito quando la bomba gli scoppiò tra le mani.
Gli effetti del Patto furono due. Anzitutto lo scatenarsi di uno scontro globale che avrebbe potuto essere evitato. E poi il suo prolungamento nel tempo e negli effetti distruttivi. la prima guerra era durata 51 mesi, la seconda andò avanti per 68, su un’area enormemente più vasta e con un coinvolgimento ben maggiore di masse umane. Questa dilatazione fu l’effetto primario del decisivo appoggio materiale, politico e psicologico fornito dall’Unione Sovietica alla Germania hitleriana.
Petrolio, armi, opportunità ed aiuti militari decisivi, viveri, gomma, circuiti finanziari internazionali, appoggio propagandistico: ma soprattutto il potente supporto dei Partiti Comunisti dei singoli Paesi via via occupati dalla Germania. Una pagina ancora non scritta, ma senza la quale non si capirebbe nulla dell’ieri, e nemmeno dell’oggi.
Nel febbraio del 1940, Daladier fece fucilare a Parigi tre operai comunisti della Renault che erano stati sorpresi a sabotare quei carri armati che di lì a poco sarebbero stati mandati a combattere in Belgio contro Hitler. In quel perplesso inverno della “guerra degli altoparlanti”, l’intero Pcf fu obiettivamente – salvo rare eccezioni – un alleato del dittatore tedesco, e come tale fu trattato. Migliaia di comunisti, quelli italiani compresi, vennero chiusi in campo di concentramento: furono effettuate undicimila perquisizioni con la scoperta di radio clandestine in contatto con i Servizi tedeschi, armi, tonnellate di materiale propagandistico.
Trecento tra sindaci ed assessori vennero destituiti, e 46 deputati comunisti andarono sotto processo. Il Pcf fu messo fuori legge, ma la catena dei sabotaggi e della propaganda antimilitarista, del resto “ferro del mestiere” del comunismo francese almeno dal ’36, non si interruppe. Si dovettero arrestare migliaia di operai e di agitatori, e a titolo di esempio se ne fucilarono appunto tre: questa prima Resistenza “pro Hitler”, che accomuna i Longo ai Thoréz, i Togliatti ai Marcel Cachin, è un sottostrato geologico che le trivelle della Storia non hanno mai raggiunto.
Alla caduta della Francia, dovuta in parti eguali all’opera di disgregazione morale follemente perseguita dal Pcf a al rancore anticomunista della borghesia francese, fa seguito un’intensificata collaborazione tra stalinisti osservanti e occupanti tedeschi. Già il 18 giugno 1940 i comunisti parigini chiedono a Goebbels di poter pubblicare L’Humanité, ed allacciano fitti colloqui per la costruzione nella Capitale di un Governo comunista “Quisling”.
Decine di migliaia di operai e contadini, partono volontari per la Germania mentre “teste pensanti” del Partito ne ricostituiscono le file sotto l’egida di un Blocco Operaio e Contadino la cui prima occupazione è quella di favorire i più cordiali rapporti tra francesi e tedeschi, in vista di un’Europa “superiore alle parti”. Per sedici mesi, non un sabotaggio, non un colpo di fucile.
Fa parte dei misteri della Storia la vera ragione perla quale la Resistenza comunista,in Francia e altrove, non cominci affatto coll’attacco tedesco alla Russia, del 22 giugno 1941, ma soltanto con il principio del ’42. Ancora il 6 settembre ’41, il Blocco diffonde una solenne Lettera aperta agli operai comunisti, mettendoli in guardia contro le tentazioni antitedesche. Il 21 ottobre, Marcel Cachin condanna severamente gli attentati a soldati ed ufficiali tedeschi con una seconda lettera che si riempie ben presto di firme autorevoli ex Pcf.
La realtà è che Stalin, con le truppe tedesche già sulle mura di Mosca, deve fare i conti con i propri monumentali errori di valutazione e con la possibilità di dover calare le brache di fronte ad Hitler. Per tutta l’estate di quell’anno terribile egli si limita a far assassinare, specie in Francia, tutti coloro che avendo abbandonato il Partito nell’agosto 1939, potrebbero ora rappresentare alternative pericolose.
Possiamo ragionevolmente supporre – ma i documenti ce lo diranno domani, se e quando – che il tarchiato despota del Cremino abbia preso una decisione definitiva soltanto dopo la scesa in campo degli Stati Uniti e la ribadita neutralità giapponese, cioè dopo aver ricavato dai fatti l’automatica garanzia che non sarebbe rimasto solo a vedersela con la Germania. Solo allora, all’incirca nella primavera del ’42, egli dette in effetti l’ordine di organizzare la resistenza antitedesca dovunque fosse possibile.
Da quel momento, dopo quasi tre anni di effettiva collaborazione col nazismo (attiva prima, passiva poi), le singole Resistenze nascono, semplicemente cambiando casacca, e comunque sempre agli ordini e per gli interessi di Mosca. benché occultato dietro un formidabile apparato ideologicamente multiuso, lo scopo è uno solo, quello di alleviare la crisi militare dell’Armata Rossa, bloccando in Francia, in Belgio, in Norvegia, in Balcania, quante più forze tedesche è possibile. dal 22 giugno l’Armata Rossa sta perdendo 30 mila uomini al giorno, tra morti, feriti e prigionieri, in una serie di disastri ignoti persino ai deprecati eserciti zaristi.
Fino all’ultimo giorno di guerra la crisi militare sovietica, conseguente ad una catastrofe demografica allucinante, fui il punto di riferimento costante ed obbligante di ogni resistenza comunista. Gli attentati clamorosi, le imprese gappiste, la lotta contro l’attendismo, in una parola la radicalizzazione dello scontro ebbero per unico obiettivo quello di coinvolgere le popolazioni in violenze crescenti, finalizzate a bloccare in Italia, in Francia, in Balcania sempre maggiori forze tedesche, anche se è del tutto ovvio che la Resistenza comunista, pur rispondendo alle sole necessità di strettissima marca sovietica, finì per sovrapporsi ai più generali interessi democratici europei, e a quelli specificatamente italiani conseguenti all’armistizio del ’43.
Ma è altrettanto ovvio che nei bilanci delle Nazioni i fini debbono essere rapportati ai costi. Quello della resistenza italiana fu particolarmente alto, materialmente e nella psicologia profonda del nostro popolo. L’eccessiva radicalizzazione dello scontro finì con lo scavare un solco per rimarginare il quale occorreranno ancora decenni. Ci trascineremo sempre dietro gli spettri – e il cattivo esempi – di una feroce guerra civile, nella quale andarono perduti quei pochi risultati di agglomerazione e di fusione che erano stati raggranellati con fatica dal primo regno unitario.
Cinquant’anni di monotone ripetizioni ci hanno istillato l’idea, ad alto e basso livello, che il costo della resistenza fu ripagato ad usura dalla diversa posizione internazionale raggiunta dall’Italia per effetto della sua lunga lotta al fascismo. Vi è in questa valutazione una minima traccia di vero, benché si debba osservare che la rottura col fascismo e con la guerra avvenne nel 1943, ad opera di forze che non avevano nulla a che vedere con quelle – e successive – resistenziali.
Tuttavia, quale che sia stato il teorico vantaggio di quella che sprezzantemente Churchill chiamò il “biglietto di ritorno italiano”, esso fu annullato a mille doppi dal fatto che dalla Resistenza ereditammo purtroppo il più forte Partito Comunista del mondo: esso si era istallato con disinvoltura in una speciale nicchia ecologica della Storia, cancellando con cura dalla memoria collettiva il suo passato di collaborazionista e la sua stretta dipendenza staliniana.
Si appropriò con altrettanta disinvoltura di quei valori libertari, pacati e riflessivi che avevano pur animato una Resistenza non comunista, e che per una lunga serie di anni conformò la sua azione politica, ancora una volta, alle direttive che venivano da Mosca: durante la “guerra fredda”, i due principali Partiti Comunisti operarono con indubbia abilità in funzione esclusiva di quel vitale interesse sovietico che era mantenere l’Europa in uno stato di disaggregazione tale da non costituire mai un pericolo per l’Unione.
E buon per lei, che riuscì a servirsi tanto bene di milioni di persone così potentemente inserite nel campo di Agramente. ma non per noi, che pagammo uno scotto spaventosamente alto su due versanti: non fummo mai, agli occhi occidentali, una Nazione affidabile, e non riuscimmo mai a sviluppare, per la furibonda opposizione del Pci, una democrazia seria e capace di una vera crescita civile. Oggi ne paghiamo le conseguenze, poiché le cambiali della Storia hanno la cattiva abitudine di esser sempre presentate all’incasso: è molto amaro constatare che più nessuno pare riesca a leggere con chiarezza il nome di chi ce le ha fatte firmare.
_________________________
Articolo pubblicato su L’Italia Settimanale del 22 settembre 1990
Due anni da lupi
E’ legittimo mettere in discussione il mito della resistenza? Secondo Bandini si. Perché tra il ’43 e il ’45 la Resistenza non è mai esistita…
di Franco Bandini
Toccare la Resistenza si può: ed anzi si deve, poiché l’obbligo storico di capire una volta per tutte cosa è veramente accaduto in Europa, ed in particolare in Italia negli anni che vanno dal 1939 al 1945 è divenuto così pressante da non lasciare alcun margine a preclusioni, divieti o tabù.
Desidero attenermi strettamente ai fatti, dal momento che la storia sui “valori” mi sembra fatta apposta per dimenticarli e farli dimenticare. Aggiungo, a titolo di onestà, di esser stato, da sempre fino ad oggi, profondamente antifascista, e di non riuscire a trovare neppure ora motivi sufficienti a rinnegare o attenuare questa posizione.
Al fascismo dobbiamo la catastrofe dell’Italia, e poco vale il dire che le deboli strutture culturali e dirigenziali d’allora ebbero nella tragedia la loro parte di colpa, e grave. però, e almeno per me, l’essere antifascisti significa rifiutare tassativamente la logica perversa del «con noi o contro di noi»: quando due lupi attaccano la slitta, è privo di senso cercar l’accordo con uno in odio all’altro.
Dunque, i fatti. Il primo dei quali è che dal 23 agosto 1939 al 22 giugno 1941 non vi fu alcuna Resistenza, né comunista , né di altro colore. Anzi, mentre l’Unione Sovietica riforniva generosamente Hitler nella sua guerra contro le democrazie, altresì allungando le mani su quanti territori e popolazioni le venivano a tiro, tutti i partiti comunisti europei si dettero ad aiutare, con disciplina – benché con lacerazioni interiori – lo sforzo di guerra tedesco e italiano.
Pochi sanno che nel febbraio 1940 i francesi fucilarono tre operai comunisti della Renault colpevoli di aver sabotato i carri armati della III Repubblica, su ordini venuti da Mosca. Piccolo ma allucinante episodio che deve essere iscritto nel quadro più generale della propaganda disfattista che il Partito comunista francese esplicò con grande violenza sia prima della guerra che durante essa, al solo scopo di adeguarsi alle folli direttive di Mosca. Non c’è dubbio che l’insieme di questi fatti abbia prolungato di quasi due anni un conflitto che già era scoppiato per una fin qui taciuta ma chiarissima corresponsabilità di Stalin.
nello stesso periodo, i comunisti italiani lungi dal combattere Mussolini lo aiutarono potentemente, motivo per il quale molti di loro dovrebbero o avrebbero dovuto esser portati in giudizio per «atti rilevanti», alla stessa stregua di quei gerarchi o gerarchetti che avevano contribuito a mantenere il dittatore romagnolo al potere.
Su questo periodo, le varie storie del Pci son curiosamente monche o tacciono del tutto, e d’altra parte nessuno storico non comunista si è ancora azzardato a metterci il naso, forse a scanso di brutti incontri: com eper esempio il patto sottobanco che certamente esistette tra il Partito comunista e Mussolini. Se così non fosse, non si riuscirebbe a spiegare come mai dal settembre 1939 venne rimandata a casa la gran massa dei confinati e dei prigionieri nelle carceri fasciste.
Né come mai il Tribunale speciale cessò di colpo la sua attività, riducendo ad un decimo le condanne sino a quel momento generosamente erogate. E neppure come mai non vi sia traccia di uccisioni, sabotaggi o propaganda comunista almeno sino al giugno 1941, ma a ben vedere sino al colpo di Stato del luglio 1943: sul quale, del resto, tutte le verità non sono state ancora dette.
Dobbiamo chiederci, in più, a che sia dovuto uno degli straordinari “passaggi” nei rapporti tra fascismo e comunismo del tempo di guerra, quel rientro in Italia tra la fine del 1942 ed il colpo di Stato dei capi e dei gregari comunisti fino a quel momento ristretti nei campi francesi dello stato di Vichy. Una nostra commissione visita i campi, chiedendo ai singoli se desiderano rientrare in Italia, e la gran massa accetta.
Accettano anche i capi, quasi tutti provenienti dalla lotta armata di Spagna, e dunque – almeno in teoria – avversari irriducibili di Mussolini e del fascismo. Ma Mussolini non li fucila, né li mette in prigione. Al 25 luglio li troviamo al confino di Ventotene, sostenuti dalla modesta ma sicura paga settimanale dello Stato. E’ difficile sottrarsi all’impressione che le scelte comuniste (almeno quando si trattò di scelte e non di rimpatri forzosi) non abbiano obbedito ad uno speciale “contratto”, che entrambe le parti rispettarono. E che certamente sottintese la salvaguardia di un “canale di comunicazione” che Mussolini – altrettanto certamente – ebbe con Stalin fino all’aprile 1945.
Come tutti sanno e come d’altra parte è incontrovertibile, la Resistenza comunista comincia soltanto con l’8 settembre del 1943, altro momento della storia italiana sul quale maggiori e risolutive luci verranno – si spera – in avvenire. Ma perché comincia proprio in quel momento, e soprattutto, su quale tema centrale prende forma?
C’è voluto molto tempo, quasi mezzo secolo, per capire che questo tema fu al novanta per cento il vincolante obbligo nel quale il Pci, come del resto tutti gli altri partiti comunisti europei, si trovò a dover rispettare nel sanguinoso tentativo di aiutare l’Unione sovietica nel proprio disperato sforzo di far fronte in qualche modo alla sua catastrofica situazione militare. nell’autunno 1943, pur dopo grandi vittorie come a Stalingrado e Kursk, l’Unione è quasi al termine delle sue risorse umane, dilapidate prima nella pazzia canicolare delle purghe staliniane e poi in una condotta di guerra che produce dieci cadaveri russi per uno tedesco.
Sul piano politico-militare non esiste per Stalin alcuna certezza di poter condurre a termine la “Grande Guerra Patriottica” con una vittoria, se allo sforzo non contribuiranno con potenti sbarchi in Francia gli alleati anglosassoni. ma lo faranno o staranno a guardare?
Fino al 6 giugno 1944, l’unica e parziale medicina per questo dilemma sovietico è la creazione e alimentazione in tutti i Paesi occupati dai tedeschi di resistenze più o meno forti e aggressive, capaci di attrarre e fissare in altri settori che non il fronte russo le scarse riserve centrali di Hitler. E’ su questo terreno di interdipendenza che occorre anzi cercare i motivi profondi, sia del nostro 25 luglio che dell’8 settembre: due avvenimenti che si risolsero essenzialmente in un forte aumento delle servitù della “Wehrmacht”, e nel contemporaneo, grande sollievo dell’Armata rossa.
Ho già esaminato questo problema storico altre volte, e non è necessario tornarci sopra: ma è bene sottolineare che questi due avvenimenti centrali della nostra storia recente si verificano con una sorprendente ed ancora non spiegata acquiescenza fascista. Mistero non piccolo, sul quale occorrerà battere per l’avvenire indirizzi d’indagine polarmente opposti a quelli che si sono utilizzati fin qui.
Sin dall’ottobre 1943, scende nella lotta una resistenza comunista deliberatamente radicalizzata, imperniata non sul criterio dell’azione di massa, quanto sull’attacco pressoché individuale agli uomini del risorto Partito fascista. Le città del nord, Milano, Torino, Genova sono assenti, incerte tra il sollievo di una guerra terminata ma non finita e la rassegnazione della sconfitta.
Sono “attendiste”, come la propaganda comunista, sottile come sempre, le definirà: e sono attendisti, ma in senso nobile e pensoso, anche i gruppi militari che hanno preso la via della montagna. I fascisti, su cui pesa storicamente la grave colpa di aver ricostruito strutture non capaci, per mancanza di consenso sufficiente, di sopravvivere politicamente persino nel caso di una guerra vinta, ma da altri, ondeggiano incerti tra l’astrazione moralistica dell’ «onore e combattimento» e la cupa consapevolezza di un destino comunque già segnato.
Il radicalismo comunista innesca – di fatto – la guerra civile ed essa si esalta via via in una spirale di violenze che divengono ben presto estreme. Importanti forze, sia repubblicane che tedesche, vengono assorbite non dalla linea di combattimento, ma dalla necessità di tenere aperte linee di comunicazione. Il risultato principale è quello di scavare un fossato molto ampio di natura permanente tra le parti in lotta. Ho già altra volta sottolineato che i venti mesi tra l’8 settembre e la Liberazione han comportato più morti, più guasti morali e più perdite materiali di quante l’Italia non ne abbia sopportati nei 38 precedenti mesi di guerra “regolare”.
E’ emblematico il caso di via Rasella e delle Fosse Ardeatine: azione, la prima, condotta in una città aperta al solo scopo di provocare un’azione tedesca, nel quadro di un supporto di natura militare alla Russia sovietica. E’ in questo stesso momento che Togliatti, in una identica ottica, plana a Salerno, attua la sua sorprendente “svolta” col dichiarato fine di riportare gli italiani al combattimento. In Sicilia, son proprio i comunisti come Memmo Li causi, che si battono per indurre i giovani “picciotti” ad obbedire ai richiami alle armi di Badoglio. nel momento della sua più acuta crisi militare, all’Urss serve ogni filo d’erba.
Se questa finalità della Resistenza comunista in Italia (ma la si ritrova identica in tutte le Resistenze comuniste europee) è vera, allora bisogna chiedersi se essa servì davvero ai fini permanenti della nostra nazione: in altre parole, se essa fu utile e necessaria alla soluzione del nostro dramma. Interrogativo che prima di ogni altra cosa vale a distinguerla dalle altre Resistenze, non comuniste, che operarono con altre motivazioni e finalità: e poi collocarla in un quadro storico molto complesso nel quale l’interrogativo deve essere spostato sulla presunta utilità, ma comunque anche sui grandi danni, che la vittoria sovietica rappresentò per l’Europa e per il mondo.
Fino a ieri poteva anche sembrar plausibile concludere, nonostante tutto, per un saldo attivo: in definitiva, a scomparire fu Hitler, le cui Armate trovarono la loro tomba appunto in Russia. ma oggi comincia a farsi largo la sgradevole sensazione che il mezzo secolo di grandi guai che sta alle nostre spalle debba essere ascritto al fatto che ci si servì di un lupo per liberarsi di un altri lupo.